Si è rotta quella sorta di “incantesimo” per cui, fino all’arrivo della pandemia, nessuno metteva in discussione che si dovesse uscire tutti i giorni di casa alle otto per andare al lavoro; molti cercano un lavoro migliore, altri si chiedono se non sia il caso di sospendere per un po’ il lavoro stesso
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Intervista a cura di Nadia Anzani in corso di pubblicazione sul blog di Intoo, maggio 2022 – In argomento v, anche il mio articolo Il rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro
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Alla luce del fenomeno delle dimissioni volontarie arrivato anche in Italia, cosa si è rotto nel rapporto tra aziende e dipendenti?
Se qualcosa si è rotto, è quella sorta di “incantesimo” per cui, fino all’arrivo della pandemia, nessuno metteva in discussione che si dovesse uscire tutti i giorni di casa alle otto per andare al lavoro. Il lockdown ha fatto apprezzare a tutti i vantaggi del poter lavorare da casa, e anche i vantaggi… del non lavorare affatto. Molti hanno rivendicato e ottenuto dalle aziende la possibilità di continuare con lo smart working anche dopo la pandemia; altri, non avendolo ottenuto, hanno incominciato a guardarsi intorno per trovare un nuovo datore di lavoro disponibile per questo assetto del rapporto; altri ancora hanno preferito prolungare ancora per un po’ il non lavoro retribuito, dedicarsi ad altro.
Quali sono i principali punti di scollamento tra il nuovo concetto di lavoro che si sta facendo strada tra i dipendenti e quello delle organizzazioni?
Distinguerei la situazione che è venuta a crearsi nelle amministrazioni pubbliche da quanto sta accadendo nelle imprese private. Nel settore pubblico è accaduto assai diffusamente che il periodo del cosiddetto “smart working d’emergenza” sia stato in realtà un periodo di non lavoro: perché l’attività non era suscettibile di essere svolta da remoto, perché mancava di fatto la possibilità di una connessione adeguata da remoto con l’organizzazione informatica dell’amministrazione, perché il management non era responsabilizzato per la realizzazione di un nuovo modello di organizzazione, né era preparato a ristrutturare i rapporti di lavoro responsabilizzando i dipendenti per un risultato. Qui la fine dell’emergenza ha imposto di fatto, al di là delle enunciazioni verbali, un ritorno alla normalità dei rapporti precedente alla pandemia.
E nel settore privato?
Qui gli scenari che si sono verificati sono due. Da un lato le aziende dove non solo i lavoratori, ma anche il management ha scoperto le potenzialità dello smart working, in termini di maggiore agilità complessiva dell’organizzazione, maggiore soddisfazione e motivazione dei dipendenti, riduzione dei costi; con la scelta conseguente di rendere permanente l’opzione per una modalità mista di svolgimento della prestazione, con l’alternanza tra lavoro in azienda e da remoto. Dall’altro lato le aziende dove invece l’esperienza del lavoro da remoto ha significato una riduzione di efficienza, nelle quali si è puntato pertanto sul ritorno alla regola della presenza nel luogo di lavoro.
C’è qualche cosa nella nuova logica del lavoro che non è stato ancora messo bene a fuoco?
Ce ne sono almeno due. Innanzitutto il nuovo paradigma del mercato del lavoro, che non è più soltanto il luogo dove gli imprenditori si scelgono i collaboratori, ma anche quello in cui le persone che vivono del proprio lavoro si scelgono l’impresa più capace di valorizzare le loro capacità.
È il tema centrale del suo libro L’intelligenza del lavoro (Rizzoli, 2020), dove lei parla anche dell’evanescenza progressiva della summa divisio novecentesca tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.
Questo, appunto, è l’altro grande mutamento che occorre mettere bene a fuoco. Nel nuovo secolo stanno progressivamente perdendo rilievo gli elementi che nel secolo precedente hanno costituito i tratti essenziali della prestazione subordinata: il vincolo del coordinamento spazio-temporale dell’attività svolta e l’assoggettamento pieno a etero-direzione. Perché, per un verso, anche nell’area della subordinazione accade sempre più diffusamente che il coordinamento dell’attività con il resto dell’organizzazione aziendale avvenga per mezzo di quelle stesse attrezzature informatiche e telematiche di cui si avvale il collaboratore autonomo; per altro verso, quello stesso modo in cui si realizza il coordinamento implica sempre, in qualche misura, un assoggettamento a controllo ed eterodirezione.
Con quali conseguenze sulla logica dell’ordinamento del lavoro?
Con la conseguenza che assumere la nozione novecentesca di “subordinazione” come criterio per definire il campo di applicazione del sistema delle protezioni ha sempre meno senso. Mentre emerge sempre più chiaramente la necessità di riferire le protezioni stesse a una nozione di “dipendenza economica”, che copre un’area per alcuni aspetti più ampia, per altri aspetti ridotta, rispetto a quella della vecchia “subordinazione”.
Anche i sindacati dovrebbero rivedere il loro ruolo?
La seconda parte del mio libro che lei ha citato è dedicata a ridefinire il ruolo del sindacato nel nuovo contesto, nel quale per un verso ritorna a essere essenziale l’assistenza e il sostegno alla persona più debole nel mercato del lavoro, prima ancora che dentro l’azienda; per altro verso il sindacato ha il compito di guidare i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore sul piano industriale innovativo e poi nella partecipazione alla realizzazione del piano stesso e al relativo controllo. A questo proposito parlo del compito del sindacato di “dare un’anima all’impresa”.
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