La sua morte prematura priva la comunità giuslavoristica e l’intero mondo delle relazioni industriali di una persona di straordinario valore, ma non della sua voce equilibrata, che non si spegne, né del suo messaggio di apertura all’approccio multidisciplinare ai problemi del lavoro
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Ricordo in corso di pubblicazione sul n. 4/2022 della Rivista Italiana di Diritto del Lavoro – Dello stesso R.D.P. v. l’intervento nel dibattito ospitato da questo sito nel 2017 sul tema del dialogo tra giuslavoristi ed economisti del lavoro: Sì al dialogo con gli economisti (meglio ancora se reciproco)
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Tra gli allievi di Giuseppe Pera, Riccardo Del Punta è quello che forse più compiutamente di ogni altro ne ha ereditato, prima ancora che il sapere giuridico, alcuni caratteri peculiari dell’habitus mentale, tra i quali l’onestà intellettuale che si traduce nella chiarezza della scrittura e nella disponibilità a mettere in discussione ogni propria affermazione, l’onestà accademica che si traduce in un rapporto cristallino con gli allievi e nel rifiuto di qualsiasi do ut des concorsuale con i colleghi, l’onestà lato sensu politica che si traduce in un meditato rifiuto di ogni forma di faziosità nel dibattito sui temi di politica del diritto e del lavoro in particolare. Ma fin dall’origine peculiarmente suoi erano il carattere mite, la capacità di suscitare simpatia in tutti coloro con cui entrava in rapporto, la tensione a entrare in dialogo con qualsiasi interlocutore, tanto più quanto più lontane fossero le posizioni di partenza; e un raffinato senso dello humor, che lui sapeva convertire in autoironia quando si trattava di ristabilire un rapporto di amicizia e collaborazione dopo una litigata.
Nato il 24 agosto 1957 a Collesalvetti, vicino a Livorno, e laureatosi presso la cattedra pisana nel 1982 con una tesi sui licenziamenti collettivi, Riccardo venne subito ingaggiato dal professore come “annotatore” delle sentenze per la rivista Giustizia Civile; e, dopo la pratica forense svolta a Pisa presso l’avvocato Pepe, passato l’esame di procuratore entrò nello studio legale del professore, sito al piano terreno della sua bella casa nel verde di San Lorenzo a Vaccoli, sulla strada che da Lucca porta a Pisa: in quelle stanze tappezzate da molte migliaia di libri e frequentate da una cospicua colonia felina si svolse un suo intenso – e per diversi aspetti tormentato – apprendistato, forense e accademico al tempo stesso. Nel solo quinquennio ’82-’86 si contano ben 41 sue note a sentenza pubblicate su GC, cui si aggiungono le 7 ulteriori pubblicate su questa Rivista nell’ ’85-’86, a seguito dell’assunzione da parte di Giuseppe Pera della sua direzione. Fu un lavoro utilissimo per la sua maturazione come giuslavorista, ma non poco sofferto: a proposito di questa intensa attività di commento della giurisprudenza, che proseguì poi per un ulteriore quinquennio, a trent’anni di distanza lui scrisse che
da giovanissimo studioso, quasi mi vergognavo di fare note a sentenza, mentre i miei coetanei si lanciavano in audaci teorizzazioni: una sofferenza accresciuta dal fatto che a me, diversamente da Pera, le teorie, anche e soprattutto filosofiche, piacevano e piacciono tuttora (Il metodo di Giuseppe Pera, in q. Riv., 2018, I, 166).
Ma nella pagina successiva riconosceva che proprio l’allergia di Giuseppe Pera per i discorsi astratti e il suo andare alla ricerca del senso vero della decisione del giudice attraverso la cognizione precisa del fatto giudicato, il suo grande equilibrio e senso di misura nello svolgimento del ruolo di interprete della “norma giuridica individuale” posta dal giudice, così come di quella generale posta dal legislatore, costituivano “l’eredità più profonda” che il professore gli aveva lasciato (ivi, 167).
