Una riflessione a 360° sull’impatto che la riforma del 2003 ha avuto sul diritto del lavoro italiano e sul modo in cui i giuslavoristi italiani si sono ad essa rapportati
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Intervista a cura di Michele Tiraboschi, pubblicata nel libro da lui curato Vent’anni di Legge Biagi, Adapt University Press, 2023, pp. 77-87 – È online su questo sito anche una mia recensione dello stesso libro – In argomento v. anche il mio articolo pubblicato il 18 marzo 2022 sul dorso bolognese del Corriere della Sera, La campagna di fake news sulla legge Biagi
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Sin dalla fase di progettazione la legge Biagi ha innescato un dibattito pubblico, a tratti molto duro e violento, che ancora oggi ruota attorno ai concetti di flessibilità e precarietà. Lo stesso si può dire, almeno in parte e con le dovute eccezioni, per il dibattito scientifico dove il tema dominante, nella fase di approvazione della legge, è stato quello dell’articolo 18 e della proliferazione di tipologie di lavoro atipico. A vent’anni di distanza che bilancio trai di questo dibattito?
Fin dall’inizio mi è apparso come un dibattito fortemente viziato dalla faziosità di troppi nostri colleghi appartenenti all’ala sinistra giuslavoristica, che squalificarono totalmente quella legge come foriera soltanto di precarizzazione dei rapporti di lavoro, rifiutando di riconoscere che essa non conteneva neppure un solo nuovo sotto-tipo di contratto di lavoro “precario”; essa ridisciplinava – sì – le collaborazioni autonome continuative, ma in senso fortemente restrittivo coll’imporre il requisito della stretta funzionalizzazione del contratto a un progetto ben determinato. Per il resto, i due soli sotto-tipi nuovi di contratto di lavoro previsti e disciplinati dalla legge Biagi erano: il c.d. Job-sharing, ovvero il “lavoro gemellato”, che non aveva in sé nulla di precario consistendo soltanto nella coniugazione elastica di due rapporti di lavoro a tempo parziale, con coobbligazione solidale per l’intera prestazione in capo a entrambi i partner (la cui disciplina non era altro che la recezione in legge di una circolare emanata dal ministro del Lavoro Treu nel 1997); e il c.d. Staff-leasing, ovvero la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, nell’ambito della quale era previsto un rapporto di lavoro somministrato a tempo indeterminato assistito da piena stabilità, anzi: più stabile del rapporto di lavoro ordinario, perché in questo caso non era ammesso il licenziamento collettivo da parte dell’agenzia somministratrice, neppure nel caso di cessazione del contratto di somministrazione. A ben vedere, era molto più marcata la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro contenuta nel “pacchetto Treu” del 1997, che per la prima volta aveva introdotto nel nostro ordinamento la somministrazione di lavoro, tipicamente a termine, e aveva alleggerito i vincoli in materia di lavoro a tempo parziale; ma quella legge era stata fatta da un Governo di centro-sinistra e dunque la sinistra giuslavoristica si limitò a qualche mugugno. Quando poi il centro-sinistra tornò al potere, nel 2006, la parola d’ordine fu “abrogare la legge Biagi”; senonché il ministro del Lavoro Damiano, al dunque, non trovò in essa nessun contenuto “precarizzante” che si prestasse a essere abrogato. Se la prese, dunque, soltanto con il Job Sharing e lo Staff leasing, i quali con la precarizzazione del lavoro non avevano nulla a che fare, ma avevano la colpa di essere comunemente indicati con un nome inglese: essi furono usati come “scalpo politico” da esibire all’opinione pubblica di sinistra per poter dire che si voltava pagina rispetto alla legge Biagi.
La quale, peraltro, conteneva anche un robusto capitolo dedicato all’organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, che è stato oggetto di assai scarsa attenzione. Semplificando è il tema delle politiche attive del lavoro che ancora oggi latitano nel nostro Paese. Hai una spiegazione per questo?
