Dal 2018 il Partito Democratico è afono su temi cruciali come quello della difficoltà crescente delle imprese per trovare il personale, dell’arretratezza delle politiche attive del lavoro, dell’adeguamento dei salari alle differenze del costo della vita effettivo – Ma le divergenze irrisolte in seno al partito riguardano anche altre materie
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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi, pubblicata su Italia Oggi il 23 febbraio 2023 – In argomento v. anche L’ambivalenza del Pd sul JKobs Act: ivi il link che consente di risalire ai post precedenti sullo stesso tema
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«Se Stefano Bonaccini sarà eletto non potrà continuare a eludere la frattura che c’è nel partito sul lavoro. Dico di più: chiunque sia il segretario che uscirà dal voto di domenica, dovrà condurre il Pd a ridarsi una politica del lavoro, che da cinque anni a questa parte è mancata del tutto». Pietro Ichino, giuslavorista dell’Università Statale di Milano, tra i fondatori del Pd e padre del Jobs act, guarda alla prossima segreteria, quella che uscirà dalle primarie di domenica, come l’ultima occasione per la rinascita del partito. A patto di sanare alcune fratture e infrangere alcuni tabù duri a morire: dal tema dei licenziamenti, dove la sinistra interna capitanata da Elly Schlein, vorrebbe il ritorno all’Articolo 18, ai salari adeguati alle differenze di costo della vita, al merito nella scuola. Le alleanze? «Il Pd commetterebbe un errore a rinunciare alla sua vocazione maggioritaria: solo se sa essere il punto di riferimento di una maggioranza può allearsi con i 5stelle e con il Terzo polo». L’esperimento di Renzi-Calenda però alle ultime Regionali è stato un mezzo fallimento. Si prospetta un destino simile a quello di Scelta civica? Ichino, che condivise l’esperienza di Monti, risponde: «L’ideale liberal-democratico da solo non sembra in grado di mobilitare grandi masse di elettori… Forse questo significa che il compito dei liberal-democratici è quello di impegnarsi dentro i partiti maggiori di centrodestra o di centrosinistra, contro i populismi e gli estremismi di destra e di sinistra».
Domanda. Professor Ichino, domenica ci sono le primarie del Pd. I due candidati in pole position sono d’accordo nel mettere tra parentesi le loro differenze di visione e di programma. Lei invece ha pubblicato recentemente un saggio in cui parla di un Pd con “due anime che non si parlano”. Come stanno veramente le cose?
Risposta. In questo passaggio congressuale la preoccupazione di evitare l’ennesima scissione ha fatto aggio sull’esigenza di chiarezza sui temi cruciali. È una preoccupazione comprensibile. Però quindici anni fa il Pd è nato proprio sulla scommessa di essere capace di tenere saldamente insieme queste due anime, di essere luogo di dialogo tra esse e di sintesi. Se vuole risorgere, dunque, il Pd deve mostrare di saper restare unito anche affrontando apertamente le divergenze.
Quali sono, secondo lei, le divergenze che questo congresso ha messo in sordina?
R. La più grave riguarda la politica del lavoro. Ma a ben vedere serpeggia anche un dissenso sulla politica internazionale e in particolare sulla guerra in Ucraina, che non va sottovalutato.
Visto che, tristemente, oggi è l’anniversario dell’inizio dell’invasione russa, incominciamo da questo punto di divergenza.
R. Nel Pd, come nel resto del Paese, tutti sono a favore della pace in Ucraina. Su quale sia la pace a cui puntare, però, si contrappongono due orientamenti. Uno è quello secondo cui occorre prioritariamente far tacere le armi, per poi cercare se possibile di trasformare l’armistizio in un vero e proprio trattato di pace. L’altro è quello di chi vede in questa prospettiva il rischio di un premio all’aggressore, poiché gli si consente così di consolidare il dominio di fatto sui territori occupati. Cioè di chi vede il rischio di ripetere l’errore della conferenza di Monaco del 1938, che cercò di evitare la guerra perdonando a Hitler le sue prime zampate imperialiste.
Chi ha ragione?
R. Penso che siano purtroppo fondati i timori dei Paesi che la Russia la hanno come vicina di casa. La Polonia e le altre repubbliche baltiche percepiscono come un pericolo incombente lo spirito revanchista che costituisce la radice profonda dell’aggressività di Mosca: il desiderio di ripristinare il proprio controllo sui Paesi confinanti, quando non annetterseli senz’altro, per ritornare a una situazione in qualche modo analoga a quella precedente alla caduta del Muro. Nell’ultimo ventennio le zampate imperialiste russe si sono susseguite senza sosta, in tutte le direzioni.
Nel Pd quale dei due orientamenti prevale?
R. Mi sembra che prevalga nettamente il rifiuto di una soluzione che non preveda il ritiro dei russi entro i confini precedenti al 24 febbraio 2022, perché altrimenti l’armistizio sarà soltanto una pausa in una guerra che continuerà a covare sotto le ceneri e prima o poi scoppierà di nuovo. Ma nell’ala sinistra del Pd è ben rappresentato anche l’orientamento favorevole all’armistizio a tutti i costi, dunque contrario al sostegno militare all’Ucraina.
