Perché il sostegno del reddito ai bisognosi non incentivi il lavoro nero e non deprima la partecipazione al mercato del lavoro regolare è indispensabile attivare i percorsi di formazione mirata alle centinaia di migliaia di posti di lavoro che le imprese non riescono a coprire per mancanza delle persone idonee
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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 27 ottobre 2022 – In argomento v. anche Restano inutilizzati grandi giacimenti occupazionali
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«Esistono enormi giacimenti occupazionali che restano inutilizzati per difetto dei percorsi di formazione o addestramento necessari», dice Pietro ichino, giuslavorista dell’università Statale di Milano, considerato il padre del Jobs act, un passato prima nella Cgil e poi nel Pd, «oltre un milione di posti di lavoro che le aziende non riescono a coprire». Il reddito di cittadinanza che il governo Meloni vuole rivedere? «Riformarlo mi sembra più che necessario» per «fare finalmente le cose necessarie perché il sostegno del reddito non abbia un effetto depressivo sulla partecipazione effettiva dei beneficiari al mercato del lavoro». E al segretario della Cgil, Maurizio Landini, che si oppone a una scuola del merito, Ichino replica: «Mi sembra che Landini non abbia ben presenti i difetti gravissimi dell’insegnamento pubblico. È proprio per l’incapacità di valutare e valorizzare il merito – degli insegnanti soprattutto, oltre che degli studenti – che la nostra scuola pubblica è incapace di garantire a tutti, soprattutto a chi parte da una situazione di svantaggio, un insegnamento di alta qualità in tutte le materie».
Professor Ichino, con la discussione sulla fiducia al nuovo governo si è riacceso il faro sul reddito di cittadinanza. Per il nuovo governo, il rdc va mantenuto per i soggetti che non sono in grado di lavorare. Agli altri va tolto. Il giudizio della Meloni è che sia stato una sconfitta. Lei cosa ne pensa?
R. In tutta l’Unione Europea a chi è disoccupato viene riservato un trattamento di natura assicurativa, quando ne sussiste il requisito contributivo, o altrimenti un trattamento assistenziale. Quest’ultimo da noi oggi si chiama reddito di cittadinanza; ma è stato disegnato male. Riformarlo mi sembra più che necessario; eliminarlo no.
Per il Movimento5Stelle non lo si può togliere agli ultimi se non si sono fatte politiche per il lavoro efficaci negli ultimi 50 anni.
R. Riformarlo significa, appunto, fare finalmente le cose necessarie perché il sostegno del reddito non abbia un effetto depressivo sulla partecipazione effettiva dei beneficiari al mercato del lavoro. Queste cose si chiamano “politiche attive del lavoro”, sulle quali anche i ministri del Lavoro del M5S nell’ultima legislatura hanno fatto poco e molto male.
E quali sono le cose giuste da fare?
R. Da molti anni le imprese italiane incontrano grandi difficoltà a trovare le persone di cui hanno bisogno: le situazioni di skill shortage oggi si misurano in molte centinaia di migliaia, in tutti i settori e in tutte le fasce di professionalità. Anche ai livelli più bassi: ce ne sarebbe per tutti. Per ciascuna di queste situazioni occorre predisporre un corso mirato di formazione o addestramento e richiedere al percettore di rdc di parteciparvi, con la prospettiva di occupare, al termine, il posto scoperto. Altrimenti cessa il sostegno del reddito.
Non è questo il meccanismo dell’“offerta di lavoro congrua”?
R. No: quel meccanismo, previsto dalla legge vigente, non funziona e non può funzionare: non è mai accaduto che un Centro per l’Impiego abbia notificato a un beneficiario un’“offerta congrua”. Prova ne sia che nei tre anni di attivazione del rdc non si registra neppure un solo caso di decadenza per rifiuto di “offerta congrua”: i soli, pochissimi, casi di decadenza sono stati causati dall’irreperibilità al domicilio. Può funzionare invece l’offerta di un percorso di formazione o addestramento, mirato a posti di lavoro effettivamente scoperti.
I navigator fanno in media un colloquio al giorno, ma il lavoro non si trova. Un fallimento che va messo in carico a chi?
R. La domanda di manodopera c’è, eccome. L’indagine Unioncamere-Anpal in proposito rivela l’esistenza di enormi giacimenti occupazionali che restano inutilizzati per difetto dei percorsi di formazione o addestramento necessari per mettere in comunicazione domanda e offerta, cioè delle politiche attive del lavoro, appunto. Per le quali spendiamo un centesimo di quello che spendiamo per le politiche passive, cioè per i cosiddetti “ammortizzatori sociali”.
Giacimenti occupazionali? Di che cifre parliamo?