Quella prima parte della legge del 2003 costituiva il completamento necessario della riforma avviata nel 1997 dal Governo di centro-sinistra. La sinistra giuslavoristica imputò a questa parte della legge l’apertura del mercato del lavoro ai servizi offerti dagli operatori privati accreditati; ma questa apertura era stata già disposta dal decreto legislativo 23 dicembre 1997 n. 469, a seguito della sentenza Job Centre II della Corte di Giustizia europea di due settimane prima. Solo che ci erano poi voluti altri due anni prima che i regolamenti necessari venissero emanati; cosicché la presenza degli operatori privati nel mercato del lavoro incominciò a essere percepita soltanto dopo altri due o tre anni. Sta di fatto, comunque, che l’attenzione della sinistra giuslavoristica si è sempre concentrata molto di più sulla regolazione del rapporto di lavoro che sulla regolazione del mercato, anche perché nella sua cultura ha sempre pesato molto l’eredità della negazione marxiana dell’idea stessa del mercato del lavoro come luogo di incontro negoziale tra una domanda e un’offerta, ovvia conseguenza della negazione dell’idea stessa del contratto di lavoro (“foglia di fico che copre la vergogna della dittatura de padrone sull’operaio”). La sinistra giuslavoristica ha sempre creduto molto di più nella difesa del lavoratore dal mercato che nella sua difesa nel mercato.
In realtà, invece, quello della modernizzazione del mercato del lavoro è un nodo storico per il nostro Paese. Il collocamento pubblico non ha mai funzionato a regime mentre gli operatori privati, ammessi formalmente solo nel 1997 con il decreto delegato che hai appena citato, a un quarto di secolo di distanza mostrano qualche vitalità nel nord del Paese, un po’ meno al centro, e quasi per niente al sud. Lo stesso per la fornitura professionale di manodopera che era stata oggetto di regolazione in Francia e Germania già all’inizio degli anni Settanta. Quali sono le ragioni di questo ritardo e di questa diffidenza verso gli operatori privati?
Nella cultura del lavoro dominante nel nostro Paese l’importanza dei servizi al mercato del lavoro (informazione, orientamento, formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, sostegno alle persone nelle transizioni professionali) è sempre stata misconosciuta, non solo a sinistra, ma anche a destra. Ancora oggi, a destra come a sinistra, sembra che siano pochissimi a rendersi conto dell’enormità scandalosa del dato emergente dall’indagine Unioncamere-Anpal, secondo la quale le imprese incontrano difficoltà per reperire il personale qualificato e specializzato che cercano nel 45 per cento dei casi. Quasi un milione e mezzo di posti di lavoro restano permanentemente scoperti a causa dell’incapacità del sistema di attivare i percorsi di addestramento o di formazione mirata indispensabili per rispondere a questa domanda espressa dal tessuto produttivo: si tratta di enormi giacimenti occupazionali che vengono sprecati a causa del malfunzionamento dei nostri servizi al mercato del lavoro. Se fossimo in grado di sfruttarli, essi basterebbero per dimezzare il nostro tasso di disoccupazione, riportandolo al di sotto della soglia della c.d. “disoccupazione frizionale”, cioè di un fenomeno generalmente considerato fisiologico. Questa svalutazione bi-partisan delle politiche attive del lavoro può spiegarsi in parte con una caratteristica tipica delle amministrazioni pubbliche italiane: quella per cui esse sono strutturate essenzialmente in funzione dell’applicazione di procedure, essendo responsabilizzate soltanto in relazione al rispetto delle stesse ma non al conseguimento di risultati apprezzabili. Caratteristica, questa, che connota fortemente anche le strutture amministrative preposte al governo del mercato del lavoro, per lo più idonee soltanto allo svolgimento di attività di natura burocratica ma non di servizi utili a mettere in comunicazione domanda e offerta di lavoro. Donde una generale sfiducia nell’utilità effettiva delle politiche attive del lavoro e comunque la preferenza della politica per le politiche passive, ovvero il sostegno del reddito a chi perde il lavoro o stenta a trovarlo, cui vengono dedicate quasi tutte le risorse disponibili.
