La comunicazione sindacale per slogan, modellata sulla percezione diffusa della realtà ma non su una sua analisi corretta, si trasforma in un meccanismo amplificatore di fake news su numerosi temi caldi della politica sociale e del lavoro, dal “precariato” agli infortuni, dalle pensioni alla sanità
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Articolo di Claudio Negro pubblicato il 13 aprile 2022 su Il Diario del Lavoro – In argomento v. anche, dello stesso Autore, Il penultimatum di Cgil Cisl e Uil a Draghi
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La cosa che più colpisce nella comunicazione sindacale dei tempi più recenti è il ricorso costante al formato dello spot, con modalità che ricordano da vicino (e forse sono anche volute) le campagne pubblicitarie per promuovere un prodotto. È caratteristica ad esempio la ripetitività martellante dello slogan, che è inteso a indurre una riconoscibilità immediata e un collegamento automatico con il brand (in questo caso la sigla sindacale).
Una caratteristica molto evidente nella campagna della UIL “Patto di Stabilità No Grazie”, che pare essere il leit motiv della comunicazione UIL dopo lo “0 morti sul lavoro? OK!” del 2021: allo slogan, enunciato e poi declinato in piccoli paragrafi, si accompagna l’immagine di un cartellone che lo riprende, enfatizzato dalla presenza nell’immagine di diversi dirigenti UIL ai vari livelli (un’ottima idea la fungibilità e la flessibilità della formula cartellone + sindacalista). Il target della campagna è tutto nel dar vita a un meccanismo di identificazione tra slogan e brand e quindi stimolare i meccanismi di riconoscimento e appartenenza.
Meno aggressiva sui social (e magari meno smart…) la propaganda della CGIL, che però si attiene anch’essa, e con grande coerenza, a una seconda caratteristica della comunicazione sindacale: le informazioni che vengono comunicate sono inesatte, incomplete in modo tale da alterarne la reale consistenza, talvolta del tutto false ma sempre in consonanza con qualche luogo comune; fake news ma coincidenti con le opinioni comuni meno informate e più “di pancia”. In generale improntate a confermare la fondatezza delle parole d’ordine sindacali.
La forza di questa disinformacjia si basa essenzialmente sul dato di fatto che la gran parte dei media la riprendono senza fare verifiche e la amplificano (per ragioni commerciali o semplicemente di sciatteria professionale); i social la moltiplicano come ogni altra cosa, le fonti non allineate non hanno appeal e così la “narrazione” spiega le sue ali al vento. Per un po’ può sembrare una cosa buffa, ma alla fine ci troviamo a fare i conti con una “sapienza popolare” che prescinde dall’osservazione oggettiva, paragonabile in termini empirici alle teorie no-vax o della terra piatta.
Come sempre il possesso della “verità”, della spiegazione, suscita certezze, intolleranza e aggressività tra chi la possiede. E così la comunicazione sindacale tende a diventare minacciosa, ultimativa, truculenta, finalizzata con evidenza a creare identificazione e senso di appartenenza in uno scenario fortemente conflittuale. Il lessico ne viene fortemente influenzato: ricomincia a far capolino il termine “sfruttamento” per descrivere il rapporto di lavoro; si asserisce che è sbagliato “lasciare il sistema di orientamento al lavoro nelle mani dei privati”, riproponendo il pubblico come baluardo contro lo sfruttamento privato del lavoro; che “le multinazionali pagano zero tasse”, che “bisogna eliminare i contratti a tempo determinato”; si afferma con accenti ottocenteschi che “giovani precari, madri e padri disoccupati, lavoratori licenziati senza preavviso ci hanno raccontato le loro storie in lacrime…”; che “il lavoro che vogliamo per i giovani non è quello del Jobs Act, quello del precariato e degli algoritmi” cucinando così un minestrone i cui ingredienti non hanno relazione tra loro se non quella di aizzare la “rabbia”; che “i licenziamenti individuali possono essere usati per mascherare i licenziamenti di massa!”.
Intendiamoci: questi messaggi nascono anche da singole vicende vere perché non mancano situazioni di sofferenza sociale che debbono suscitare la giusta reazione di tutti. Ma si fa di ogni erba un fascio senza alcuna analisi delle realtà specifiche, il che finisce per indebolire gravemente la capacità di offrire soluzioni concrete e riduce l’azione sindacale a privilegiare la dimensione della protesta.