R. Oltre 1,2 milioni di posti restano permanentemente scoperti per mancato reperimento delle persone adatte a ricoprirli. Secondo l’ultima indagine Unioncamere Anpal, nel 45% dei casi le imprese non trovano le competenze che cercano. Un dato in crescita, +9% solo rispetto al 2021
Nel suo libro L’intelligenza del lavoro lei sostiene che il finanziamento pubblico della formazione professionale dovrebbe essere condizionato alla sua efficacia. Come si fa ad attivare questa condizionalità?
R. Occorre fare quello che è previsto dal Jobs Act, articoli 13-16 del d.lgs. n. 150/2015: istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione. Sarebbe così possibile conoscere di ogni corso il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio.
Se lo prevede la legge, perché non lo si fa?
R. I motivi sono più d’uno. Il primo è che per molti politici, a sinistra e a destra, il Jobs Act è come il fumo negli occhi. Poi c’è il fatto che le Regioni diedero, nel 2015, il loro consenso a questa norma legislativa obtorto collo, solo perché anticipava la riforma costituzionale che avrebbe attribuito allo Stato un potere di controllo e di coordinamento in questa materia; caduta la riforma costituzionale nel 2016… liberi tutti: quella norma legislativa è stata molto volentieri dimenticata.
Neanche una sola regione che l’abbia applicata?
R. Neanche una. Anche perché una mappatura rigorosa dell’efficacia della formazione porterebbe a chiudere una buona metà dei centri che oggi vengono finanziati col denaro pubblico; e a troppi politici sta più a cuore la stabilità degli addetti a questi corsi che l’interesse della generalità delle persone che vivono del proprio lavoro, oltre che delle imprese.
Selezionare in base al merito: quello che lei propone per la formazione sembra richiamare un po’ quello che preannuncia il nuovo ministro dell’Istruzione per la scuola pubblica.
R. Se il discorso sul merito è riferito agli insegnanti, ai formatori, sono del tutto d’accordo: il sistema della formazione professionale, come quello dell’istruzione, deve mettere al primo posto l’interesse degli utenti; dunque non può rinunciare a valutare le strutture e l’operato delle persone che vi sono addette. E tanto meno rinunciare a selezionarle e premiarle in funzione del merito.
Per il Pd il merito, che l’esecutivo ha voluto ribadire modificando il nome del ministero dell’istruzione, rischia di lasciare indietro gli ultimi, come ha argomentato il vicesegretario Provenzano.
R. La scuola deve essere aperta a tutti e, soprattutto al livello elementare e medio, deve essere capace di neutralizzare l’handicap che penalizza i più deboli. Ma questo non significa che essa debba rinunciare a valutare la performance dei ragazzi. E neanche, tanto meno, quella degli insegnanti. Come invece accade oggi, col risultato che un insegnante può non insegnare o insegnare malissimo senza essere rimosso dalla cattedra.
Ma chi può valutare il merito di un insegnante, o addirittura di un istituto scolastico?
R. La Gran Bretagna ci offre da decenni l’esempio di una agenzia pubblica indipendente capace di valutare in modo molto attendibile la performance di ciascun istituto scolastico sulla base di diversi indici, tra i quali soprattutto: il tasso di abbandono scolastico, i test somministrati a tutti gli allievi, un po’ come i nostri test Invalsi, gli esiti scolastici od occupazionali dei ragazzi che escono col diploma dall’istituto, le valutazioni degli studenti stessi, o delle loro famiglie per i ragazzi sotto i 16 anni. Lo chiamano “star system” perché a ogni istituto vengono attribuite una, due o tre stelle a seconda dell’esito della valutazione, sempre tenendosi conto delle condizioni del bacino di utenza.
E se l’istituto non arriva a meritarsi neppure una stella?
R. In quel caso l’istituto entra in “zona warning”. Se entro due anni non riesce a recuperare almeno un livello di sufficienza, esso viene chiuso: il dirigente viene licenziato e tutto il personale, docente e amministrativo, viene trasferito ad altri istituti più capaci di valorizzare il lavoro del proprio personale.
Per Landini la parola merito rischia di essere uno schiaffo in faccia a chi parte da una situazione di svantaggio. Cosa pensa del suo ex sindacato?
R. Mi sembra che Landini non abbia ben presenti i difetti gravissimi dell’insegnamento pubblico. È proprio per l’incapacità di valutare e valorizzare il merito – degli insegnanti soprattutto, oltre che degli studenti – che la nostra scuola pubblica è incapace di garantire a tutti, soprattutto a chi parte da una situazione di svantaggio, un insegnamento di alta qualità in tutte le materie. Proprio per questo la nostra scuola tradisce la propria missione.
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