Un sistema ancora in attesa di decollare – Il primo anello della catena: l’orientamento professionale – La “materia prima” indispensabile per l’orientamento: l’informazione sull’efficacia dei servizi di formazione – La difficile condizionalità del sostegno del reddito – Come si attivano gli incentivi giusti perché la condizionalità possa funzionare
Saggio pubblicato sulla rivista Diritto delle Relazioni Industriali, n. 1/2022 – In argomeno v. anche il mio articolo del novembre 2021, Sette tesi sulle politiche attive del lavoro
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Sommario
1. Un sistema ancora in attesa di decollare
2. Il primo anello della catena: un servizio di informazione e orientamento scolastico e professionale, capillare e facilmente accessibile per chiunque
3. La “materia prima” indispensabile per il servizio di orientamento: l’informazione sull’efficacia dei servizi di formazione
4. La difficile condizionalità del sostegno del reddito dei disoccupati
5. Attivare gli incentivi giusti per far funzionare la condizionalità. A) L’opportunità del coinvolgimento dell’Inps nel controllo della disponibilità alla ricerca della nuova occupazione
6. Segue. B) Un meccanismo di quasi-mercato attivato per mezzo degli assegni di ricollocazione
7. Considerazioni conclusive.
- Un sistema ancora in attesa di decollare
Se per “politiche attive del lavoro” si intende l’implementazione sull’intero territorio nazionale di misure volte a fornire in modo capillare a persone e imprese l’intera catena dei servizi necessari per favorire l’incontro fra offerta e domanda di lavoro, secondo standard adeguati a quanto accade in questo campo nei maggiori Paesi del centro e nord-Europa, occorre riconoscere che questa implementazione in Italia ancora non è decollata. In singole realtà territoriali si osservano questa o quella esperienza positiva nel campo dell’orientamento scolastico e professionale, oppure della formazione specificamente mirata a sbocchi occupazionali precisamente individuati, oppure ancora in quello dell’alternanza scuola-lavoro o della cooperazione tra servizio pubblico e operatori privati; ma siamo ancora molto lontani da un sistema nazionale capace di promuovere un sistema di servizi rispondenti a standard precisi (i “livelli essenziali della prestazione”), controllarne in modo sistematico e permanente il funzionamento e intervenire in via sussidiaria dove una Regione si mostri non in grado di adempiere il compito.
Il capitolo dedicato a questa materia contenuto nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (primo punto della 5a missione) è formulato in modo molto (troppo, a mio avviso) generico. Difetto, questo, che non mi sembra essere corretto dal decreto interministeriale 27 dicembre 2021, nel quale all’abbondanza testuale non corrispondono contenuti debitamente individuati, con fissazione di obiettivi specifici, espressi anche in termini quantitativi e pertanto suscettibili di misurazione, legati a scadenze temporali determinate. Capisco che la necessità di raggiungere su di esso l’accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni abbia contribuito al tasso di genericità – a tratti anche fumosità – del contenuto del decreto; sta di fatto che esso non sembra dare il colpo di reni del quale, su questo terreno, il nostro Paese avrebbe bisogno.
Per altro verso nelle politiche del lavoro effettivamente praticate dal Governo gli stanziamenti di denaro per quelle passive, ovvero volte al puro e semplice sostegno del reddito di chi perde o non riesce a trovare una occupazione, continuano a fare la parte del leone, impegnando somme con almeno uno zero in più rispetto a quelle impegnate per le politiche attive.
Vediamo più da vicino che cosa dovrebbe cambiare perché si possa parlare finalmente dell’avvio in Italia di un programma organico di rilancio delle politiche attive del lavoro.