Come è chiaramente indicato nel Libro Bianco del 2001, le raccomandazioni europee in materia di flessicurezza sono state il faro della riforma. Lo slogan era “meno tutele nel contratto e più sostegno nel mercato del lavoro”. Questa ricetta è da rimeditare o hai notato difetti tecnici di attuazione? Intendo dire, è una formula superata o comunque legata a specifici contesti culturali come quelli del Nord Europa ma improponibile in Italia?
Si legge in diversi scritti che la parola d’ordine della flexsecurity sarebbe stata ormai abbandonata anche dagli organi dell’UE che l’avevano fatta propria negli anni ’90. A me non sembra affatto che sia così. Al contrario, essa a me appare sempre più attuale, quanto più diventa evidente la necessità di rovesciare il paradigma del mercato del lavoro: non più soltanto luogo dove sono gli imprenditori a scegliere i propri collaboratori, ma anche luogo dove i lavoratori per la maggior parte scelgono l’imprenditore meglio corrispondente alle rispettive esigenze, più capace di valorizzare il loro lavoro. E quanto più diventa evidente che la protezione del lavoro deve consistere nell’assicurare la possibilità effettiva di “usare il mercato”, ossia una possibilità di scelta tra diverse alternative, anche alla parte della forza-lavoro che ancora non la ha. Assicurare questa possibilità a tutti non è un’utopia: è il compito assegnato alla Repubblica dall’articolo 4 della Costituzione, di rendere effettivo il diritto-dovere di ogni persona di dare il proprio contributo al progresso materiale e spirituale della società “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”.
È il tema del tuo libro del 2020, L’intelligenza del lavoro.
Sì. Ma il dato da cui prende le mosse il ragionamento proposto in quel libro – la difficoltà che gli imprenditori incontravano a fine 2019 per trovare non solo il personale qualificato o specializzato che cercavano, ma anche gli operai comuni e i manovali – da allora è fortemente aumentato, imponendosi all’attenzione generale. Si è assistito al paradosso dell’aumento della mobilità spontanea dei lavoratori, dunque della loro possibilità effettiva di scelta dell’impresa per cui lavorare, proprio nella fase culminante della recessione più grave da un secolo a questa parte, causata dalla pandemia. Il fenomeno della Great Resignation, rilevato inizialmente negli U.S.A. ma rivelatosi subito comune a tutti i Paesi dell’Occidente sviluppato, Italia compresa, non è altro che un’accentuazione – forse congiunturale, forse no – di quella mobilità spontanea di una parte molto rilevante della forza-lavoro che in Italia veniva rilevata e studiata da Bruno Contini ed Ugo Trivellato già nei primi anni del nuovo secolo. La quale significa che il mercato del lavoro maturo non è più rappresentato – per lo meno non lo è più nella sua manifestazione tipica e largamente prevalente – dal modello economico del monopsonio strutturale, dell’impresa-cattedrale nel deserto della disoccupazione o della sotto-occupazione agricola, come lo era all’indomani della prima rivoluzione industriale. Oggi nei Paesi sviluppati, se si eccettuano situazioni particolari, il difetto di potere negoziale di cui può soffrire una persona nel mercato del lavoro non è più la conseguenza del trovarsi di fronte a un unico possibile “compratore”, bensì dal difetto di informazione circa la pluralità dei possibili imprenditori interessati e/o dal difetto di servizi di formazione mirati al soddisfacimento di una abbondantissima domanda espressa dal tessuto produttivo, che stenta a trovare l’offerta di manodopera corrispondente. È questo il motivo per cui la protezione del lavoro, oggi, non può più consistere come all’indomani della prima rivoluzione industriale nella negazione dell’autonomia negoziale delle persone che vivono del proprio lavoro, cioè nella loro difesa dal mercato, bensì deve consistere essenzialmente nella loro difesa nel mercato, ovvero nel rafforzamento della loro capacità effettiva di scelta: quindi nel potenziamento dei servizi di informazione sulle opportunità occupazionali esistenti, di formazione mirata a renderle accessibili, di assistenza e sostegno alla mobilità geografica e professionale. Il mercato del lavoro, come tu da tempo insegni, è sempre più un mercato transizionale, nel quale cioè la sicurezza della persona che lavora non può più essere data dall’ingessatura del rapporto di lavoro di cui essa è titolare, ma deve consistere nella disponibilità di percorsi sicuri da una occupazione a un’altra. È l’idea che il ministro del lavoro di Bill Clinton, Robert Reich, sintetizzava nello slogan better to have routes instead of roots.
