ALLA RICERCA DEL CENTROSINISTRA

In una democrazia competitiva, dove è il Governo la posta in gioco alle elezioni, la presenza di un soggetto politico a vocazione maggioritaria non è un’opzione tra le altre (come in troppi pensano oggi in seno al PD): è una precondizione sia per vincere le elezioni, sia per affrontare la prova del governo

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Sintesi dell’intervento pronunciato a Orvieto, Assemblea nazionale di Libertà Eguale, 15 gennaio 2023 – Della stessa Assemblea v. anche la relazione introduttiva di Giorgio Tonini

 

Enrico Morando

Sono molto grato a Giorgio Tonini. La sua relazione indica con chiarezza un posizionamento politico-culturale dei riformisti di centrosinistra “utile“ nella fase che si è aperta con la sconfitta del settembre scorso.

“Utile” per tre decisivi scopi.

In primo luogo, ad attrezzare l’opposizione ad un Governo -quello di Meloni-che nutre grandi ambizioni sulla possibilità di dar vita in Italia -con un robusto fondamento europeo- ad un lungo ciclo di governo della destra conservatrice. Qualsiasi sottovalutazione di questo disegno di Meloni -come hanno sottolineato Ranieri e Minopoli- ci costerebbe assai caro: utilizzando a suo vantaggio la collocazione all’opposizione della CDU -la formazione asse del partito popolare europeo-, Meloni può realisticamente aspirare a mettere in crisi il sistema di governo dell’Unione, da anni fondato sulla cooperazione tra socialisti e popolari, emarginando i primi e attraendo i secondi verso un rapporto privilegiato con la destra conservatrice. Per questa via, il Governo italiano uscirebbe dallo stato di “anomalia“ in cui si trova e costituirebbe in qualche misura un modello di riferimento per l’assetto politico del continente. Operazione molto difficile, date le posizioni ultranazionaliste sostenute da sempre da Meloni e mai motivatamente abbandonate? Certamente. Meloni dovrebbe realizzare un’esplicita conversione della cultura politica sua e del suo partito. Ma non è un’operazione impossibile. Specie se il centrosinistra le facesse la grazia di continuare ad attribuirle disegni autoritari e nostalgie fasciste.

In secondo luogo, “utile“ a ricomporre -nelle mutate condizioni, che hanno portato alla nascita di una federazione di forze di orientamento liberaldemocratico, tramite scissione del PD-, l’unità riformista. L’avevamo realizzata, con la nascita del PD. Ma questa enorme novità -forse a causa della storica debolezza del riformismo italiano- l’abbiamo presto dispersa…

Infine, “utile“ a ridefinire i termini fondamentali di un progetto che- al termine di cinque anni di opposizione- possa essere presentato al Paese, per ottenerne il consenso necessario a dare corpo ad un ciclo di governo riformista.

Grazie a questa relazione, io posso ora limitarmi ad alcune puntualizzazioni, senza l’obbligo di tornare sul quadro generale di contesto. 

1- La prima riguarda la presunta debolezza dell’ideologia democratica, come forza di mobilitazione politica, sociale e ideale.  Lo scontro che si è aperto sul Manifesto dei valori del PD ha questo significato: una delle tradizioni/culture politiche del riformismo di centrosinistra -evidentemente non più consapevole della sua “insufficienza“-, pretende di affermare la sua “superiorità” e  chiede di riconoscerla addirittura nella Carta fondamentale del PD. Questo tentativo ha suscitato una reazione forte, che ha ottenuto un risultato importante: il Manifesto dei valori adottato dal PD subito dopo la sua nascita resterà in vigore. Si è però operata una giustapposizione tra il Manifesto dei valori vigente e quello “nuovo“ che dà il segno della confusione e dell’ambiguità. Un’incertezza che dovrà essere superata dall’Assemblea che nascerà dal Congresso del PD in corso: sarà bene che chi vuole cambiare il Manifesto lo scriva chiaramente nella sua mozione congressuale, acquisendo per questa via la legittimazione che mancava all’Assemblea del PD giunta a fine mandato.