Veniamo alla politica del lavoro. Nel 2007 lei fu coinvolto dal fondatore Veltroni per dare un contenuto riformista al partito sul fronte del lavoro. Da lì nacque l’idea di una riforma che lei aveva battezzato “Codice semplificato del lavoro” e che poi con il Governo Renzi ha preso il nome di Jobs Act. A otto anni dalla sua entrata in vigore, per la Schlein è da cancellare, per Bonaccini da ripensare. Sembra più una convergenza che una divergenza.
R. In occasione della visita di Bonaccini alla Fiat di Torino è sembrato emergere un suo allineamento con Schlein e Cuperlo sulla presa di distanza dal Jobs Act. Ma questa presa di posizione è stata subito corretta: infatti non se ne trova traccia nella mozione congressuale che lo stesso Bonaccini ha poi presentato ed è stata in seguito esplicitamente contraddetta da gran parte dei sostenitori del candidato emiliano, dai “laburisti” di Marco Bentivogli e Giorgio Gori all’Associazione LibertàEguale presieduta da Enrico Morando. Qualche cosa di analogo era accaduto con la presa di posizione analoga del segretario Enrico Letta durante la campagna elettorale per le politiche di settembre.
Non trova che questo ultimo silenzio di Bonaccini possa essere anche strumentale ad evitare di perdere consensi a sinistra a vantaggio della sua avversaria?
R. Lo si può vedere anche così. Ma a me non sembra che Bonaccini sia preoccupato tanto dalla perdita di consensi a sinistra, quanto piuttosto dal rischio di una spaccatura del partito. Se sarà eletto, però, non potrà continuare a eludere la frattura che, su questo tema, in seno al partito c’è, eccome. Dico di più: chiunque sia il segretario che uscirà dal voto di domenica, dovrà condurre il Pd a ridarsi una politica del lavoro, che da cinque anni a questa parte è mancata del tutto.
A partire dal tema dei licenziamenti?
A partire dall’intera riforma che si è progressivamente realizzata con la legge Fornero e il Jobs Act, con cui il diritto del lavoro italiano è stato armonizzato con quello del resto della UE, ma soprattutto affrontando temi nuovi cruciali come quello degli enormi giacimenti occupazionali inutilizzati: le imprese hanno gravi difficoltà a trovare persone qualificate o specializzate, ma anche manodopera non qualificata. È urgente aprire un discorso serio sul controllo capillare del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi.
Lei davvero pensa che un Bonaccini segretario del Pd sarebbe capace di rompere i tabù della sinistra contro la differenziazione dei salari in base alle differenze di costo della vita, contro il merito nella scuola, contro la misurazione dell’efficacia della formazione professionale?
R. Tra i due candidati di testa alla segreteria Bonaccini è quello che ha più chiara la necessità di affrontare criticamente questi tabù e ha la cultura politica e la statura necessarie per farlo.
Ma per far questo, il nuovo segretario dovrebbe proporre un’idea-forza chiara, ben percepibile dagli elettori, e saper mobilitare il partito su di essa. Proprio quella che al Pd oggi sembra mancare.
R. Il nuovo leader dovrà impersonare un’idea di società fondata sulla combinazione di cinque principi, che a ben vedere sono altrettante facce di un principio solo: economia aperta nel quadro di una Europa unita; piena contendibilità di ogni funzione, pubblica e privata; pari opportunità per tutti di accesso a ciascuna funzione; trasparenza totale di ciascuna struttura preposta a una funzione pubblica; valutazione rigorosa della sua efficienza ed efficacia.
Un’intesa con i 5Stelle è compatibile con una spinta rifomista ispirata a questi principi?
R. Se c’è una cosa che emerge chiara dalle vicende politiche recenti in tutta la UE è la grande volatilità del consenso degli elettori. Questo è il motivo per cui il Pd commetterebbe un grave errore se, in considerazione delle difficoltà attuali, rinunciasse alla propria vocazione maggioritaria. Che non significa rifiutare pregiudizialmente le alleanze con altri partiti, ma aspirare a costituire la forza che guida una maggioranza di governo di centrosinistra. Se il Pd riesce a ritrovare questo ruolo, può poi permettersi, dove necessario, anche un’alleanza con il M5S, come con il Terzo Polo.
Già, il Terzo polo. Che però alle ultime regionali è andato maluccio.
R. Le difficoltà che la forza politica guidata da Calenda e Renzi incontra devono far riflettere.
Quale riflessione? Lei è stato protagonista di un’altra esperienza terzopolista, quella di Scelta civica. Alle elezioni del 2013 il partito di Mario Monti ottenne il 10 per cento dei voti; già dopo un anno, però, il gruppo cominciò a sfaldarsi. Significa che per un partito liberal-democratico in Italia non c’è spazio?
R. L’ideale liberal-democratico da solo non sembra in grado di mobilitare grandi masse di elettori. Dieci anni fa non fu in grado nemmeno di tenere unito un gruppo di persone colte e perbene elette sotto il simbolo di SC: al dunque hanno prevalso le divisioni fra “laici” e “cattolici”, o fra chi era più orientato a cercare alleanze a destra e chi più a sinistra. Forse questo significa che il compito dei liberal-democratici è quello di impegnarsi dentro i partiti maggiori di centrodestra o di centrosinistra proponendosi di diventare egemoni nell’uno e nell’altro schieramento. Ma anche – perché no? – di lavorare, dove possibile, per indurre i partiti maggiori dell’una e dell’altra parte a fare fronte comune contro gli estremismi e i populismi di destra e di sinistra.
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