Uno dei freni alla piena attuazione della legge Biagi è stata la diffidenza di una parte rilevante del sindacato, ostile in generale alla riforma ma anche ad assumere compiti e responsabilità rispetto al funzionamento del mercato del lavoro. Eppure, come hai scritto nel tuo studio del 1982 su Il collocamento impossibile, il servizio all’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro è una funzione naturale del sindacato, una dimensione fondamentale rispetto alle trasformazioni del lavoro, anche nella prospettiva di un rilancio in Italia del modello di sindacalismo associativo. Perché questa ostilità anche rispetto a manifestazioni di bilateralismo nella sempre più delicata funzione di costruzione sociale dei mercati del lavoro e di avvicinamento tra la domanda e l’offerta di lavoro? Pensi che sia una diffidenza ad abbandonare il modello di sindacato conflittuale o la paura di snaturarsi in associazioni di servizio?
Nel movimento sindacale italiano la cultura della difesa dei lavoratori dal mercato, invece che nel mercato, figlia dell’invettiva marxiana contro l’idea stessa del “contratto di lavoro” di cui abbiamo parlato prima, ha prevalso nettamente per tutto il secolo passato. E nel nuovo secolo essa appare ancora fortemente radicata e diffusa. Per altro verso, anche nelle confederazioni sindacali più capaci di affrancarsi da quella cultura, come la Cisl e la Uil, prevale tuttora una definizione del proprio ruolo in chiave esclusivamente contrattuale: il sindacato come l’agente che negozia con la controparte, sia essa imprenditoriale o governativa, la regolamentazione dei rapporti di lavoro e dei rapporti previdenziali connessi. A più di un secolo di distanza sembra essersi del tutto perduta l’idea del servizio alle persone nel mercato del lavoro, che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento costituì la prima funzione delle camere del lavoro, delle leghe bracciantili della pianura Padana, delle grandi istituzioni del movimento operaio quali la Società Umanitaria di Milano. La quale accoglieva gli immigrati alla discesa dal treno offrendo loro una minestra calda e un primo tetto, ma subito dopo offriva loro la formazione necessaria per candidarsi ai posti di lavoro che nell’industria andavano via via aprendosi; e – prima che il regime mussoliniano avocasse al sindacato unico fascista questo ruolo – svolgeva il ruolo dell’ufficio di collocamento con tanta maggiore efficacia quanto più il servizio offerto era apprezzato dalle imprese. Anche i centri di formazione dei salesiani, del resto, svolgevano efficacemente questa funzione. Di quella stagione, nella cultura attuale del movimento sindacale italiano, non è rimasto nulla.
La legge Biagi assegnava compiti di placement anche alle scuole e alle università nella prospettiva di una maggiore integrazione tra sistema educativo e formativo e mercato del lavoro. Anche questo è uno storico tabù nel nostro Paese, che poi spiega il fallimento dell’alternanza formativa, dei tirocini e dell’apprendistato soprattutto nella prospettiva della costruzione di un sistema di formazione duale anche in Italia. Questa parte della legge Biagi non è stata praticamente attuata e, rispetto alla richiesta di pubblicare e rendere accessibili i curriculum degli studenti, è stata sconfessata da circolari interpretative. Pensi sia una partita persa nel nostro Paese o vi sono spazi per un rilancio?