A partire dall’ ’84 il professore – vissuto da lui un po’ come un padre-padrone – prese ad affidargli anche la redazione della prima bozza della rassegna annuale della giurisprudenza per il Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, della quale Riccardo fu dunque coautore per sette puntate. La collaborazione proseguì anche dopo il conseguimento del dottorato di ricerca in diritto del lavoro, nel 1988, poi del posto di ricercatore presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trieste, nel 1990, fino al 1992, quando gli attriti fra il professore e l’allievo arrivarono a una rottura della quale ebbi la ventura di essere testimone godendo dell’amicizia e della confidenza di entrambi (dall’autunno del 1984 avevo preso a recarmi con una certa frequenza a San Lorenzo a Vaccoli in qualità di responsabile della redazione di questa Rivista, nella direzione della quale Giuseppe Pera era succeduto al fondatore, Aldo Cessari). La causa occasionale di quella rottura non merita di essere raccontata; lo merita invece il fatto che il professore, proprio mentre respingeva le osservazioni dell’allievo, avendo capito benissimo che stava perdendo un collaboratore valentissimo, mi confidava senza mezzi termini di dolersene non poco, perché lo considerava il migliore in assoluto tra gli studiosi di diritto del lavoro allora appartenenti alla generazione dei trentenni. Negli stessi giorni Riccardo, dal canto suo, mi confidava di ritenere necessario affrancarsi da un rapporto di collaborazione che sentiva a quel punto mortificante, anticipandomi allora alcuni apprezzamenti non proprio positivi sul modo di essere di Giuseppe Pera, che molto tempo dopo avrebbe messo nero su bianco nello scritto citato sopra:
uomo pre-freudiano, pre-femminista, pre-sessantottino, per qualche verso pre-contemporaneo […] un uomo rivolto all’indietro (ivi, 157)
ma al tempo stesso dicendo di rendersi conto di rinunciare così a una scuola di valore straordinario sia sul piano scientifico-culturale sia su quello più specificamente forense.
Giuseppe Pera, come era suo singolarissimo costume accademico, non aveva mosso un dito per ottenere presso la “Sapienza” di Pisa il bando di un posto di ricercatore cui l’allievo e collaboratore potesse concorrere, e neanche per aiutarlo a vincere il concorso bandito dall’Università di Trieste: anzi, aveva sollecitato un altro allievo, Michele Mariani, a parteciparvi. Ma nei giorni stessi in cui il rapporto di collaborazione un po’ burrascosamente si interrompeva espresse su di lui, ai colleghi che glielo chiedevano in funzione dell’abilitazione alla docenza di seconda fascia, un giudizio di assoluta eccellenza.
A seguito dell’abilitazione il neo-professore, che nel frattempo aveva dato alle stampe la propria monografia monumentale (più di 800 pagine) sulla Sospensione del rapporto di lavoro, inserita nel Commentario del Codice civile diretto da Piero Schlesinger, venne chiamato nel 1992 dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena, poi nel 1995 dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze. La sua rapida carriera universitaria venne infine coronata con la promozione alla prima fascia e con la conseguente chiamata alla cattedra di professore ordinario nella stessa Università di Firenze nel 1999. Qui ha poi diretto il Corso di aggiornamento professionale in Diritto del lavoro, che sotto la sua guida è giunto all’inizio del 2022 alla diciottesima edizione. Dal 2005 ha fatto parte del Comitato Scientifico e di Direzione di questa Rivista, diventandone uno dei membri più attivi. Nel frattempo Mario Grandi e Giuseppe Pera, a conferma della grande stima che quest’ultimo nonostante tutto nutriva per l’“allievo migliore”, gli avevano affidato insieme a Enrico Gragnoli – e lui aveva accettato di buon grado, pur vivendolo come una corvée pesantissima – il coordinamento della redazione del Commentario breve alle leggi sul lavoro pubblicato da Cedam, la cui prima edizione uscì nel 1996.
