Valutare l’efficienza delle strutture scolastiche e della formazione professionale e l’efficacia dell’istruzione da esse impartita è essenziale per garantire l’assolvimento della loro funzione di “ascensore sociale” – Ma è parte essenziale del loro compito anche la valutazione dei risultati dell’impegno dei singoli allievi
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Articolo pubblicato nel quaderno della Fondazione PER di dicembre 2022 – Costituisce un ampliamento e completamento di quello pubblicato sul quotidiano il Foglio l’8 ottobre 2022, Il PD e i poveri
Sommario
1. L’istruzione
2. Il mercato del lavoro
3. Valutare il “merito” degli studenti e dei partecipanti ai corsi di formazione?
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Dopo le elezioni del 25 settembre molti, a sinistra, sostengono che il Pd dovrebbe tornare a “occuparsi dei poveri”. Vi è qualche ragione per ritenere che chi lo afferma non abbia le idee chiare su che cosa questo significhi in concreto; perché, da sinistra, ciò che occorre fare veramente per consentire ai poveri di uscire dalla loro condizione viene per lo più qualificato come “di destra” e dunque rifiutato.
“Occuparsi dei poveri”, se lo si vuol fare in modo efficace, significa principalmente far funzionare i cosiddetti ascensori sociali, cioè gli strumenti che consentono alle persone meno dotate di “salire”, di migliorare la propria condizione socio-economica. Il primo e più efficace ascensore sociale è la scuola. Potenziare la scuola significa, certo, investire di più sull’edilizia e le attrezzature scolastiche; ma significa soprattutto investire sul miglioramento della qualità dell’insegnamento, cioè sulla capacità e l’impegno degli insegnanti. Questo implica non solo una formazione migliore di questi ultimi, ma anche inviarli a insegnare dove occorre (con stipendio adeguato al costo della vita nella regione) anche quando il luogo non è quello che fa comodo a loro. Implica far sì che la struttura scolastica sia capace di valutarne la prestazione almeno nella misura minima necessaria per individuare quelli che non conoscono la materia affidata loro, o non sanno insegnarla, o più semplicemente non hanno voglia di farlo; e rimuoverli dalla cattedra. Per individuarli è molto utile valorizzare le segnalazioni in proposito provenienti dalle famiglie e dagli studenti.
In altre parole, potenziare la scuola significa mettere al primo posto nella sua organizzazione non l’interesse degli insegnanti, ma quello degli studenti e in particolare dei meno dotati, di quelli che non hanno alle spalle una famiglia colta capace di supplire alle lacune della scuola stessa. Se finora nella scuola pubblica italiana tutto questo non si è fatto, è perché porta inevitabilmente a qualche attrito con i loro sindacati. Oggi, dunque, se un professore insegna male o non insegna del tutto, nella quasi totalità dei casi non accade nulla: così un’intera classe viene privata per uno o più anni dell’insegnamento di materie essenziali, come l’italiano o la matematica. E questo, si osservi, accade in modo diffusissimo: nelle scuole medie pubbliche italiane, inferiori e superiori, quasi ogni classe ha almeno un professore – se non due o più – che per incapacità o negligenza non svolge in modo appropriato il proprio servizio (la stagione pandemica della didattica a distanza ha contribuito a mettere a nudo il problema). Tra le cose più importanti implicate dall’imperativo di “occuparsi dei poveri” rientra dunque innanzitutto attivare una valutazione sistematica permanente della qualità ed efficacia dell’insegnamento impartito dagli istituti scolastici pubblici, a presidio di un suo standard qualitativo e quantitativo minimo inderogabile.
Di possibili modelli a cui ispirarsi su questo terreno il panorama internazionale ne offre diversi, a cominciare da quello dell’agenzia britannica Ofsted. Tutti fondati sulla combinazione di numerosi indici della performance didattica, anche tra loro assai diversi: dalla somministrazione sistematica dei test standardizzati alla rilevazione longitudinale delle carriere scolastiche e lavorative degli studenti usciti da ciascun istituto scolastico, allo studio attento delle valutazioni espresse dalle famiglie e degli studenti stessi (dalle quali, se le si sanno leggere, possono trarsi indicazioni preziose sulla qualità del lavoro di ciascun insegnante); sempre ovviamente confrontando i risultati conseguiti con i punti di partenza, cioè tenendosi conto del bacino di utenza cui ciascun istituto attinge per il reclutamento dei propri allievi: è diverso insegnare nel centro di una grande città o in una periferia degradata. Ciò che è indispensabile, però, è che alla fissazione di uno standard minimo inderogabile di efficienza ed efficacia dell’insegnamento impartito da un istituto scolastico corrisponda l’attribuzione alla sua dirigenza delle prerogative manageriali minime effettive indispensabili affinché essa possa esserne tenuta effettivamente responsabile. Oggi i dirigenti scolastici italiani dispongono soltanto di una parte molto ridotta di quelle prerogative; e sono di fatto incentivati a esercitare assai poco anche quelle.