Non possiamo darla per persa definitivamente, questa partita. Perché dalla ripresa di quel discorso, da una maggiore integrazione tra i sistemi dell’istruzione e della formazione e il tessuto produttivo, dipende anche la speranza di colmare il gap qualitativo che oggi si registra fra domanda e offerta di lavoro, dal quale deriva il tasso altissimo di disoccupazione giovanile nel nostro Paese. Ma ne dipende anche, a ben vedere, la possibilità di aumentare la produttività del lavoro, che in Italia ormai da un quarto di secolo ristagna.
Altro tema su cui vi è stata una fortissima polemica sindacale e anche politica sono le misure di inserimento agevolato di cui agli articoli 13 e 14 del decreto legislativo 276 del 2003. Si è parlato di mercificazione e ghettizzazione dei disabili e dei gruppi svantaggiati. Era proprio così?
Quei due articoli del decreto delegato, in realtà, miravano pragmaticamente ad aumentare il flusso delle assunzioni di persone disabili. È vero, però, che su quel terreno sarebbe stata – e sarebbe tuttora – necessaria una riforma profonda del sistema ispirata al modello svedese, che è fondato sul principio della “neutralizzazione dell’handicap”: collocare la persona là dove la sua disabilità non produce un deficit di produttività, fornendole l’addestramento specificamente necessario in collaborazione con l’impresa interessata e coprendo interamente, dove necessario, anche il costo necessario per l’adattamento strutturale del posto di lavoro. Vero è, d’altra parte, che è difficile pensare a un servizio di questo genere innestato su di una struttura amministrativa come la nostra, che non è in grado neppure di attivare i percorsi necessari per collocare le persone normo-dotate.
Grande fiducia era poi riposta nei regimi di accreditamento, per la rete regionale dei servizi al lavoro, e nella borsa nazionale del lavoro, strumento moderno e agevolato dalle nuove tecnologie. Sono strumenti ancora attuali o dobbiamo guardare altrove?
Quando la previsione della borsa nazionale del lavoro uscì, nel 2003, la criticai perché non credevo all’idea di un sistema informatico unificato che consentisse di mettere automaticamente in contatto tra loro tutte le domande e le offerte di lavoro: sia la domanda sia l’offerta sono sempre meno suscettibili di una classificazione utile per la loro ricerca reciproca, anche – ma non soltanto – a causa della sempre più rapida evoluzione delle tecniche applicate. Poi, però, nell’ultimo decennio ho visto nascere diverse piattaforme digitali per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, alcune delle quali sembrano essere molto efficaci: le tecniche di “lettura” della domanda e dell’offerta si sono dunque evidentemente molto evolute. Sta di fatto, però, che le piattaforme capaci di funzionare bene richiedono un aggiornamento costante della “griglia di lettura”, in relazione all’evoluzione delle tecniche applicate, del quale non credo che l’amministrazione pubblica possa essere capace. Quanto ai regimi di accreditamento degli operatori privati, mi sembra che questa parte della Legge Biagi abbia dato nel complesso buona prova, anche se si osserva un forte squilibrio tra lo sviluppo di questa attività al centro-nord e nel sud del Paese.
Ma i regimi di autorizzazione delle agenzie private di collocamento hanno ancora senso? Le agenzie autorizzate sono pochissime, mentre c’è un proliferare di agenzie di ricerca e selezione che di fatto operano con requisiti inferiori sempre nell’area del collocamento. In tutto questo non hanno perso peso intermediari non autorizzati, caporali che ancora oggi governano ampie quote di “somministrazioni” soprattutto in agricoltura e in edilizia. Cosa non funziona di quel modello?