Si recuperano accenti guerrieri e un po’ di romanticismo ribellista, e ogni tanto qualche enfatizzazione spropositata, come queste leggibili su tutti i media: “Quando c’è un incidente sul lavoro per noi questo è un attentato alla democrazia”.
Sarebbe sbagliato giudicare tutto ciò una stramba e grottesca mania senile del sindacato: le parole danno una forma alle idee, e le parole che abbiamo visto influenzano la qualità delle relazioni sindacali. Tanto più se strettamente legate a informazioni a tutti gli effetti false o travisate. Sembrerebbe inverosimile, eppure gli esempi sono numerosi e le verifiche facilmente fattibili.
La più di moda è quella per cui ormai il lavoro è solo a termine: basta un’occhiata ai dati ISTAT per verificare che il numero di contratti a termine è semplicemente risalito ai livelli del 2019, prima della crisi Covid, così come il numero dei lavoratori a tempo indeterminato. Eppure, senza nessun riscontro concreto, il precariato è stato eletto ad emergenza cruciale. È del tutto legittimo porsi il problema della graduale trasformazione dei contratti a termine esistenti in contratti a tempo indeterminato, ma è altrettanto necessario costruire le condizioni per raggiungere questo obiettivo senza negare il presente, e tenendo conto che una quota di contratti a termine è frizionale in tutte le economie, per scelta sia imprenditoriale che del lavoratore, e attualmente l’Italia è allo stesso livello degli altri Paesi Europei.
Si badi che il contesto politico internazionale genera non poche preoccupazioni per il futuro. La crisi della globalizzazione ci potrebbe porre di fronte a scelte dolorose in uno scenario di inflazione e stagnazione, in cui bisogna ricostruire un nuovo sistema economico mondiale di nuovo diviso tra due o più blocchi. Non sarebbe più opportuno riflettere su questo scenario e sui contenuti di un progetto adeguato per difendere il nostro tessuto produttivo nel quadro di una costruzione degli Stati Uniti d’Europa?
Un’altra emergenza fittizia è stata individuata nei tagli alla spesa sanitaria, sull’onda dei luoghi comuni profusi a piene mani durante la crisi sanitaria: tuttavia, come facilmente verificabile sul Documento di Economia e Finanza 2020 approvato dal Consiglio dei Ministri, dal 2012 al 2019 essa è costantemente aumentata, cumulando un +5,32% (l’inflazione nel frattempo è stata del 3,8%). Poi per ovvi motivi è rapidamente cresciuta ancora nel 2020 e 2021: nessuna traccia di tagli, se non tornando al 2008! Cosa dire: se tutti nei bar e sui social dicono che i tagli ci sono stati, vogliamo dar torto alla voce del popolo? Si può certamente sostenere che la spesa sanitaria è mal gestita, che vi sono molti sprechi o che la si deve incrementare ancor di più. Ma questo è un altro discorso che implica anche la responsabilità di condividere politiche complessive di bilancio.
Un allarme particolarmente emotivo, e che quindi sarebbe opportuno trattare con correttezza e misura, è quello delle morti sul lavoro: i dati INAIL ci dicono che negli anni ’80 i decessi sul lavoro erano 8 al giorno, negli anni 2000 sono 3,5. Il miglioramento è evidente. In Italia il 60% degli incidenti mortali sul lavoro sono in realtà incidenti stradali (trasporti commerciali o andata/ritorno dal lavoro). Infine il tasso di incidenti mortali in Italia è inferiore a quello tedesco e francese; evidentemente grazie anche a una normativa efficace, che coinvolge attivamente i sindacati nell’attuazione e che quindi andrebbe attribuita a merito dello stesso sindacato. Ma poco importa: nei comunicati sindacali è sempre “strage” e come tale viene ripetuta dai media. E il sindacato pare essere molto più interessato all’“effettaccio” dello spot piuttosto che a vedere cosa eventualmente non ha funzionato nelle norme o nell’utilizzo che magari lo stesso sindacato ne ha fatto…
C’è poi la questione pensionistica che tanto consenso apporta a chi la solleva. Denuncia il sindacato che l’età del pensionamento legale in Italia è tra le più alte in Europa (67 anni) ma omette di dire che, a causa delle diverse possibilità di pensionamento anticipato, l’età media reale della pensione in Italia è attorno ai 62 anni, tra le più basse in Europa. Reclama a gran voce il sindacato che venga divisa le spesa previdenziale da quella assistenziale, lasciando intendere che i contributi pensionistici pagati da aziende e lavoratori vengano usati per “assistenza”: in realtà il 47% dei pensionati è sorretto da spesa assistenziale, non avendo mai versato i contributi necessari a garantire una adeguata rendita pensionistica (e qui abbiamo pensioni sociali, integrazioni al minimo, ma anche le 400.000 pensioni baby o di anzianità percepite da decenni da lavoratori andati in pensione in tenera età).