Perché Libertàeguale, che non è una corrente del PD, si è attivamente occupata del Manifesto del PD stesso? Perché se fosse passata la linea proposta in un primo tempo da Letta e Speranza, sarebbero venute meno le condizioni di base per lavorare alla ricomposizione dell’unità riformista, uno degli obiettivi essenziali -da sempre- di Libertàeguale. Ma c’è una seconda, più importante domanda cui voglio rispondere: perché la reazione a questo tentativo di stravolgimento del Manifesto ha potuto avere un relativo successo? Petruccioli e Piras, coi loro interventi, hanno fornito una risposta convincente: perché l’ideologia democratica, in quanto aperta alla conquista di sempre nuovi orizzonti, e in sempre nuovi contesti, manifesta nei fatti una straordinaria potenza e capacità di mobilitazione ideale, politica e sociale. Muove le menti, i cuori, gli interessi. Ecco il significato del trasformarsi dell’aggettivo “democratico” in sostantivo, di cui ci ha parlato Tonini.

Non sono solo i giovani di Hong Kong, le ragazze iraniane, le donne afghane, a confermarcelo. C’è il contributo della resistenza ucraina: ci sono effettivamente valori non negoziabili -la libertà individuale e la possibilità di auto determinazione-, che sono ritornati in forse, sotto l’urto potente delle autocrazie, che considerano questi dei “disvalori“, perché minacciano -con l’esempio di successo che la loro stessa esistenza fornisce, e non con le armi- questi regimi autocratici, che coltivano insieme esigenze di autoconservazione e disegni neoimperiali.

Di qui l’esigenza di una grande battaglia politico-culturale per sconfiggere l’idea che “sì, va bene, dobbiamo essere solidali con l’Ucraina. Ma lo facciamo per buon cuore, perché -al fondo- la loro resistenza, la vittoria o la sconfitta, non ci riguardano”. E invece no. Per una ragione evidente, ma troppo a lungo ignorata: l’ordine internazionale, quello del contesto globale in cui viviamo, con le sue regole e le sue istituzioni, ci riguarda o no? La risposta è ovvia: sì, ci riguarda. Ma l’ordine internazionale dentro cui abbiamo potuto prosperare è fondato -cambiato quello che c’è da cambiare-, sugli stessi valori, regole e istituzioni democratici che sono alla base delle nostre societá. La Russia di Putin li considera disvalori e, aggredendo l’Ucraina che intende abbracciarli, minaccia di travolgere quell’ordine internazionale cui siamo vitalmente legati. Ecco perché la resistenza Ucraina ci riguarda direttamente: quando armiamo gli ucraini, consentendo loro di difendersi, difendiamo noi stessi. E deve essere chiaro che non c’è alleanza politica, calcolo elettorale, intesa di governo che possa spingerci ad un giudizio diverso, ad una scelta di disimpegno: i riformisti di centrosinistra -stando in un unico partito o, come purtroppo accade ora, in più partiti-, debbono garantire oggi, dall’opposizione, che il futuro governo di centrosinistra non avrà alcuna incertezza. Il voto in Parlamento di qualche giorno fa, sull’invio di nuove armi all’Ucraina, da un lato conforta: l’unità riformista ha retto. Dall’altro, mostra l’insidia cui siamo esposti: se si afferma la priorità delle alleanze politiche, non si forniscono ai cittadini italiani le garanzie elementari necessarie sulla collocazione internazionale del Paese.

2- Vengo così a una seconda annotazione, che ha sempre a che fare con la democrazia, perché riguarda i rapporti tra i partiti politici (la Politica) e i cittadini. Il tema è quello della partecipazione. In altri termini, quello della qualità della politica.

Uno studio di qualche anno fa di Eurobarometro ha preso in esame le promesse -o, se volete, gli impegni programmatici- dei partiti e le misure concrete adottate dai governi dopo le elezioni, in 12 Paesi europei negli ultimi 20 anni. Il risultato fu sorprendente: gli impegni programmatici venivano mantenuti, nella media dei 12 paesi, al 60%. In testa alla graduatoria, con il massimo livello di coerenza, il Regno Unito, con il 90%.  A seguire, la Svezia, il Portogallo; poi la Spagna, fino alla Germania col 62%. Col 45%, veniva l’Italia. Come vedete, una media di coerenza tra programmi e realizzazioni molto alta, anche se variabile da Paese a Paese. Questa stessa ricerca, ripetuta in Italia per gli ultimi cinque-sei anni, darebbe risultati imbarazzanti: è dal 2018, ininterrottamente, che presentiamo come un grande merito dei partiti che vincono le elezioni quello di fare esattamente il contrario di quello che hanno promesso in campagna elettorale. Prendiamo  Meloni. No, non  Meloni automobilista alla pompa di benzina… E nemmeno quella sulla ratifica del MES… Sarebbe troppo facile. Prendiamola sulla definizione dell’Unione Europea. Da molti anni, un “fondamentale” per chi voglia fare politica in Italia. Nel marzo del 2019, alla Convenzione dei conservatori americani, Meloni afferma stentorea:” L’Unione europea è un’entità non democratica imposta alle nazioni europee da elite globali nichiliste guidate dalla finanza internazionale“. Non vorrei essere equivocato: so che è un bene – per l’Italia – che Meloni non segua, nell’azione di governo, questo indirizzo. Ben venga, dunque, la polemica contro il governo di Scholz che propugna la reazione “nazionale” alla politica industriale di Biden. Tuttavia, mi chiedo: veramente c’è qualcuno che pensa che la scelta – da parte di chi ha gonfiato il proprio consenso con queste posizioni -, di agire, dal Governo, rovesciandole nel proprio contrario, non logori in radice il filo che lega i cittadini elettori al partito che hanno votato, e al sistema dei partiti nel loro complesso?

