Le debolezze del sistema salariale italiano: minimi contrattuali bassi, discriminazione di genere, cuneo fiscale che privilegia in misura abnorme le componenti assicurative rispetto alla retribuzione diretta
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Numero 126 del bollettino Mercato del Lavoro News, organo della Fondazione Anna Kuliscioff, 2 maggio 2022, a cura di Claudio Negro – In argomento v. anche, su questo sito, il numero precedente dello stesso bollettino
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Vorremmo iniziare questa indagine verificando se esista un nesso tra la dimensione delle retribuzioni italiane e il tasso di povertà lavorativa sensibilmente più alto della media europea (12% contro il 9%). Per la precisione secondo Eurostat sotto la soglia di povertà (60% della mediana delle retribuzioni equalizzate tramite l’applicazione del PPA = parità di potere d’acquisto) nel 2019 stava l’11,2% dei lavoratori italiani, contro l’8% della Germania, il 7,4% della Francia, l’8,9% dell’Area Euro.
Per instaurare un confronto tra i trattamenti salariali, nel 2020 la retribuzione media (non mediana) annua lorda era in Francia di 38.187 €, in Germania 52.103, in Olanda 54.842; in Italia 28.500 (dati 2022) pari all’80,9% della retribuzione media UE. Quanto alla retribuzione media netta (dati 2019) in Italia era 19.452 €, in Germania 25.638, in Francia 21.897, nell’area Euro 21.584.
Occorre tenere presente che i dati sui salari sono reali, in quanto espressi in potere d’acquisto equivalente.
Interessante notare che, evidentemente in relazione al basso livello dei salari medi, Eurostat segnala che gli italiani sono più a rischio di povertà lavorativa rispetto ai maggiori Paesi Europei quale che sia il loro tipo di contratto di lavoro: per i lavoratori a tempo indeterminato il rischio (dati 2019) è pari all’8,2%, contro il 5,9% della zona Euro, il 6,3% della Germania, il 4,9% della Francia, perfino il 7,4% della Spagna. Per i lavoratori full time il 10,3%, contro il 7,3 dell’Area Euro, il 5,5 della Francia, il 5,7 della Germania.
Se poi prendiamo in considerazione i contratti a termine o part time la situazione si presenta anche peggiore: sono a rischio povertà il 18,6% dei part timer italiani contro la media del 13,4 dell’Area Euro, il 12,5 della Germania, il 15,5 della Francia e il 5,7 dell’Olanda, che pure ha una percentuale di part timer prossima al 50%. Per quanto concerne i lavoratori a tempo determinato la percentuale sale al 22,5%, contro il 17,1 dell’Area Euro, il 13,9 della Francia, il 15,8 della Germania, l’Olanda al 10,7 e perfino la Spagna (22%) sta meglio di noi.
È interessante notare l’entità del cuneo fiscale-contributivo sul salario lordo nel confronto con i nostri partner europei. Ma per un raffronto significativo occorre tener conto anche dei contributi a carico del datore, quindi fare riferimento a un dato molto vicino al costo del lavoro: fatta 100 la retribuzione netta, sommata al prelievo fiscale e ai contributi a carico di lavoratore e datore il totale ammonta, per l’Italia a 207 (Centro Studi Confindustria 2017) tenendo anche conto dei premi INAIL e dei ratei di TFR. La Germania è a 199 e la Francia a 192. Da notare che l’Italia è di gran lunga il Paese con la più alta contribuzione previdenziale (aliquota 33%), mentre la Francia sta al 27,5%, la Germania al 18,7%, Svezia e Svizzera appena sopra il 20% (quest’ultima tenendo conto del “secondo pilastro” obbligatorio, ossia di un fondo complementare privato). Il che determina per l’Italia il tasso di sostituzione (trattamento pensionistico rispetto alla retribuzione del lavoratore attivo) della pensione “piena” più alto in Europa, pari al 75%, rispetto al 52% della Francia e al 47% della Germania (OCSE 50%). Il rimanente 10% della contribuzione versata in Italia (quasi totalmente a carico dell’impresa) è finalizzata all’integrazione al reddito (disoccupazione, Cassa Integrazione e simili, fondo di garanzia TFR), all’indennità di malattia e maternità, all’Assegno Familiare. L’imposizione fiscale vera e propria (IRPEF) non è particolarmente alta: maggiore di quella francese e spagnola, ma inferiore a quella tedesca e dei paesi scandinavi.
