Un saggio del filosofo anarchico Camillo Berneri pubblicato in America nel 1936 anticipa la contrapposizione tra il “lavoro che uccide” e “il lavoro che salva”, tema centrale nell’opera di Primo Levi
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Introduzione al saggio di Camillo Berneri Il lavoro attraente, in corso di pubblicazione a cura della Fondazione Anna Kuliscioff, 6 febbraio 2023 – Gli altri scritti online su questo sito dedicati alla celebrazione del Giorno della Memoria sono raggiungibili attraverso il Portale nel quale sono raccolti
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Lavoro, labour: dal latino laboro, cioè mi affatico per qualche cosa, soffro. In francese e spagnolo travail, trabajo: dal tardo latino trepalium, che indicava addirittura uno strumento di tortura. Non solo l’idea della fatica ma anche quella della sofferenza, persino di una sofferenza mortale, sembrano connaturate all’idea del lavoro. E altrettanto può dirsi dell’idea del vincolo, della mancanza di libertà, se è vero che per secoli il lavorare è stato considerato quasi come un sinonimo di attività servile. Tuttavia, già nel secolo della prima rivoluzione industriale, che vede Karl Marx indicare nel lavoro dell’operaio in seno al sistema di produzione capitalistico il punto estremo dell’alienazione della persona, della sua deprivazione della libertà e della vita stessa, già allora i socialisti utopisti raccolgono nelle memorie della cultura europea spunti antichi e recenti che accennano alla possibilità di – o della speranza in – un lavoro nel quale la persona umana non è annientata ma al contrario si realizza, trova il senso della propria vita.
Camillo Berneri, cui la militanza socialista e poi anarchica ha insegnato a prendere le distanze dalle semplificazioni e assolutizzazioni proprie della cultura marxista dominante nella sinistra europea nella prima metà del Novecento, coglie l’antitesi tra il lavoro come prevalentemente è, nel mondo che lo circonda, e il lavoro quale esso può essere, non necessariamente attraverso una catastrofica rivoluzione, ma anche soltanto attraverso alcuni cambiamenti di entità relativamente modesta, il cui denominatore comune è l’attenzione prioritaria al benessere di chi lavora. È un’antitesi apparentemente drammatica, che nella sua espressione estrema può anche arrivare a contrapporre il lavoro capace di annientare la persona e il lavoro che la libera e la esalta; ma, in controtendenza rispetto alla cultura dominante della sinistra, il filosofo anarchico avverte che il secondo può prevalere sul primo gradualmente e già si osservano manifestazioni di questa tendenza. Per arrivare a concludere che si può, e dunque si deve incominciare a perseguire questo obiettivo già nel contesto della società capitalistica attuale.
L’autore di questo scritto non vive abbastanza per assistere alla manifestazione più atroce del lavoro inteso come pena e punizione, nell’intera storia dell’umanità. Quando Berneri nel 1936, un anno prima di morire, lo pubblica a puntate negli Stati Uniti sul periodico di ispirazione anarchica L’Adunata dei Refrattari, l’esperimento nazista del lavoro come strumento di un genocidio non ha ancora avuto inizio. Egli, dunque, non conoscerà lo scherno rivolto ai deportati che varcano la soglia del campo di sterminio di Auschwitz, con la scritta Arbeit macht frei posta all’ingresso. Ma, a ben vedere, quell’atroce sberleffo è reso possibile proprio dalla bipolarità tra il lavoro cattivo e il lavoro buono cui il saggio di Berneri è dedicato. Si può parlare, a questo proposito, di una sorta di omonimia: c’è il lavoro disumanizzante dello schiavo, della persona ridotta a strumento, o addirittura di quella che per mezzo del lavoro massacrante viene uccisa; ma c’è anche – già oggi, nello stesso mondo che alberga quello – il suo esatto opposto, che pure viene chiamato con lo stesso nome: il lavoro nel quale la persona si realizza, il lavoro che produce e garantisce la sua libertà e la sua sicurezza.
Non credo che Primo Levi abbia letto Il lavoro attraente di Camillo Berneri; certo è che il contrasto tra queste due accezioni proprie della nozione di lavoro, centrale in questo scritto, ritorna in quelli del grande scrittore torinese reduce da Auschwitz; anzi, assume in essi un valore centrale. Un’intuizione centrale nel pensiero di Berneri compare anche ne I sommersi e i salvati di Levi, dove questi osserva che per conseguire lo scopo di degradare la persona, di disumanizzarla, il lavoro-castigo “non deve lasciare spazio alla professionalità”, al “mestiere”. Deve essere pura fatica. Perché appena si crea qualche spazio nel quale possa manifestarsi un “saper fare” o addirittura un pensiero progettuale, anche il lavoro del servo e persino quello del condannato allo sterminio assume in qualche modo il carattere opposto, quello del lavoro nel quale la persona umana si esprime e che nel Lager può addirittura costituire una via di salvezza, come fu per lui stesso:
A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che ho appena descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una difesa. Lo era per i pochi che in Lager riuscivano a essere inseriti nel loro proprio mestiere: sarti, ciabattini, falegnami, fabbri, muratori; questi, ritrovando la loro attività consueta, recuperavano in pari tempo, in certa misura, la loro dignità umana.
(I sommersi e i salvati, p. 1087). E ancora (ivi):
Ho notato spesso su alcuni miei compagni (qualche volta anche su me stesso) un fenomeno curioso: l’ambizione del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicata da spingere a ‘far bene’ anche lavori nemici, nocivi ai tuoi e alla tua parte, tanto che occorre uno sforzo consapevole per farli invece ‘male’.