Per quel che riguarda i servizi di informazione per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, ivi compresi quelli di ricerca e selezione del personale, la mia idea è sempre stata che più ce ne sono meglio è. E che distinguere i primi dai secondi non abbia molto senso. Le sole cose che occorre assicurare è che essi siano totalmente gratuiti per i lavoratori e che operino in modo trasparente e imparziale, rispettando rigorosamente i divieti di discriminazione. Chi svolge questa funzione in modo professionale, continuativo, dovrebbe dunque essere assoggettato al solo obbligo dell’iscrizione in un apposito elenco, che renda possibile la sorveglianza dell’Ispettorato del Lavoro sulla sua attività. Quanto al caporalato, con questa espressione, a mio avviso, si indicano dei fenomeni molto diversi tra loro, che richiedono misure corrispondentemente diverse. Nei casi più gravi il “caporale” è un vero e proprio fornitore di attività lavorativa, che la organizza e la sfrutta – sempre in modo iniquo e talora anche in modo brutale, ai limiti e anche oltre i limiti della riduzione in schiavitù – approfittando per lo più dell’incapacità delle persone coinvolte di farsi valere per ignoranza dei loro diritti, incapacità di esprimersi, mancanza dell’assistenza necessaria per trovare lavoro altrove, sovente anche a causa della loro condizione di immigrazione clandestina. Nei casi meno gravi è soltanto un reclutatore e trasportatore (talvolta con un automezzo del tutto inadeguato) di persone al luogo di lavoro; in quest’ultimo caso, a ben vedere, il “caporale” supplisce a una carenza di servizi pubblici informazione e assistenza delle persone (soprattutto degli immigrati), nonché di trasporto: basterebbe istituire questi servizi e farli funzionare in modo efficiente e sicuro per risolvere il problema.
Nel dibattito ciclico sulle riforme del lavoro in Italia mancano valutazioni di impatto ex ante ma anche valutazioni ex post. La legge Biagi prevedeva la messa a regime di un sistema di monitoraggio statistico e valutazione delle politiche del lavoro. Avviata la relativa commissione tecnica tutto si è fermato. Perché questa assenza di una cultura della valutazione che aiuterebbe a rendere meno violento e ideologico il confronto tra idee e visioni su come modernizzare il nostro mercato del lavoro?
Il problema si è riproposto con la legge Fornero del giugno 2012: essa prevedeva una rilevazione sistematica dei propri effetti, che in parte è mancata del tutto, in parte (quella relativa al contenzioso giudiziale) è stata attuata dal ministero della Giustizia, che però non pubblica i dati raccolti. Nelle amministrazioni italiane manca del tutto la consapevolezza dell’importanza della disponibilità dei dati sull’applicazione delle leggi al fine dello studio del loro impatto. Ma a questo proposito, prima ancora che l’inadempimento dell’obbligo di raccolta e pubblicazione dei dati da parte delle amministrazioni, deve essere denunciato l’inadempimento pressoché totale della propria funzione di controllo sull’implementazione delle misure di politica del lavoro da parte dell’ente che vi sarebbe preposto, ovvero l’I.N.A.P.P., che altro non è se non l’ex-I.S.Fo.L.: un ente in cui sono occupate molte centinaia di persone, che costa ogni anno circa 100 milioni di euro (assai più del C.N.E.L., di cui nel 2016 il Parlamento aveva disposto la soppressione!), ma tuttavia incapace di rilevare direttamente alcun dato sul funzionamento effettivo dei servizi per l’impiego italiani, del tutto afono sulla loro inefficienza e sui loro gravissimi ritardi rispetto agli altri maggiori Paesi europei, indifferente allo scandalo della mancata implementazione del sistema di rilevazione e monitoraggio dell’efficacia della formazione professionale previsto dagli articoli 13-16 del d.lgs. n. 150/2015, come allo scandalo dell’inesistenza di un servizio capillare di orientamento scolastico e professionale degno di questo nome in tre quarti delle regioni italiane. Detto questo, però, a mio avviso il problema non è soltanto di mancato controllo e valutazione sull’implementazione delle politiche del lavoro: noi dovremmo incominciare ad applicare in questa materia un metodo sperimentale già nella fase di progettazione di queste politiche.
Che cosa intendi dire?