- Il primo anello della catena: un servizio di informazione e orientamento scolastico e professionale, capillare e facilmente accessibile per chiunque
In quasi tutte le regioni italiane manca un servizio di orientamento scolastico e professionale diffuso capillarmente e facilmente accessibile per tutti, soprattutto i più giovani (quello che nella lingua franca delle politiche del lavoro viene indicato come guidance o career service), capace di eseguire la profilazione delle attitudini e delle aspirazioni di ciascun individuo, il confronto tra le une e le altre e l’indicazione di itinerari di ricerca/formazione/riqualificazione realistici. Come nei maggiori Paesi del centro e nord-Europa, esso dovrebbe essere articolato in questo modo:
– un servizio capace di prendere effettivamente in carico ogni adolescente all’uscita di ciascun ciclo scolastico di scuola media inferiore e superiore, fornendogli/le il primo orientamento indispensabile, sulla base del confronto tra le sue attitudini e le sue aspirazioni;
– per la generalità degli utenti, e in particolare per chi aspira a cambiare occupazione o a trovarne una nuova avendo perso la precedente, una rete di servizi aperti al pubblico dislocati in ciascun centro urbano in zona centrale, in locali direttamente accessibili dalla pubblica via, con alta visibilità e ricettività: i cosiddetti hub o anche one stop shop;
– nelle città maggiori dei Paesi dove questo servizio funziona meglio sono disponibili hub che offrono un servizio di orientamento e prima informazione sulle opportunità esistenti specializzato in riferimento alle esigenze dei giovani, oppure delle donne che intendono riprendere l’attività di lavoro dopo un periodo di maternità, oppure di chi ha perso il lavoro in una crisi aziendale, e così via.
Nelle esperienze più avanzate, lo hub è uno spazio di orientamento specialistico e accompagnamento al lavoro, dipendente o autonomo, che funge anche da aggregatore di iniziative, luogo di eventi in grado di moltiplicare le occasioni di occupabilità e occupazione, con il forte coinvolgimento delle aziende, di chi domanda lavoro. È accessibile a tutti, aperto tutto il giorno fino a tardi, con un ingresso diretto da strada; nella sua versione più completa si articola in
– un primo spazio di accoglienza, all’interno del quale sono immediatamente disponibili dei terminali già programmati per dare accesso ai migliori siti di incontro fra domanda e offerta di lavoro, con possibilità di presentazione diretta della propria candidatura; personale esperto è a disposizione per aiutare e indirizzare gli utenti nell’uso di queste porte di accesso alla grande piazza digitale;
– alcuni spazi dedicati alla profilazione in forma totalmente digitalizzata, di cui le persone possono fruire autonomamente;
– alcuni spazi per colloqui orientativi individuali di secondo livello con il job advisor;
– altri spazi per sessioni di orientamento di gruppo, nonché – sul modello del Jobcentre Plus inglese – per gli incontri fra persone e aziende;
– uno spazio per il servizio di incontro domanda offerta dell’Unione Europea Eures, destinato all’utenza interessata alla mobilità internazionale sia attraverso seminari specifici (“living and working in…”), sia attraverso la partecipazione ai reclutamenti di personale;
– uno spazio per conferenze, seminari di formazione, workshop, interazioni e presentazioni.
In uno hub così concepito, ovviamente, ben possono trovare spazio anche gli sportelli di un Centro per l’Impiego, o quelli di un patronato cui le persone possano rivolgersi per il disbrigo delle pratiche amministrative e previdenziali. Ma dovrebbe essere evidente la natura totalmente sburocratizzata dell’attività principale dello hub: cioè dei servizi di prima informazione su tutte le opportunità di formazione e/o lavoro disponibili e di assistenza nella definizione di una strategia efficace nella ricerca della nuova occupazione.
Le esperienze più evolute, inoltre, mostrano come lo stesso hub debba essere integralmente “duplicato” sul web mediante un sito altamente interattivo, nel quale tutte le funzioni e i servizi siano offerti anche online: questo è il presupposto indispensabile, da un lato, per allargare molto la platea degli utenti, dall’altro per evitare che la struttura fisica soccomba sotto il peso di un eccesso di afflusso degli utenti stessi di persona.