In sostanza, tenendo conto anche dei contributi a carico dell’azienda, le retribuzioni italiane sembrano essere orientate a garantire prestazioni assicurativo-assistenziali piuttosto che a sostenere i consumi: fatto 100 il salario netto, la somma dei contributi (a carico del lavoratore e a carico dell’azienda), delle quote di salario differite e dell’imposta ammonta a 107! In nessun paese europeo i contributi sociali sono imponenti come in Italia: la Germania, che è la realtà che più ci si avvicina, ha un indice 99, che però comprende anche il contributo per la Sanità (14,8%) come in Francia e nella maggior parte dei paesi europei, mentre in Italia è a carico della fiscalità, come in Inghilterra e nei paesi scandinavi.
Per quanto riguarda i lavoratori autonomi alcuni contributi (Integrazione al reddito, per lo più l’INAIL, TFR) non sono dovuti, ma il contributo previdenziale è a carico del lavoratore, anche se inferiore al 33% che si paga per dipendenti.
La struttura salariale in Italia ha alcune caratteristiche che meritano di essere messe a fuoco. Un dato da considerare con attenzione è quello che descrive le retribuzioni di mercato rispetto ai minimi contrattuali: nel comparto metalmeccanico, per esempio, fatto 100 il minimo per gli operai si riscontra un valore massimo di mercato di 265 e un valore mediano di 175. Un dato che dimostra quale valore assuma la professionalità (in questo caso non siamo in grado di distinguere tra quella acquisita per formazione e quella derivata da esperienza) in un comparto manifatturiero per eccellenza. Il resto dell’industria manifatturiera dà risultati di tendenza analoga, ma molto inferiori per entità. Da notare che in genere la retribuzione minima di mercato (con l’eccezione del metalmeccanico e del tessile-abbigliamento) è pochissimo superiore e quasi coincidente col minimo contrattuale. Andamento analogo, per i medesimi comparti, per gli impiegati, anche se con medie più alte e picchi più bassi. Sono dati che testimoniano di quanto le professionalità acquisite influiscano sulla retribuzione, e spiegano anche la crescente propensione dei lavoratori alla mobilità tra posti di lavoro.
Un altro dato da tenere presente è il gap retributivo riferito all’età dei lavoratori: il salario medio lordo della fascia di età tra 15 e 24 anni è pari appena al 43,7% di quello della fascia over 55. Il salario della fascia 30-49 anni è inferiore del 13,5% rispetto alla fascia over 55 (quartultimo dato peggiore dell’UE) ma contestualmente è superiore del 32,9% rispetto agli under 30: dato questo abbastanza in linea con i Paesi paragonabili al nostro nell’UE.
Un altro indicatore interessante è quello della retribuzione per genere: in Italia la retribuzione di fatto delle donne è pari al 79,4% di quella degli uomini, poco al di sotto della media UE (82,4%); tuttavia va rimarcato che tuti i Paesi più evoluti hanno percentuali più tendenti alla parità.
La retribuzione non si riparametra sensibilmente per grado di istruzione del lavoratore: la retribuzione media di fatto dei lavoratori senza titolo di studio o titolo di grado primario è il 63% di quella dei laureati, contro una media del 49% nell’area Euro e addirittura il 39% in Germania.
In conclusione i valori di mercato delle retribuzioni sono significativamente superiori a quelli dei minimi contrattuali, ma sono strettamente correlati all’esperienza professionale, quindi all’età, nonché al genere, ma poco al livello di istruzione; inoltre tendono a posizionarsi sul minimo contrattuale allo scendere di questi indicatori. Unitamente all’indice di produttività stagnante da oltre 20 anni (0,4% di crescita dal 1995, contro l’1,5% della media europea) determinano il livello modesto delle retribuzioni in Italia.
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