Michele Salvati

Perché è importante riflettere seriamente su questa questione? Perché ora abbiamo di fronte un lungo periodo di opposizione. Se lo affrontiamo nell’ottica opportunistica ben descritta da Salvati e Dilmore nel loro recente articolo sul Foglio, per cui ora promettiamo la qualunque -a partire niente di meno che dal “superamento del capitalismo” e dal “nuovo modello di sviluppo”-, sapendo che domani, dal Governo, “faremo quello che potremo“, magari nascondendoci dietro “gli alleati che non vogliono“ e “l’Europa che non ci lascia“, daremo un ulteriore colpo alla residua fiducia dei cittadini nella politica democratica. Dunque, ambizione al cambiamento elevata e ferrea determinazione nel garantire un robusto ancoraggio alla realtà. Silvio Mantovani, nel suo intervento, ci ha detto che -in fin dei conti- dobbiamo “ringraziare“ il COVID se abbiamo potuto giungere, col Next generation EU, ad un embrione di politica fiscale dell’Unione. È vero. Ma è almeno altrettanto vero che -ben prima del COVID- c’è stato un intenso lavoro politico-culturale -e una battaglia politica dura-, sul tema della capacità fiscale dell’Unione. Senza quella battaglia, non ci saremmo trovati pronti… E non è finita: c’è un ritorno di fiamma dei “frugali“, pronti ad utilizzare qualsiasi incertezza italiana nell’uso del Next generation EU. C’è l’indebolimento politico di Macron. C’è un Patto di stabilità da ridefinire…

3-Vengo ora a qualche osservazione sulla sostanza del confronto interno al centrosinistra in Italia, in Europa e nel mondo occidentale. In queste settimane affrontiamo questo tema con riferimento al Congresso del PD, ma vorrei rassicurare chi ancora nutrisse dei dubbi: Libertàeguale è un’associazione di cultura politica riformista -ispirata alla tradizione liberaldemocratica, liberalsocialista e cristiano democratica- che lavora per l’unità riformista e per questo non è stata, non è e non sarà mai una corrente di partito. Libertàeguale è una protagonista “di parte” nel confronto tra le due posizioni che si battono per la leadership in tutti i partiti di centrosinistra a vocazione maggioritaria d’Europa e del mondo. Salvati e Dilmore le hanno descritte in modo sintetico e convincente. Secondo le posizioni della sinistra che chiamerò “modernamente massimalista”, la sinistra può tornare a vincere se punta tutto sulla seguente triade: redistribuzione; investimenti nella green economy ; politica industriale, anche e soprattutto nel senso dello Stato imprenditore. Il resto (la crescita, ecc.) seguirà, un po’ come l’intendenza napoleonica. C’è poi la “nostra“ posizione: la sinistra vince quando riesce a coniugare in modo coerente, nel suo programma fondamentale, crescita economica, transizione ambientale e riduzione delle disuguaglianze, facendo in modo che ogni sua scelta tenga in equilibrio queste tre componenti.

Perché il confronto -e, quando è tempo, anche il conflitto- tra queste due posizioni sia produttivo, va rispettata una precondizione:  i loro rispettivi sostenitori debbono essere consapevoli che la presenza nel partito dei sostenitori dell’altra posizione è essenziale per acquisire e mantenere vocazione maggioritaria. Una consapevolezza che è mancata, nel caso del PD, addirittura a due segretari nazionali, che -votati da milioni di elettori del PD- non hanno poi saputo e voluto restare nel partito quando la loro posizione è stata (o stava per essere) democraticamente messa in minoranza.