Nella quarta missione delineata nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è delineata e finanziata una profonda riforma del sistema di orientamento scolastico e professionale, con la previsione di moduli didattici specifici a esso dedicati, per un totale di 30 ore annue. Lo stanziamento di risorse per questo capitolo è apprezzabile; ed è apprezzabile anche che l’orientamento per i giovani ancora impegnati a scuola sia oggetto di un intervento a sé, distinto da quello relativo all’orientamento degli adulti. L’esperienza dei Paesi che su questo terreno hanno fatto di più ci dice, però, innanzitutto che l’orientamento degli adolescenti ha poco a che vedere con la normale attività didattica di un insegnante di scuola media: non si tratta tanto di trasmettere nozioni o informazioni, quanto di tracciare il profilo delle attitudini e quello delle aspirazioni di ogni adolescente, confrontarli tra loro per verificarne la congruenza, nel caso di incongruenza avvertirne l’interessato/a e i suoi genitori, in ogni caso tracciare i percorsi di istruzione, formazione e/o addestramento pratico più adeguati per assicurare un futuro inserimento soddisfacente nel tessuto produttivo.
Le migliori esperienze d’oltralpe ci avvertono, poi, che anche una buona attività di orientamento degli adolescenti in età scolare, al pari di quella rivolta agli adulti, necessita di una conoscenza dettagliata e approfondita non solo di tutte le opportunità occupazionali che il mercato del lavoro offre, ma anche degli strumenti di formazione mirata specificamente a quelle opportunità, e più in generale della qualità ed efficacia di ciascuno degli strumenti stessi. È questo il tema del paragrafo che segue.
- La “materia prima” indispensabile per il servizio di orientamento: l’informazione sull’efficacia dei servizi di formazione
Nessun servizio di orientamento – sia esso destinato ai giovani in età scolare o agli adulti – può funzionare bene se non è disponibile un indice di efficacia di ciascun corso di formazione professionale disponibile. Nelle migliori esperienze straniere questo indice è costituito dal tasso di coerenza tra formazione impartita in ciascun corso e sbocchi occupazionali effettivamente conseguiti da coloro che lo hanno frequentato. Per poterlo rilevare in modo permanente è indispensabile istituire un’anagrafe della formazione professionale, i cui dati siano suscettibili di essere incrociati sistematicamente con quelli delle Comunicazioni Obbligatorie al ministero del Lavoro su costituzioni e scioglimenti di rapporti contrattuali, con quelli delle iscrizioni a qualsiasi ordine professionale, lista o albo per attività autonome, nonché con quelli delle liste di disoccupazione: è la tecnica su cui si basa il servizio fornito, con risultati molto apprezzabili, dalla piattaforma denominata Eduscopio, che misura continuativamente l’efficacia dell’istruzione impartita negli istituti scolastici di Piemonte e Lombardia.
Ciascun centro di formazione professionale, poi, dovrà essere obbligato a pubblicare il proprio tasso di coerenza rilevato per i tre anni precedenti, in modo che non soltanto gli addetti ai servizi di orientamento possano disporne, ma possa conoscerlo senza difficoltà chiunque vi abbia interesse.
L’istituzione dell’anagrafe della formazione, che ricalca in qualche modo l’esperienza dell’anagrafe scolastica già da tempo attiva presso il ministero dell’Istruzione, non richiede l’emanazione di nuove norme legislative: essa è già prevista dagli articoli 13, 14, 15 e 16 del decreto legislativo n. 150/2015, uno degli otto decreti attuativi del Jobs Act. Questa previsione non è mai stata attuata, a causa della paralisi che ha colpito l’ANPAL-Agenzia per le Politiche Attive del Lavoro dall’inizio di quest’ultima legislatura. Per altro verso, hanno scarso o nullo interesse ad attivare questo meccanismo di valutazione gli assessori regionali competenti per questa materia, per lo più riluttanti a rinunciare all’ampia discrezionalità di cui oggi di fatto godono nella distribuzione dell’ingente flusso dei finanziamenti disponibili per i servizi di formazione professionale.
