L’idea della distribuzione dell’orario settimanale su quattro giorni va sperimentata, ma come opzione a disposizione dell’impresa e di chi può esservi interessato; non come modello di organizzazione imposto inderogabilmente
.
Intervista a cura di Giuseppe Centore, pubblicata su la Nuova Sardegna il 5 febbraio 2023 – In argomento v. anche il mio articolo del 18 febbraio 2022, La settimana corta dei belgi e i confini del lavoro dipendente
.
Professor Ichino, il segretario regionale della Cgil nel corso del congresso svoltosi nei giorni scorsi ha lanciato la proposta di “fare della Sardegna un grande laboratorio per sperimentare la settimana di lavoro su quattro giorni: 32 ore a parità di salario”. E ha citato diverse realtà, a cominciare dalla Spagna, nelle quali questo modello di riduzione e redistribuzione dell’orario di lavoro sarebbe già in atto. Lei che cosa pensa di questa proposta?
Penso che si debbano tenere distinte le tre misure che questa proposta coniuga: una è la redistribuzione dell’orario di lavoro settimanale su quattro giorni invece che cinque; un’altra è la riduzione dell’orario settimanale a 32 ore, cioè di un quinto; la terza è che questa riduzione dell’orario avvenga a parità di retribuzione complessiva, dunque con un aumento della retribuzione oraria del 25 per cento.
Distinguiamole pure. E andiamo per ordine: che cosa pensa della prima?
La redistribuzione del lavoro settimanale su quattro giorni è cosa già largamente sperimentata in Europa, negli U.S.A. e in Nuova Zelanda. Qui da noi è stata annunciata in alcune grandi aziende, come Banca Intesa. In linea generale è un modello di organizzazione del tempo di lavoro che piace più agli uomini che alle donne, sulle quali grava ancora una parte maggiore del lavoro di cura tra le mura domestiche. L’ideale sarebbe che i dipendenti di un’azienda avessero la possibilità di scegliere tra l’orario distribuito su cinque giorni e quello distribuito su quattro.
La tendenziale riluttanza della componente femminile, però, potrebbe essere superata se alla distribuzione su quattro giorni si accompagnasse la riduzione a 32 ore settimanali. Che è la seconda componente della proposta della Cgil.
Già. Ma in una situazione come quella italiana, caratterizzata da livelli retributivi notevolmente più bassi rispetto agli altri Paesi europei maggiori, l’orario normale ridotto a 32 ore settimanali, se attuato a parità di retribuzione oraria, porterebbe a una riduzione di un quinto anche del contenuto delle buste-paga. Non credo né che un’operazione come questa farebbe bene all’economia nazionale, né che essa verrebbe salutata con favore dalla maggior parte dei lavoratori interessati.
Per questo la Cgil propone che l’operazione sia compiuta a parità di retribuzione complessiva.
La tesi della Cgil è che questa riduzione dell’estensione temporale complessiva della prestazione sarebbe compensata da un aumento della produttività del lavoro: in altre parole, che il personale delle aziende sarebbe in grado di fare in 32 ore ciò che fino a oggi ha fatto in 40.
È una tesi sostenibile?
Entro certi limiti sì. Quando, nel 1981, il Governo Mitterrand appena insediato in Francia ridusse l’orario da 40 a 39 ore, nella maggior parte delle aziende il risultato fu che i lavoratori presero a fare in 39 ore quello che prima facevano in 40, con un corrispondente aumento della produttività oraria del lavoro. Questo spiega anche perché quell’esperimento, secondo i dati rilevati e pubblicati in seguito dallo stesso Governo francese, non produsse alcun apprezzabile aumento dell’occupazione. Per altro verso, poiché la legge non stabiliva se la retribuzione dovesse ridursi in proporzione o rimanere invariata, si registrò una flessione delle retribuzioni, ma di entità mediamente più modesta rispetto alla riduzione dell’orario.
Sembrerebbe dunque che la cosa si possa fare anche con una legge o un contratto collettivo che prevedano la riduzione dell’orario a parità di retribuzione complessiva.
In Francia nell’‘81, però, la riduzione autoritativa generalizzata fu soltanto di un’ora rispetto alle 40 dell’orario normale precedente: dunque una riduzione del 2,5 per cento. Quello che la Cgil sarda propone, invece, è una riduzione di 8 ore: dunque del 20 per cento. Mentre è facile comprendere come possa essere compensata da una modesta intensificazione del lavoro una riduzione dell’orario pari a un quarantesimo, è assai difficile pensare che lo stesso possa avvenire per una riduzione dell’orario pari a un quinto.
Che conclusione se ne deve trarre, a suo modo di vedere?
Che una riduzione di un quinto dell’estensione temporale della prestazione lavorativa, salvo eccezioni, determinerà una riduzione della produzione pro capite. Probabilmente di entità proporzionalmente inferiore, ma pur sempre una riduzione. Se dunque la legge o il contratto collettivo che la disporranno prevederanno che essa avvenga a parità di retribuzione complessiva, questo comporterà un aumento non solo del costo orario del lavoro, ma anche del suo costo per unità di prodotto.
Sta dicendo che dunque la cosa non si può fare?
Non sto dicendo questo. Farla per legge, mi sembra sicuramente inopportuno: le controindicazioni sarebbero moltissime. Il discorso sul farlo mediante la contrattazione collettiva è diverso, perché il contratto è uno strumento molto più flessibile della legge, più adattabile alle esigenze di ciascun settore e di ciascuna struttura aziendale. Vedrei più favorevolmente, però, una contrattazione collettiva che delineasse diversi modelli di organizzazione del tempo di lavoro, lasciando a imprese e lavoratori di scegliere quello che meglio corrisponde alle esigenze caso per caso. Con l’avvertenza, comunque, che “non esistono i pasti gratis”.
Che cosa intende dire?
Intendo dire che mediante la contrattazione collettiva il sindacato può perseguire un aumento delle retribuzioni sotto forma di aumento dei minimi tabellari, oppure sotto forma di una riduzione dell’orario a parità di retribuzione; ma difficilmente può perseguire le due cose insieme. In ogni caso, la contrattazione collettiva deve puntare a un aumento della produttività del lavoro, perché finché questa ristagna – come sta accadendo in Italia da un quarto di secolo – ristagneranno anche i livelli retributivi.
Che cosa può fare la contrattazione collettiva per far aumentare la produttività del lavoro?
Non molto al livello nazionale. È al livello aziendale che può fare molto. È in ciascuna azienda che il sindacato deve saper guidare i lavoratori nella valutazione del piano industriale proposto dall’imprenditore e, se la valutazione è positiva, nella scommessa comune con l’imprenditore su di esso.
.