Il 1992, con la chiamata alla cattedra di associato nell’Università di Siena e il suo primo vero corso di diritto del lavoro davanti a una platea di studenti, aveva segnato nella sua vita una svolta anche sul piano esistenziale, una sorta di emancipazione. Lo ricordo bene perché anche per me fu un anno di svolta, a seguito della chiamata all’Università di Milano e della concomitante promozione a vice-direttore di questa Rivista; e nell’agosto di quell’anno ci trovammo in Versilia a festeggiare insieme con una gita in bicicletta sulle Apuane seguita da una memorabile cena a Capriglia con vista sul mare incendiato dal sole al tramonto, durante la quale Riccardo mi disse: “ora per la prima volta ho la sensazione di volare”.
Nel corso di quell’incontro estivo discutemmo a lungo degli interventi che avevamo svolto al congresso di Udine dell’A.I.D.La.S.S. dell’anno precedente dedicato al tema scottante Autonomia individuale e rapporto di lavoro, aperto dalle relazioni di Oronzo Mazzotta e di Massimo D’Antona (la seconda più aperta della prima a una rivisitazione del sistema delle fonti della regolazione del rapporto). Era ancora viva in noi l’emozione per il dibattito che si era svolto su quell’argomento, del tutto nuovo e a rischio di essere considerato eversivo per la nostra materia; e dei nostri interventi stavamo entrambi curando la versione scritta per il volume degli atti (destinato a uscire un po’ in ritardo due anni dopo, nel ’94). Il suo ben può considerarsi la prima espressione di una spiccata vocazione a – e capacità di – riflettere incisivamente sull’essenza del diritto del lavoro, i suoi riferimenti valoriali e la sua ragion d’essere nel sistema del diritto civile:
[…] al problema [dell’autonomia negoziale individuale nel rapporto di lavoro] non è consentito decentemente sfuggire: se il diritto del lavoro ha sempre vantato la propria immediata reattività ai fatti della realtà sociale, è chiamato a non dimenticarsi di questa sua regola ispiratrice nel momento in cui quella realtà propone tendenze che possono arrivare a metterne in crisi, in prospettiva, la stessa ragion d’essere. Ciò a pena di tradire la sua purezza metodologica (dal volume degli atti del congresso, Milano, Giuffré, 1994, p. 93).
E a conclusione di quell’intervento:
[…] rimane il fatto che il diritto del lavoro del 2000, proprio perché ha aiutato il lavoratore a farsi “soggetto”, dovrà a un certo punto anche cessare di pretendere di sapere ciò che è bene per lui […] e che questo problema si porrà non soltanto nei confronti dello Stato, ma anche nei confronti delle istanze intermedie. […] Questo comporterà, per il giuslavorista, imparare a convivere con il molteplice e a non diffidare più della tensione individualizzante verso il perseguimento dei propri interessi, vedendo anzi questa non come una sconfitta, ma come il frutto dei propri successi (ivi, p. 96).
In quell’intervento sono ben visibili – in nuce, ma espresse già in modo incisivo – le linee principali di una riflessione che si sarebbe espressa compiutamente negli interventi e negli scritti di filosofia del diritto del lavoro appartenenti alla stagione successiva della sua vita: quella in cui è risultato più evidente il suo essere un intellettuale a tutto tondo, il cui orizzonte non era limitato alla cultura giuridica, ma abbracciava anche tutte le scienze sociali, il loro metodo e il discorso sul loro fondamento. A partire dal XV congresso dell’A.I.D.La.S.S., svoltosi a S. Margherita di Pula nel giugno 2006 sul tema Formazione e mercato del lavoro, il contributo di Riccardo consistette, in marcata sintonia con la relazione introduttiva di Bruno Caruso, nel proporre una sinapsi dinamica tra la cultura giuslavoristica e il capabilities approach teorizzato da Amartya Sen e Martha Nussbaum: l’idea, cioè, che non basti parlare di “diritto” o “libertà” di autorealizzazione delle persone, poiché ciò che più conta è fornire alle persone stesse gli strumenti necessari per rendere l’autorealizzazione effettiva e rimuovere gli ostacoli che di fatto la impediscono. La nozione di capability – avverte – ha
una doppia apertura valoriale, che chiama in causa tanto la libertà quanto l’eguaglianza, e che deve essere messa appropriatamente in relazione, pertanto, con la tradizione culturale propria del diritto del lavoro, che attorno a quei valori – ma, come è ben noto, con una netta preferenza per uno di essi – si è formata […] non pare dubbio che il concetto di “capability” sia parte di una visione più individualistica di quella che siamo abituati a vedere sottesa al diritto del lavoro. Una visione che potremmo dire incentrata sul valore della “libertà sostanziale” (o, se si vuole, della “libertà eguale”), piuttosto che su quello dell’“eguaglianza sostanziale”, nei termini in cui esso è stato tradizionalmente inteso dalla dottrina costituzionale.