Sta di fatto che l’istituzione dell’anagrafe è prevista da una legge dello Stato, che a suo tempo venne approvata anche in sede di Conferenza Stato-Regioni, e che chiede solo di essere attuata: il ministro del Lavoro avrebbe il dovere di attivarsi per farlo e di disporre affinché l’ANPAL a sua volta si attivi per l’implementazione del sistema e il controllo del suo buon funzionamento in ciascuna regione (con possibilità di intervento in via sussidiaria nelle regioni che si rivelino incapaci di assicurarlo).
I buoni servizi di orientamento, formazione e riqualificazione professionale devono costituire la spina dorsale del sistema di condizionalità del sostegno del reddito dei disoccupati (ivi compresi i lavoratori sospesi dal lavoro con intervento della Cassa integrazione “a zero ore” che si protragga oltre i tre mesi). Di ogni beneficiario deve essere individuato il profilo sia delle attitudini, sia delle aspirazioni; deve essere individuato il percorso di formazione o riqualificazione eventualmente necessario per la rioccupazione; e deve essere seguita da vicino l’effettività del percorso stesso.
Se si vuole evitare che il sostegno del reddito abbia l’effetto di allungare i periodi di disoccupazione, l’assetto qui delineato della condizionalità è molto più efficace rispetto a quello imperniato sull’onere di accettare l’“offerta congrua di lavoro”, disegnato nell’art. 25 del d.lgs. n. 150/2015. La condizionalità imperniata sulla sola “offerta congrua di lavoro” non può funzionare per una serie di motivi convergenti, che mi sono proposto di illustrare con un racconto di vita vissuta pubblicato di recente ( Le disavventure di un collocatore, pubblicato sul quotidiano Il Riformista il 26 ottobre 2021):
– è ragionevole temere un difetto di motivazione in molte delle persone il cui avviamento al lavoro avviene sotto la minaccia della perdita del sostegno del reddito, poiché in molti casi è proprio il godimento dell’assegno ciò che principalmente le ha spinte a rivolgersi al Centro per l’Impiego;
– al disoccupato avviato al lavoro sotto la minaccia di perdita del sostegno del reddito è sempre facile ottenere che l’avviamento fallisca, senza che questo venga imputato a un suo difetto di disponibilità;
– per questo motivo le imprese diffidano del servizio di collocamento svolto dallo stesso ufficio pubblico che è competente per la concessione e il mantenimento del trattamento di disoccupazione;
– questa diffidenza delle imprese fa sì che il Centro per l’Impiego non disponga delle occasioni di lavoro che consentirebbero di proporre alla persona interessata un’“offerta congrua”: gli incontri fra domanda e offerta di lavoro avvengono altrove;
– donde la regola generale per cui un buon servizio di collocamento difficilmente può essere svolto da un ufficio cui compete la gestione burocratica del trattamento di disoccupazione: assai meglio affidarlo alle agenzie per l’impiego accreditate.
Tra i contenuti salienti della legge di bilancio 2022 approvata nel dicembre scorso (l. 30 dicembre 2021 n. 234) nei commi 74 e 81 dell’articolo 1 (che modificano il d.-l. 28 gennaio 2019 n. 4, convertito dalla legge 28 marzo 2019 n. 26 e l’art. 25 del d.lgs. n. 150/2015) compare una disposizione che dovrebbe rendere più stringente il vincolo di disponibilità al lavoro dei percettori di reddito di cittadinanza. Le misure contenute nella nuova norma sono due: la prima è l’obbligo di presentarsi una volta al mese al Centro per l’Impiego; ma questa è pura burocrazia, che oltretutto appesantisce inutilmente il lavoro di questo ufficio; la seconda è la riduzione del numero delle “offerte di lavoro congrue” che possono essere rifiutate dal beneficiario del RdC da due a una sola: nel senso che solo dopo il secondo rifiuto ingiustificato si perde il beneficio (la prima può essere rifiutata se comporta uno spostamento superiore agli 80 chilometri dall’abitazione, o comunque un tragitto coi mezzi pubblici che richieda più di 100 minuti; altre modifiche alla nozione di “offerta congrua” riguardano la soglia della retribuzione che può essere rifiutata). Ora, chiunque abbia qualche consuetudine col funzionamento concreto dei Centri per l’Impiego sa che l’“offerta congrua”, in concreto, non esiste. “Nessuna impresa darebbe mandato a un soggetto pubblico o privato di assumere un potenziale lavoratore senza minimamente conoscerlo” spiega Francesco Giubileo in un suo intervento recente (lavoce.info 16 novembre 2021): al più può accadere che un disoccupato si veda rivolgere l’invito a presentarsi presso un potenziale datore di lavoro per un colloquio di assunzione; ma – come ho già osservato – se il colloquio dà esito negativo per la non disponibilità della persona interessata, non ne deriva mai la formalizzazione di una “offerta congrua” sulla quale si possa registrare un formale rifiuto.
