Perché è ragionevole temere che, nonostante gli annunci degli ultimi giorni, ancora una volta non se ne farà nulla
.
Editoriale telegrafico, 9 maggio 2022 – In argomento v. anche, su questo sito: l’articolo di Tito Boeri, Andrea Ichino, Enrico Moretti e Johanna Posch, dell’aprile 2019, Il lato perverso della contrattazione centralizzata; il mio intervento al XIX congresso dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro svoltosi a Palermo dal 17 al 19 maggio 2018, Problemi costituzionali in tema di standard retributivo inderogabile; l’articolo pubblicato su Il Foglio il 5 ottobre 2021, Lavoro povero: lo standard minimo non basta, occorre anche la trasparenza delle retribuzioni; inoltre il n. 126 di Mercato del lavoro News, Minimi retributivi e soglia di povertà
.
A giudicare dagli annunci del ministro del Lavoro e del segretario del PD, parrebbe che siamo alla vigilia dell’istituzione di quello standard retributivo minimo orario generale, che esiste nella maggior parte degli altri Paesi europei ma non in Italia. Sarebbe auspicabile che ci si arrivasse davvero: se ben strutturato e modulato, farebbe molto bene al nostro mercato del lavoro e al nostro sistema delle relazioni industriali. Temo però che, se prima non si scioglie un nodo assai spinoso e difficile, non supereremo la fase degli annunci.
L’Italia è lunga, gli squilibri regionali sono molto marcati; il costo della vita a Crotone o a Nuoro è almeno del 30 per cento inferiore rispetto a Milano. Con 1200 euro al mese al sud si può vivere decentemente, al nord no. D’altra parte, anche la produttività media del lavoro è più alta al nord rispetto al sud. Così, per esempio, uno standard minimo orario di 8 euro, che corrisponde all’incirca a 1360 euro al mese, al nord avrebbe probabilmente solo effetti positivi, al sud avrebbe molto probabilmente un sensibile effetto depressivo sulla domanda di lavoro regolare.
La soluzione più lineare consisterebbe nell’affidare a un’autorità – quale potrebbe essere il CNEL, visto che nel 2016 abbiamo deciso di tenerlo in vita – il compito di determinare lo standard minimo in termini di potere d’acquisto effettivo, modulandolo sulla base dell’indice Istat del costo della vita regionale o provinciale. Senonché una soluzione di questo genere urta contro un tabù oggi fortissimo, secondo il quale “non si possono reintrodurre le gabbie salariali”, abolite più di mezzo secolo fa. Un’altra soluzione potrebbe, allora, essere quella di “sgabbiare la contrattazione collettiva” consentendole di adattare lo standard minimo alle condizioni particolari delle zone dove il costo della vita è inferiore alla media nazionale; ma anche questa soluzione è sgradita alle confederazioni sindacali maggiori. Certo è che, se non si scioglie questo nodo, è assai difficile che il minimum wage italiano veda davvero la luce.
.