In un altro libro (La chiave a stella) Levi arriva a qualificare il poter svolgere un lavoro che si ama– che sia lavoro intellettuale o manuale, anche il più umile, il lavoro del libero professionista o quello del lavoratore dipendente – come “la migliore approssimazione alla felicità su questa terra”.
L’assonanza tra questi brani di Levi e le citazioni di Maffeo Pantaleoni, Roberto Ardigò, Achille Loira, Arturo Graf e altri, che si leggono nel secondo capitolo dello scritto di Berneri è evidente. Qui entrambi – credo inconsapevolmente, non essendo alcuno dei due un giurista – richiamano un precetto che compare già nella cultura della Roma antica: quello per il quale ogni obbligazione, e quella di lavoro più di ogni altra, deve essere adempiuta, oltre che con la diligenza tecnica richiesta dalla natura della prestazione, anche con la diligenza del bonus pater familias. Il significato di questo precetto, sul piano esistenziale prima ancora che su quello giuridico, è diffusamente ignorato nella cultura del lavoro di oggi. La parola “diligenza” deriva dal verbo diligere, che significa amare. Affermare che ogni lavoro deve essere svolto con la diligenza del buon padre di famiglia ha dunque un contenuto pratico molto impegnativo: significa che chi lo svolge ha il dovere giuridico di farlo per la persona beneficiaria della prestazione, chiunque essa sia, nello stesso spirito e con lo stesso amore con cui un genitore lo farebbe per l’altro coniuge o per un proprio figlio. E – si osservi la raffinatezza del diritto romano fin dalle sue origini più antiche – non con l’amore di un genitore qualsiasi, che potrebbe essere un po’ sciatto o anaffettivo, ma con l’amore di un buon genitore!
Già questo è un precetto che, se venisse diffusamente rispettato, rivoluzionerebbe molti ambienti di lavoro e molti servizi. Ma Berneri, come Primo Levi, ci invita ad arricchire ulteriormente di significato il canone della diligenza: “se vuoi che il tuo lavoro non soltanto adempia il tuo obbligo, ma anche ti avvicini il più possibile alla felicità – essi ci avvertono – la diligenza con cui devi svolgerlo non è soltanto amore per la persona che ne è beneficiaria, ma è anche amore per il lavoro stesso che stai svolgendo”.
Concludo queste note osservando che nel secolo ventunesimo il lavoro inteso nella prima accezione che abbiamo qui considerato è drasticamente vietato, a ogni longitudine e latitudine, dall’ordinamento dell’ONU: non mi riferisco tanto al divieto della riduzione della persona umana in schiavitù, quanto al principio fondamentale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, organo appunto delle Nazioni Unite, che dal 1998 vieta in modo assoluto “qualsiasi forma di lavoro forzato od obbligatorio” (forced or compulsory), anche come pena applicabile a persone detenute: anche in carcere il lavoro può e deve essere solo quello che ridà alla persona speranza e buona coscienza di sé, del proprio valore. C’è poi nell’ordinamento europeo il divieto drastico non soltanto del lavoro che richiede sforzi dannosi per la salute di chi lo compie, ma anche di quello che abbia soltanto tratti di monotonia e ripetitività incompatibili con il benessere psico-fisico di chi vi è addetto. Insomma, oggi in Europa il lavoro che Camillo Berneri descrive nel primo capitolo del suo saggio, quello cui è adibito Charlot alla catena di montaggio in Tempi moderni, sarebbe vietato. Così come è sicuramente contrario al diritto oggi vigente il modo in cui troppo spesso nelle campagne del nostro Mezzogiorno vengono fatti lavorare gli immigrati, condannati a un lavoro forzato, alla mercé dei loro sfruttatori, proprio in conseguenza del fatto che lo Stato nega loro il permesso di accedere al lavoro regolare.
Al contrario, secondo il diritto europeo e quindi anche nel nostro ordinamento nazionale, tutto nell’azienda – dalla strumentazione all’organizzazione del lavoro – deve essere ergonomicamente concepito in funzione del benessere psico-fisico di chi vi è addetto. Ciò che, a ben vedere, può essere letto come un corollario del principio della diligenza del bonus pater familias, applicabile anche all’adempimento dell’obbligazione contrattuale dell’imprenditore nei confronti del dipendente: l’obbligo giuridico per l’imprenditore di creare nell’azienda le condizioni perché ogni persona che vi è inserita, dalla prima all’ultima, possa amare il proprio lavoro.
Detto questo, però, sono ancora gli stessi Camillo Berneri e Primo Levi ad avvertirci che l’amore per il proprio lavoro dipende dalle circostanze esterne, dall’organizzazione e dall’ambiente, assai meno che da quanto alberga nell’animo della persona interessata:
Ogni fatica fisica è dunque più o meno intensa a seconda delle condizioni di spirito con le quali è compiuta […] Quando, come profetizzava il Carlyle, ogni individuo potrà scegliere come sfera del proprio lavoro quella per la quale ha maggiore tendenza, il lavoro non sarà più una pena e potrà per molti diventare una gioia.
(dall’ultima pagina del secondo capitolo de Il lavoro attraente).
Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena; ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.
(da La chiave a stella, p. 1016).
Dove si conferma ancora una volta che le chiavi della felicità non dobbiamo cercarle fuori, ma dentro noi stessi.
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(*) Tutte le citazioni dalle opere di Primo Levi sono stratte dai due tomi delle sue Opere editi da Einaudi a cura di Marco Belpoliti, 1997.