Reclama il sindacato che si possa andare in pensione anticipatamente e che ai giovani la pensione venga comunque garantita a prescindere dai contributi versati. L’aumento di spesa (assistenziale, non certo assicurativa) verrà finanziata dalla fiscalità.
E qui troviamo un’altra alterazione della realtà della comunicazione sindacale. Che si basa soprattutto su due capisaldi: lavoratori dipendenti e pensionati pagano il 90% dell’imposta sul reddito; il sistema fiscale, a causa della scarsa progressività, penalizza i redditi più bassi. Ergo: lavoratori e pensionati mantengono i “ricchi”.
In realtà dipendenti e pensionati rappresentano il 91% dei contribuenti, e versano l’88% dell’IRPEF. Il che è abbastanza consequenziale. Meno logico che 8.200.000 dipendenti versino da 0 a 500 euro all’anno di imposta, e che 6.133.000 pensionati paghino da 0 a un massimo di 650 euro annui. Si tratta di circa il 44% dei contribuenti che versa il 2,5% dell’IRPEF totale. Se il sistema sta in piedi è evidentemente perché una forte progressività mette a carico del rimanente 56% di contribuenti il 97% dell’imposta.
I redditi più bassi beneficiano poi di sussidi ed esenzioni. Le polemiche del sindacato sui benefici fiscali ai “ricchi” sono del tutto false: è chiaro che se non paghi già nulla di tasse non potrai beneficiare di un loro alleggerimento! Un argomento ben più serio è quello dell’evasione. Chi non paga il dovuto dovrebbe essere perseguito in maniera efficace dallo Stato: non sarebbe bene che il sindacato ricominciasse a discutere avanzando proposte concrete sul contrasto all’evasione fiscale?
Potremmo proseguire, ma l’importante non è il numero dei messaggi distorti che vengono spacciati, bensì l’effetto che producono. Che è quello di un’immagine, fortemente avvalorata dai media e dai social, di un paese in preda a catastrofici problemi sociali, con gran parte della popolazione vittima di una povertà devastante, un sistema di assistenza sociale alla canna del gas, un fisco predatorio a vantaggio dei ricchi, un mondo del lavoro dominato dallo sfruttamento, dall’incertezza e da salari da fame, da condizioni di lavoro a quotidiano rischio mortale, e da catene che ti condurranno in età tardissima e inabile ad una pensione da fame.
Se il sindacato propone un’immagine così tragica, ottocentesca, perfino un po’ ridicola nelle sue più vistose esagerazioni, si propone di raccattare consenso da un’opinione popolare disorientata e spaventata, offrendosi come contenitore e gestore di rabbie e paure per evitare di lasciarle a disposizione di populismi, insurrezionalismi e avventurismi che pullulano sul mercato?
Oppure il sindacato si identifica nell’angoscia e nella frustrazione del popolo cui si rivolge e indica la lotta, la contrapposizione, il conflitto sociale come strada per l’unica soluzione possibile dei problemi dell’economia e del lavoro: la palingenesi di un nuovo sistema? Le parole del sindacato sembrano (con eccezioni anche importanti in alcune organizzazioni di categoria, per esempio i metalmeccanici della CISL) portare in quest’ultima direzione.
Tuttavia lo scenario reale mette a disposizione tangibili occasioni per dimostrare il contrario: l’attuazione delle riforme del Recovery Plan, l’irrompere dell’inflazione, sono terreni i sui quali il sindacato può dimostrare di volere assumersi le responsabilità connesse alla politica di riforme radicali e innovazione che oggi sono inevitabili per il Paese. Ciò vale tanto più in un momento di gravissima incertezza sul futuro nel quale il sindacato potrebbe trovarsi di fronte all’assunzione di enormi responsabilità accompagnate beninteso ad un ruolo da protagonista nel governo di “rinascita”.
Ma dovrà essere all’altezza della situazione, abbandonare la propaganda e sporcarsi le mani con la realtà perché, in caso contrario, il rischio di essere relegato al ruolo di comparsa è dietro l’angolo.
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