Fatto sta – e al ministero del Lavoro lo sanno bene – che nessun disoccupato e nessun beneficiario di Reddito di Cittadinanza ha mai perso l’assegno per aver rifiutato una “offerta di lavoro congrua”; tutt’al più è accaduto che sia stato tolto il sussidio a un percettore irreperibile al domicilio, ma questo è un altro discorso. Se dunque non è mai accaduto che si sia verificato neanche il primo rifiuto ingiustificato, ridurre i possibili rifiuti ingiustificati da due a uno solo, come disposto nella norma citata, è sostanzialmente una norma di facciata, volta a far apparire un impegno su questo terreno che in realtà non c’è. E, così stando le cose, sono sconcertanti i ripetuti riferimenti, nella già citata legge finanziaria (n. 234/2021, commi 74 e 75, in particolare là dove viene prevista l’aggiunta dei commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies all’articolo 8 del d.-l. n. 4/2019) a obblighi di comunicazione dei rifiuti di offerta congrua a carico degli operatori accreditati, e a un compito dell’ANPAL di controllo sulle offerte congrue attivate e quelle rifiutate: come se l’Ufficio legislativo del ministero del Lavoro, cui la redazione di queste norme è presumibilmente imputabile, non fosse a conoscenza del fatto che il fenomeno dell’“offerta congrua” e quello del suo rifiuto costituiscono entità esistenti soltanto nell’immaginario burocratico, senza alcun riscontro nella realtà fattuale.
- Attivare gli incentivi giusti per far funzionare la condizionalità. A) l’opportunità del coinvolgimento dell’Inps nel controllo della disponibilità alla ricerca della nuova occupazione
Il carattere condizionale delle misure di sostegno del reddito è indispensabile perché queste non producano, nella media dei casi, l’effetto di un prolungamento dei periodi di disoccupazione. Ma la condizionalità stessa non può essere implementata se è affidata a organi amministrativi che non hanno alcun interesse alla sua effettività e anzi ne sono penalizzati. È questo il caso dell’addetto al Centro per l’Impiego, per il quale la verifica dell’effettiva disponibilità al lavoro del percettore del sussidio – quand’anche essa potesse essere attuata mediante l’“offerta congrua”, ma abbiamo visto che non può – costituisce soltanto un notevole aggravio di lavoro; e lo è ancora di più, nel caso di esito negativo della verifica, la pratica tendente alla sospensione del sussidio stesso. Viceversa, l’addetto al Centro per l’Impiego non rischia alcuna sanzione per il fatto che la condizionalità del trattamento resti sulla carta.
Se si vuole davvero che la condizionalità del sostegno del reddito funzioni, è necessario ideare un meccanismo nel quale si attivino incentivi efficaci affinché gli organi preposti la facciano funzionare. Potrebbe essere risolutivo, da questo punto di vista, coinvolgere nel controllo della disponibilità effettiva del beneficiario del sussidio l’ente stesso che lo eroga, ovvero l’Inps, consentendo che una piccola frazione delle risorse risparmiate per effetto dell’attivazione efficace del controllo venga destinata a finanziare un premio collettivo per gli operatori dei servizi che realizzano nel modo migliore il controllo sul comportamento dei beneficiari del trattamento, oltre che un fondo per il potenziamento dei Centri per l’Impiego.
