Nel 2011 la finanza pubblica italiana era sull’orlo del default: era chiaro a tutti, dal Pd al PdL, che la situazione era drammatica e che per uscirne erano indispensabili misure politicamente possibili solo se prese da uno schieramento bi-partisan; andare alle elezioni anticipate in quella situazione sarebbe stata una follia
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Intervista a cura di Lorenzo Giarelli rilasciata il 24 agosto 2022, pubblicata parzialmente nel numero di settembre 2022 di Millennium, mensile del Fatto quotidiano – È online anche, in formato PDF, l’intero servizio nel quale l’intervista è stata inserita – In argomento v. pure La lettera della BCE al Governo italiano, del 5 agosto 2011
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Il servizio in cui l’intervista è inserita, in formato PDF
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L’INTERVISTA NELLA SUA VERSIONE INTEGRALE
Professor Pietro Ichino, nel 2011 ci fu un travagliato dibattito interno al Pd riguardo al sostenere o no il governo Monti: in caso di elezioni anticipate, il Pd avrebbe probabilmente vinto. Ricorda i motivi per cui lei e altri colleghi riusciste a convincere Bersani?
Nel 2011 la decisione del Pd di sostenere il governo Monti non fu affatto travagliata. La finanza pubblica italiana era sull’orlo del default, con gli interessi sul debito che sfioravano il sestuplo di quelli tedeschi; era chiaro a tutti, dal Pd al PdL, che la situazione era drammatica e che per uscirne erano indispensabili misure politicamente possibili solo se prese da uno schieramento bi-partisan. Andare alle elezioni anticipate in quella situazione sarebbe stata una follia.
Ebbe la sensazione che Bersani si fosse convinto davvero o fu più una imposizione dovuta all’orientamento del partito e alla moral suasion del Quirinale?
Il segretario Bersani era il primo a esserne convinto. Non fu necessaria alcuna pressione da parte del Capo dello Stato.
Quando il governo Monti cadde, lei sostenne che il Pd avrebbe dovuto farsi carico di una sorta di “agenda Monti”, della quale fu in parte l’estensore, per portare avanti quanto di buono era stato fatto dal governo. Vede analogie con la situazione attuale, dopo la caduta del governo Draghi?
In realtà, dell’“agenda Monti” si era incominciato a parlare assai prima della crisi dell’estate 2011: già nell’autunno 2010 al convegno di Orvieto dell’associazione LibertàEguale i parlamentari ad essa aderenti avevano lanciato questa parola d’ordine.
Oltre a lei, chi faceva parte di quel gruppo di parlamentari?
Il presidente dell’associazione, Enrico Morando, e poi Paolo Gentiloni, Magda Negri, Giorgio Tonini, Stefano Ceccanti, Marilena Adamo, Alessandro Maran, Marco Follini, Irene Tinagli, Paolo Giaretta, e diversi altri. Era stato proprio questo gruppo, fin dall’anno precedente, quando lo spread dell’interesse sul debito pubblico era ancora sotto la quota 300 – come è adesso – a indicare la necessità urgente di por mano con decisione a quelle riforme essenziali, che poi sarebbero state indicate sinteticamente nella lettera del governatore uscente e di quello entrante della BCE al governo italiano del 5 agosto 2011.
Cosa risponde a chi individua nella scelta di sostenere Monti, nel 2011, un’occasione persa per il Pd? Da allora il Pd si è come abituato ad essere un perno del sistema, il partito che più di tutti garantisce stabilità e responsabilità, a costo però di parte del consenso e forse dell’opportunità di costruire maggioranze meno eterogenee.
Nel novembre 2011, quando Silvio Berlusconi lasciò Palazzo Chigi a Mario Monti, la scelta di non appoggiare il nuovo governo e il suo programma – indispensabile per evitare all’Italia la catastrofe del default, con tutti i costi sociali che ne sarebbero altrimenti conseguiti – poteva essere compiuta solo da un partito anti-sistema e contrario all’appartenenza del Paese alla UE, come era la Lega. Nessuno nel Pd poteva pensare seriamente di fare quello che fece la Lega.
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