Fin qui si è detto del… minimo sindacale: quel minimo di rilevazione e valutazione del merito degli istituti scolastici e di chi in essi insegna, al di sotto del quale la qualità e l’efficacia dell’insegnamento degradano irrimediabilmente – come sta accadendo nel nostro Paese – al di sotto del livello indispensabile perché la scuola pubblica possa svolgere la propria funzione di “costruttrice di uguaglianza” delle dotazioni di partenza di tutti. Se poi una sinistra più coraggiosa ambisse a spingersi al di sopra del minimo sindacale, potremmo allora incominciare a discutere della possibilità di adattare al contesto italiano una delle esperienze straniere di maggiore autonomia dei singoli istituti pubblici, come quella della Grant Maintained Schools britanniche degli anni Ottanta o – meglio ancora – come quella delle Charter Schools statunitensi, che hanno prodotto risultati molto positivi proprio in termini di efficienza e di equità. Il concetto è questo: lo Stato si limita a fissare gli standard inderogabili del servizio, il costo standard (che resta a suo carico) e le regole inderogabili di accessibilità, lasciando libero ciascun istituto circa il modo di selezionare il proprio personale e di autogovernarsi. È poi la scelta degli studenti e delle famiglie quella che tiene in piedi l’istituto stesso, perché è solo in relazione alle loro iscrizioni che esso ottiene il finanziamento statale; e se queste difettano, così come nel caso in cui gli standard minimi di efficienza ed efficacia non vengano rispettati, l’istituto chiude e tutto il personale perde il posto (rinvio in proposito a Liberiamo la scuola, di Andrea Ichino e Guido Tabellini, pubblicato nell’ambito del Forum Idee per la Crescita dell’Università Bocconi). Nel contesto di una scelta di questo genere, non ci sarebbero ovviamente limiti alla possibilità di istituire sostegni ulteriori – per esempio sotto forma di borse di studio finalizzate ad aumentarne la mobilità e la libertà effettiva di scelta della scuola – per i figli delle famiglie in situazione di maggiore difficoltà.
Senonché l’intero catalogo delle misure di cui sopra ho fatto cenno è bollato dalla sinistra-sinistra come “di destra”. Col risultato che “di sinistra” resta soltanto la possibilità di tenerci una scuola pubblica di livello medio sempre più basso e sempre meno capace di offrire ai ragazzi appartenenti alle famiglie più sprovvedute lo strumento per colmare il divario di dotazione rispetto ai più fortunati, le cui famiglie sono in grado di colmare le gravi lacune dell’insegnamento pubblico.
Un altro ascensore sociale di importanza cruciale è costituito dai servizi al mercato del lavoro. “Occuparsi dei poveri” significa adoperarsi per risolvere un problema gravissimo: quel 40 per cento di posti di lavoro qualificato o specializzato – in Italia sono ogni mese centinaia di migliaia! – che le imprese hanno necessità di attivare ma non riescono a coprire per mancanza delle persone idonee. È la conseguenza di un sistema della formazione professionale del quale nessuno controlla e misura in modo sistematico l’efficacia.
Per attivare il controllo che sarebbe necessario il modo c’è ed è ben conosciuto nei Paesi del centro e nord-Europa (qui da noi è previsto dal Jobs Act: artt. 13-16 del d.lgs. n. 150/2015): istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione. Sarebbe così possibile conoscere di ogni corso il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio. Ma questa previsione legislativa è stata totalmente disattesa per un’intera legislatura: non solo perché per la sinistra-sinistra il Jobs Act è come il fumo negli occhi, ma anche, più specificamente, perché una mappatura rigorosa dell’efficacia della formazione porterebbe a chiudere una buona metà dei centri che oggi vengono finanziati col denaro pubblico; e alla sinistra-sinistra – al di là dei proclami verbali – sta più a cuore difendere la stabilità degli addetti a questi corsi che difendere l’interesse della generalità delle persone che vivono del proprio lavoro a poter disporre di servizi efficaci nel mercato.