Il comma 75 dell’articolo 1 della già citata legge n. 234/2021 prevede una forma di coinvolgimento dell’Inps con i ministeri del Lavoro e della Giustizia nelle attività di controllo sul godimento del Reddito di Cittadinanza; ma si tratta di un meccanismo essenzialmente burocratico di scambio di dati e informazioni tra amministrazioni. Nello stesso articolo 1 della legge finanziaria il comma 83 prevede qualche cosa di più, assai interessante perché sembra recepire il suggerimento di mettere in comunicazione l’interesse al risparmio sulla spesa per il sostegno del reddito dei disoccupati (le c.d. politiche passive del lavoro) con l’interesse al potenziamento delle politiche attive: la disposizione prevede che l’Inps svolga una “attività di monitoraggio a cadenza trimestrale”, comunicandone il risultato ai ministri del Lavoro e dell’Economia; prevede inoltre che “Qualora dalla predetta attività di monitoraggio siano annualmente accertati, anche in via prospettica […] minori oneri [ascrivibili alla spesa per il sostegno del reddito dei disoccupati, con] corrispondente minore esigenza finanziaria rispetto all’autorizzazione di spesa [di cui alla legge istitutiva del Reddito di Cittadinanza], tali correlate accertate risorse possono essere destinate ad interventi di politiche attive del lavoro di cui al decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150”.
L’ultima legge finanziaria dunque contiene un’apertura significativa alla proposta (che era stata avanzata da Marco Bentivogli, Lucia Valente e l’autore di queste note, in un articolo pubblicato su la Repubblica il 9 marzo 2021) di attivare una connessione operativa tra Inps e Anpal per attivare incentivi efficaci in direzione di un potenziamento delle politiche attive, anche attraverso un controllo adeguato sulla partecipazione delle persone interessate e il conseguente contenimento della spesa per il sostegno del loro reddito. Non si può, tuttavia, non rilevare i limiti gravi di questa prima apertura: essa infatti prevede soltanto un controllo periodico di natura puramente contabile, mentre occorrerebbe prevedere la possibilità per l’Inps di essere presente con operatori specializzati nei luoghi dove il sostegno del reddito ai disoccupati viene erogato, innanzitutto per controllare che l’erogazione stessa venga effettivamente accompagnata, nel caso di protrazione dello stato di disoccupazione oltre il primo termine fissato, dall’invito a stipulare l’accordo di assistenza con l’operatore accreditato liberamente scelto; poi per verificare che l’erogazione venga sospesa nel caso in cui questo onere non venga adempiuto, secondo lo schema proposto nel paragrafo che segue.
- Segue. B) Un meccanismo di quasi-mercato attivato per mezzo degli assegni di ricollocazione
Un meccanismo capace di assicurare una effettiva condizionalità del sostegno del reddito può essere imperniato sul vincolo per il beneficiario di reperire l’agenzia per l’impiego disponibile per quello che nel progetto originario del Jobs Act era stato indicato con il termine “contratto di ricollocazione”. Non si tratta di inventare nulla di nuovo, ma solo di adattare al nostro sistema un meccanismo che da tempo viene sperimentato con successo nei Paesi Bassi e diffusamente anche in Gran Bretagna: l’ufficio che assegna il trattamento di disoccupazione avverte la persona beneficiaria che, se entro un certo termine (per esempio: tre mesi) non sarà stata in grado di trovare la nuova occupazione, essa avrà l’onere di scegliere un operatore accreditato che accetti di assisterla in cambio dell’assegno stanziato dal servizio per l’impiego, dimensionato in relazione al grado di difficoltà del reinserimento della persona nel tessuto produttivo e suddiviso in una parte pagabile per il solo fatto dell’assistenza prestata e una parte maggiore pagabile a ricollocazione ottenuta (il c.d. success fee).