Alla consapevolezza della “necessità“ della posizione avversaria, deve accompagnarsi -deve, non “può”- la chiara battaglia politica per prevalere nel “congresso”, cioè nella competizione che definisce leadership e linea politica pro tempore del partito a vocazione maggioritaria. Questa chiarezza è a sua volta indispensabile per lo sviluppo dell’iniziativa politica. Senza chiarezza, il partito a vocazione maggioritaria si condanna alla paralisi, come dimostra il caso del PD sul tema giustizia. Nel lontano 1999, il centrosinistra ha partecipato attivamente alla riscrittura dell’articolo 111 della Costituzione, per introdurre il “giusto processo”. Per la sua effettiva attuazione, è opinione diffusa anche nel centrosinistra che sia indispensabile la separazione delle carriere di magistrati requirenti e magistrati giudicanti. Il governo di destra-centro ha un Ministro della Giustizia che sostiene questa soluzione. Una decisione a maggioranza nel Congresso del maggiore partito del centrosinistra su questo nodo può consentire a larga parte dell’opposizione di prendere l’iniziativa e sfidare la maggioranza. Se si continua a traccheggiare, ci si condanna alla paralisi. Oppure, peggio, alla sostanziale subalternità o al giustizialismo del M5S e della sinistra populista, o all’idea della “rivincita” della politica sulla magistratura, via subordinazione della seconda alla prima. Un modo sicuro per apparire completamente inutili a quei cittadini che si trovano a fare i conti con i limiti e le storture del sistema Giustizia in Italia.

4- Infine, qualche osservazione sugli errori politici che spiegano la sconfitta… Li ho riassunti, in ultimo, richiamando le tre posizioni assunte dal PD in campagna elettorale: l’alleanza è elettorale, non programmatica; non abbiamo un candidato Presidente del Consiglio; il voto al PD é utile per impedire che il destra-centro prenda i due terzi dei seggi. È stato facile dimostrare che queste tre posizioni contraddicono in radice i punti cardine della Carta fondamentale del PD: partito perno del governo; partito che assume e democratizza la personalizzazione della politica; partito del “per“ prima che del “contro“. Non insisto: è troppo palese il contrasto.

La domanda che dobbiamo porci è la seguente: perché si è giunti a tanto?

Per l’essenziale, perché nel corso dell’ultima legislatura -dopo la sconfitta politica del referendum del 2016-, si è pensato (nel centrosinistra tutto),gli uni che non fosse possibile, gli altri che non fosse necessario un partito a vocazione maggioritaria, perno di una  più ampia coalizione, cui conferisce credibilità e capacità espansiva.

Sì, si ripetevano le parole “vocazione maggioritaria“, ma si proponeva l’alleanza “strategica“ col M5S, sotto la leadership del “punto di riferimento fortissimo del progressismo“ e si teorizzava apertamente la divisione del lavoro, nel centro-sinistra (col trattino, mi raccomando). Si rispolveravano addirittura le famose tre gambe: faccia Renzi un partito liberal-democratico di centro…,a rappresentare la sinistra pensiamo noi, il resto lo porterà Conte col suo “nuovo” Movimento cinque stelle.

Giorgio Tonini

Non poteva funzionare, e non ha funzionato. Il fatto è che in una democrazia competitiva – dove è il Governo la posta in gioco alle elezioni – la presenza di un soggetto politico a vocazione maggioritaria non è un’opzione tra le altre. È una precondizione, sia per vincere le elezioni, sia per affrontare la prova del governo. Politologia a buon mercato? Prendete il caso della coalizione che ha stravinto il 25 settembre scorso. Tonini nella relazione ce lo ha ripetuto e mostrato con i numeri: non abbiamo perso da uno schieramento a forte capacità espansiva. Abbiamo perso perché nel destra-centro c’è stato un partito a vocazione maggioritaria – diverso da quelli che in passato hanno svolto questa stessa funzione -, il cui leader ha incarnato di fronte agli elettori la proposta di governo. L’ha resa credibile, “positiva“, addirittura rassicurante. In assenza della capacità espansiva della coalizione, è stata la capacità espansiva di Meloni e Fratelli d’Italia a creare le condizioni per la vittoria. Le tre scelte che ho richiamato all’inizio di quest’ultimo paragrafo dimostrano che, contemporaneamente, il centrosinistra tornava a coltivare l’idea della divisione del lavoro dentro una coalizione priva di un collante che non fosse la contrarietà alla destra. Dobbiamo essere consapevoli che il venir meno dell’unità dei riformisti ha favorito questo esito… C’è tanto lavoro da fare, per noi di Libertàeguale.

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