Trattasi, in altre parole, di un concetto dotato di una forte potenzialità di impatto critico su certe fondamenta politiche e culturali del discorso lavoristico (dagli atti del Congresso, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 277-8).
Donde la sottolineatura, con cui il suo intervento si chiude, della necessità di una revisione critica della nostra tradizione, la quale implica anche
tornare a valorizzare i dissensi interni; […] far emergere, insomma, quanto un approccio come quello di Bruno Caruso sia politicamente e culturalmente distante da quello seguito, in un’altra pur bella relazione di questo Congresso, da Massimo Roccella (ivi, p. 279).
Passaggio, quest’ultimo, dal quale emerge un tratto caratteristico della personalità intellettuale di Riccardo, la cui scrupolosissima attenzione a rifuggire da qualsiasi forma di faziosità non gli ha mai impedito di esplicitare i dissensi nei confronti dei colleghi. Sempre, peraltro, in modo sereno, aperto alle critiche e all’autocritica.
Il tema del capability approach, ben presente anche nelle Lezioni di diritto del lavoro pubblicate nello stesso 2006 e in tutte le quattordici edizioni del corso che si sarebbero susseguite fino all’ultima del 2022, era destinato a diventare il tema centrale di numerosi suoi interventi in convegni internazionali (attività, questa, da lui svolta con grande intensità, soprattutto nell’ultimo ventennio, che lo ha portato più volte in Australia, in America Latina, in Canada, in Israele, oltre che ad Amsterdam, a Cambridge e a Warwick) e di una serie di suoi saggi usciti con cadenza annuale lungo l’ultimo decennio della sua vita, che ben possono essere considerati come fondativi di una filosofia del diritto del lavoro del XXI secolo: Per un diritto del lavoro “responsabile”, del 2012, Leggendo “The Idea of Justice” di Amartya Sen, del 2013, Verso l’individualizzazione dei rapporti di lavoro e Il lavoro come “bene comune”, del 2014, Labour Law on the Edge: Neoliberal Decline or Regeneration, del 2015, Labour Law and the Capability Approach, del 2016, I diritti fondamentali e la trasformazione del diritto del lavoro, del 2017, Is the Capability Theory an Adequate Normative Theory for Labour Law?, del 2019, Valori del diritto del lavoro ed economia di mercato, del 2020, Alla ricerca del soggetto: una sfida per il diritto del lavoro, del 2021, Lavoro e libertà, del 2022, e Il diritto del lavoro e il lavoro post-fordista, in corso di pubblicazione in Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà, a cura di G. Mari.
L’intervento congressuale del 2006 citato sopra – breve ma straordinariamente denso di contenuti seminali – tocca anche un altro tema al quale Riccardo aveva dedicato alcuni anni prima uno studio approfondito e altri ne avrebbe dedicati negli anni successivi:
il concetto seniano di “capability” […] si pone come “ponte” fra i diritti e il mercato, e quindi fra il diritto del lavoro e l’economia, favorendo così il dialogo metodologico fra le due discipline (atti del Congresso, p. 277).