Sono in gioco molte centinaia di migliaia di posti che potrebbero essere attivati senza necessità di nuovi investimenti o incentivi pubblici. Questi posti sono già oggi lì, pronti a dare lavoro e reddito ad altrettante persone che siano in grado di candidarvisi: abbiamo dei veri e propri enormi giacimenti occupazionali che lasciamo inutilizzati. Ciò che occorrerebbe per sfruttarli sarebbe solo la capacità del sistema di attivare, uno per uno, i percorsi specificamente necessari per mettere in comunicazione questa domanda con l’offerta di manodopera; ma è proprio questa capacità che in Italia fa difetto (devo rinviare in proposito, per un esame più puntuale della questione al mio libro L’intelligenza del lavoro, Rizzoli, 2020).
3. Valutare il “merito” degli studenti e dei partecipanti ai corsi di formazione?
Fin qui si è discusso della necessità imprescindibile di una costante e rigorosa attenzione al “merito” delle strutture preposte all’educazione dei giovani e alla formazione professionale delle persone interessate a usare a proprio vantaggio il mercato del lavoro, nonché al “merito” di chi a queste strutture è addetto. Non può essere elusa, però, la questione – politicamente assai delicata – se e quanto, nell’ottica del servizio che scuola e sistema della formazione devono svolgere come fattori di equalizzazione delle dotazioni di partenza delle persone, debba essere rilevato e valutato anche il “merito” delle persone stesse che del servizio si avvalgono.
Da una pluridecennale esperienza diretta, sia nel campo dell’insegnamento sia in quello dell’organizzazione e del governo dei servizi al mercato del lavoro, traggo diversi argomenti a sostegno della tesi secondo cui le strutture stesse preposte all’educazione e alla formazione professionale non possono svolgere fino in fondo la propria funzione di “ascensore sociale”, di fattore di equalizzazione delle opportunità, se non sono capaci di rilevare e valutare il merito individuale degli allievi nell’ambito del rapporto di insegnamento/addestramento. Merito che, qui, assume rilievo non certo al fine di una selezione dei migliori e tanto meno di una esclusione dei peggiori, bensì come terreno di confronto personale tra il docente e il discente, impegnato il primo a stimolare nei modi più appropriati il secondo a dedicare tutte le proprie energie e risorse per il migliore apprendimento. Il merito che qui assume rilievo deve dunque essere inteso non tanto nel senso del livello assoluto di apprendimento, che può essere raggiunto dalla singola persona, quanto nel senso
- del livello di apprendimento effettivamente raggiunto da ciascuna singola persona in rapporto al suo punto di partenza;
- del livello di impegno profuso da ciascuna singola persona per raggiungerlo.
Una struttura scolastica o di formazione professionale che rinunci a rilevare questi due dati e a discuterne con ciascun allievo abdicherebbe a una parte rilevante della propria funzione formativa, privando l’interessato della possibilità di verifica del risultato del proprio investimento di tempo e di fatica. Questa verifica, quale che ne sia il risultato, costituisce invece una fase essenziale del percorso formativo: escluderla in nome dell’egualitarismo finisce dunque col rendere un pessimo servizio alla causa dell’uguaglianza.
Ma, a ben vedere, non si fa un buon servizio alla causa della costruzione delle pari opportunità tra le persone neppure coll’escludere del tutto la rilevazione e valutazione del livello assoluto di apprendimento della singola persona. Perché questo dato sarà comunque rilevante nel momento in cui la persona medesima dovrà confrontarsi con la realtà del tessuto produttivo, che è cieca e sorda alle istanze egualitaristiche, del tutto indifferente al politically correct, molto reattiva invece alle differenze di capacità degli individui di rendersi concretamente utili. Ancora una volta, si fa un pessimo servizio alla causa della costruzione delle pari opportunità tra le persone privandole, nella scuola o nel mercato del lavoro, di un servizio di orientamento capace di porre a confronto le rispettive aspirazioni professionali con le capacità effettive. Eppure, proprio questo servizio – per il quale la valutazione di cui si è detto è imprescindibile – ai poveri italiani viene erogato assai meno e assai peggio rispetto a tutti i Paesi del centro e nord-Europa.