Nel 2011 la Fondazione Giuseppe Pera ha promosso a Lucca su questo tema un convegno internazionale che si è concluso con una dichiarazione sottoscritta da 32 economisti e giuristi provenienti da tutte le parti del mondo, nella quale si afferma non solo la possibilità, ma anche la necessità e la piena liceità etica dell’applicazione del metodo sperimentale nel campo delle politiche sociali e del lavoro: lo stesso metodo che si applica obbligatoriamente per l’autorizzazione del commercio di qualsiasi farmaco. Se i policy makers incominciassero ad applicare questo metodo per verificare gli effetti delle misure che intendono varare, come per esempio si è fatto recentemente in Finlandia per studiare gli effetti su un campione di duemila persone di un “reddito di base” erogato a ogni cittadino solo in quanto tale, il dibattito sulle politiche del lavoro sarebbe molto meno ideologico e più fondato sulle evidenze empiriche.
Una ultima domanda: pensi che il giudizio in larga parte negativo sulla legge Biagi, diffuso nell’opinione pubblica, sia dovuto alla mancata implementazione ed effettività del capitolo sulle politiche attive del lavoro? Tu, per esempio, hai sempre creduto nel contratto di ricollocazione, eppure anche di questo strumento si è persa traccia. Ma se è così, non ha allora senso tornare alle vecchie politiche statiche di tutela del posto di lavoro e agli strumenti di sostegno passivo del reddito?
Se escludiamo i miliardi spesi per una formazione professionale di cui nessuno rileva analiticamente l’efficacia – come andrebbe fatto per mezzo dell’anagrafe di cui ho fatto cenno prima – l’Italia spende per le politiche attive del lavoro meno di un centesimo di quello che spende per le politiche passive. Anche perché le politiche passive non richiedono particolari capacità amministrative: erogare un sussidio è cosa che sa fare anche l’amministrazione più rudimentale; le politiche attive, invece, richiedono un know-how operativo sofisticato, che non si acquista dall’oggi al domani, ma richiede anni di formazione e di esperienza del personale che vi è addetto. Per questo la politica italiana non ama le politiche attive del lavoro: perché l’orizzonte programmatico dei Governi non supera quasi mai l’anno e mezzo o due della loro durata probabile, e in uno o due anni non si mette in piedi né una amministrazione capace di attuare un servizio capillare di assistenza ai disoccupati, né una rete di operatori pubblici e privati come quella necessaria per il funzionamento del contratto di ricollocazione; e neanche si può mettere in campo uno stuolo di job advisors capaci di prendere in carico ogni adolescente all’uscita di ciascun ciclo scolastico per tracciarne il profilo delle aspirazioni e delle capacità e indirizzarlo sul percorso migliore verso l’occupazione per la quale è più adatto. I Paesi dove i servizi per l’impiego funzionano hanno dei job advisors con almeno due anni di formazione specialistica post-laurea; l’Italia, invece, è il Paese dove quattro anni fa si è potuto pensare di risolvere il problema dei servizi del lavoro immettendo nel sistema tremila bravi giovani totalmente a digiuno della materia, con un corso di formazione della durata di due settimane. Perché le politiche attive del lavoro nel nostro Paese decollino occorrerebbe un programma di respiro almeno quinquennale, capace di sopravvivere all’avvicendarsi annuale o biennale dei Governi; e capace di offrire anche agli operatori privati una sponda sicura cui fare riferimento per i loro investimenti in questo campo. Detto questo, però, resta il fatto che – come dicevamo poco fa – l’evoluzione del mercato del lavoro non chiede il permesso né ai Governi né all’opinione pubblica. La maggior parte delle persone che vivono del proprio lavoro oggi ha fatto proprio il motto di Reich, better to have routes instead of roots. La mancanza di una rete di servizi efficienti rende certamente i deboli ancora più deboli nel mercato del lavoro; ma non è certo dall’ingessatura del rapporto di lavoro che può derivare la sicurezza dei lavoratori deboli, perché non esiste impresa di cui si possa essere sicuri che esisterà ancora fra cinque anni. Per questo sono convinto che la strategia di protezione del lavoro cui sono ispirate le leggi Treu del 1997, Biagi del 2003, Fornero del 2012 e il Jobs Act del 2014-15, nonostante tutti i ritardi che l’amministrazione del lavoro italiana fa registrare, non abbia serie alternative. Hic rodus, hic salta.
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