Già nel suo primo saggio dedicato a questo tema, L’economia e le ragioni del diritto del lavoro (DLRI, 2001) – frutto della rielaborazione di una relazione svolta in un convegno promosso da Franco Scarpelli all’Università di Milano-Bicocca, in cui il compito dell’“altra campana” era stato affidato a Marco Barbieri – aveva argomentato in modo approfondito la sua presa di distanza dall’atteggiamento di insofferenza di alcuni colleghi giuslavoristi nei confronti delle interferenze della scienza economica con i contenuti dell’ordinamento giuridico del lavoro, sottolineando invece la necessità dell’apertura di un dialogo di cui il diritto del lavoro non può fare a meno. In quell’occasione Riccardo osservava che il giuslavorista si sente più “a casa propria” quando si confronta con gli economisti appartenenti all’orientamento c.d. “istituzionista”, piuttosto che con quelli appartenenti al mainstream “marginalista”; ma al tempo stesso riconosceva che sul funzionamento del mercato del lavoro gli scritti dei primi appaiono assai più avari di contributi rilevanti, per la politica del diritto e del lavoro, rispetto a quelli dei secondi.
Sul rapporto tra economia e diritto del lavoro tornerà incisivamente in The Economic Challenge to Labour Law, nel 2010, e tre anni dopo in Epistemologia breve del diritto del lavoro, sottolineando come oggi più che mai la cultura giuslavoristica debba abbandonare la pretesa di una autosufficienza totalizzante, derivata da un’ispirazione originaria hegeliana filtrata dalla cultura marxista, per aprirsi non solo al sapere degli economisti, ma anche a diverse altre branche del sapere umano:
il diritto del lavoro è fatto anche di economia, così come di tante altre ragioni e giustificazioni (LD, 2013, 45-46).
Riprende poi il discorso in Valori del diritto del lavoro ed economia di mercato, dove osserva che
rassegnarsi all’evidenza che il lavoro è anche una merce, e che quello che importa è che essa sia scambiata a condizioni eque, non implica che tale mercificazione possa essere integrale. […] È […] anzitutto per una ragione di intima coerenza col proprio statuto epistemologico che il diritto del lavoro deve ammettere l’economia al tavolo dei suoi formanti, a maggior ragione in quanto essa non concerne soltanto la selezione dei fini […], ma anche l’idoneità dei mezzi utilizzati ovverossia il profilo dell’efficacia materiale delle norme […] la riflessione giuridica potrà continuare a svolgere la sua indispensabile funzione di sintesi a condizione di approfondire e affinare il dialogo interdisciplinare (in Biblioteca ’20 Maggio’, 2019, n. 2, 116 e 124).
Nel 2006 Riccardo fu il primo collega a cui proposi il progetto di un libro che tracciasse la storia della nostra materia e della comunità dei giuslavoristi italiani dalla Liberazione all’inizio del nuovo secolo; accettò con entusiasmo scegliendo per sé il capitolo forse più difficile, sicuramente il più delicato dal punto di vista dei rapporti personali con i colleghi, cioè quello relativo al ventennio tra il Protocollo Giugni e la Legge Biagi, mentre io stavo già lavorando al capitolo sul primo ventennio. Discutemmo di chi altri coinvolgere nell’impresa e concordammo di proporre i due capitoli centrali a Raffaele De Luca Tamajo e Giuseppe Ferraro, che anch’essi accettarono. Nei due anni successivi lui si dedicò alla propria parte dell’opera con un entusiasmo che superava ogni mia attesa, scrivendo un saggio che aveva il respiro e le dimensioni (più di 150 pagine) di un libro a sé stante. È stato poi curatore insieme a Franco Scarpelli del Codice commentato del lavoro Ipsoa Wolters Kluwer, uscito nel 2020.
Dal 1996 aveva aperto uno studio legale proprio in via Zamenhof, a Pisa, nei locali di una casa di famiglia, aveva ripreso a svolgere la professione forense e a frequentare le iniziative della sezione toscana del Centro Studi di Diritto del Lavoro Domenico Napoletano, nel cui Consiglio Direttivo venne eletto nel 1997, per poi assumerne la presidenza dal 2006 al 2011. Del 1997 è pure la sua prima elezione al Comitato Direttivo dell’A.I.D.La.S.S., forse il primo caso di chiamata a questa carica di un professore associato, rinnovata nel congresso del 2000 per un ulteriore triennio (sotto la presidenza di Gino Giugni). Tornò poi a farne parte a seguito del congresso di Pisa; la vicenda merita di essere segnalata, poiché in quell’occasione Riccardo fu l’unico eletto di una lista che si contrapponeva alle due sorrette dai raggruppamenti accademici più forti, a testimonianza della sua capacità di attrarre un voto di stima e simpatia personale trasversale, soprattutto tra i colleghi più giovani. Nel 2002 ha partecipato alla fondazione dell’Associazione Giuslavoristi Italiani, del cui Comitato Scientifico da allora ha fatto parte. Nel gennaio 2020 è stato tra i fondatori dell’associazione Labour Law Community-LLC, al cui secondo convegno annuale a Firenze avrebbe dovuto intervenire proprio il giorno in cui invece, inaspettatamente, il suo cuore ha ceduto alla malattia.
Il ricordo del contributo di rilievo straordinario che Riccardo ha dato alla nostra cultura giuslavoristica non può chiudersi senza che venga menzionata la sua partecipazione alla Commissione ministeriale Foglia sulla riforma del processo del lavoro nel 2001, e ancor più la sua collaborazione con l’ufficio legislativo del ministero del Lavoro nel 2012, in occasione della c.d. riforma Fornero, poi dal 2013 al 2017, con i ministri Giovannini e Poletti: una collaborazione discreta ma intensa, che consente di considerarlo, insieme a Marco Biagi, come il giuslavorista che in questo secolo più di ogni altro ha partecipato direttamente alla “scrittura” del diritto del lavoro. Fui diretto testimone, in particolare, della sua partecipazione alla redazione del decreto delegato n. 81 del 2015, col quale è stata interamente riscritta la disciplina oltre che dei licenziamenti, anche delle collaborazioni autonome continuative, del lavoro a tempo parziale, del lavoro a termine, del lavoro a chiamata, della somministrazione di lavoro, dell’apprendistato. E, nel decreto delegato n. 149 del 2015, alla riscrittura dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, sui controlli a distanza: materia sulla quale tornerà (anche per difendere il proprio operato in qualità di consulente del legislatore) con un cospicuo saggio pubblicato su questa Rivista nel 2016 (I, 77-110) e di nuovo nel 2019 (RIMP, 261-272).
L’ultimo suo impegno editoriale è quello che lo ha visto impegnato insieme a Roberto Romei e a Franco Scarpelli per la progettazione e la concreta “costruzione” del volume tematico dell’Enciclopedia del Diritto sul Contratto di lavoro, in corso di pubblicazione, nel quale avrebbe dovuto comparire la sua voce sul tema della filosofia del diritto del lavoro, nella quale avrebbe dovuto condensarsi, trovando la sua espressione più organica e compiuta, il frutto di una vita intera dedicata alla ricerca dei vecchi e nuovi fondamenti assiologici del diritto del lavoro.
Già dall’autunno 2021 il Comitato Scientifico di questa Rivista aveva proposto a Riccardo di assumere la responsabilità di Condirettore. In un primo tempo lui aveva chiesto di differire l’assunzione dell’incarico in considerazione delle cure a cui doveva sottoporsi; ma ultimamente si era detto pronto: l’annuncio avrebbe dovuto comparire proprio su questo fascicolo. La sorte crudele ha voluto che, invece, questo fascicolo dovesse contenere il nostro ultimo saluto e ringraziamento a lui per il contributo prezioso dato nell’arco dell’intera sua vita adulta alla comunità giuslavoristica, e in particolare alla Rivista nei diciotto anni nei quali ha partecipato al lavoro del suo Comitato Scientifico. Ringraziamento che si concreterà nella ripubblicazione, in apertura di ciascuno dei fascicoli del prossimo anno, dei suoi saggi che meglio possono rappresentare il suo pensiero.
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