Sarà allora il meccanismo di quasi-mercato attivato dall’assegno di ricollocazione, mettendo in concorrenza tra loro le agenzie accreditate, ad assicurare una condizionalità efficiente: gli utenti potranno scegliere gli operatori che pongono le condizioni meno stringenti per la stipulazione del contratto, ma gli operatori più indulgenti, richiedendo una meno ampia disponibilità da parte delle persone cui offrono il servizio, rischieranno di lavorare a vuoto. E il Centro per l’Impiego potrà negare la prosecuzione del sostegno del reddito al disoccupato che, nonostante l’adeguatezza del voucher, non riesca a stipulare il contratto con alcuna agenzia accreditata.
Il fenomeno del cherry picking da parte degli operatori privati, consistente nell’occuparsi soltanto delle persone più facilmente ricollocabili, può e deve essere evitato con una adeguata modulazione dell’entità del voucher in relazione alla difficoltà di ricollocazione di ciascuna persona.
- Considerazioni conclusive
Nessuna delle misure sinteticamente delineate nelle pagine precedenti è concretamente attuabile nel nostro Paese se non viene instaurato un sistema rigoroso di sussidiarietà, basato sul controllo centrale circa il livello di efficienza dei servizi al mercato del lavoro gestiti dalle Regioni e sulla sostituzione delle amministrazioni non in grado di assicurarli da parte dell’Agenzia nazionale competente.
Per questo è necessario che l’agenzia a ciò preposta – l’Anpal – curi il miglioramento costante della propria struttura, coltivando la capacità di attrarre e gestire con la necessaria flessibilità anche professionalità elevate. Da questo punto di vista la reincorporazione dell’Anpal nella struttura del ministero del Lavoro non è stata una buona idea: in tutti i maggiori Paesi europei la funzione oggi attribuita all’Anpal è svolta da una agenzia autonoma dal Governo, che risponde dei risultati del proprio operato. In ogni caso non ci sono alternative a una rapida acquisizione da parte di questa struttura di una capacità di monitoraggio costante e capillare del livello di efficienza ed efficacia dei servizi erogati dalle Regioni; e ancor più della capacità di intervenire direttamente dove l’amministrazione regionale non è in grado di soddisfare lo standard minimo previsto.
Le prevedibili resistenze opposte dalle Regioni a un ruolo più incisivo dell’Anpal nel controllare e garantire i livelli essenziali di funzionalità dei servizi possono e devono essere superate sulla base di tre ordini di argomenti. Il primo è quello che attiene al ritardo enorme che il nostro Paese fa registrare, su questo terreno, rispetto ai partner del centro e nord-Europa: un gap che ci siamo obbligati verso la UE a colmare – obbligo ora rinnovato nella quinta missione del PNRR – e che è principalmente nostro interesse colmare sfruttando il grande patrimonio di esperienza accumulato dai Paesi che su questo terreno sono avanti a noi di decenni.
Il secondo ordine di argomenti è quello che attiene alla necessità vitale, per la nostra economia, di far tornare a crescere la produttività del lavoro: obiettivo che comporta l’abbandono del modello oggi dominante in Italia di reazione alle crisi occupazionali, consistente nell’incoraggiare le persone coinvolte ad aggrapparsi con le unghie e coi denti alla vecchia struttura produttiva in crisi, quando invece le persone stesse dovrebbero essere incentivate e sostenute nella transizione verso una nuova occupazione più produttiva (e all’Erario costerebbe molto meno un sostegno robusto a questa transizione che non la mera politica passiva consistente nell’erogare incondizionatamente integrazioni salariali senza speranza, salvo quella del prepensionamento). Osservo in proposito che, secondo quanto risulta dall’indagine Excelsior svolta da Unioncamere e Anpal, mediamente in un terzo dei casi oggi le imprese italiane stentano a trovare i lavoratori che cercano: centinaia di migliaia di posti restano permanentemente scoperti per la difficoltà di reperire le persone che possano coprirli.
Il terzo ordine di argomenti – non certo terzo in ordine di importanza – è quello che attiene alla protezione del lavoro e alla lotta alle disuguaglianze. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che, se un’attività produttiva di beni o servizi è poco produttiva, chi la svolge difficilmente può trarne un reddito soddisfacente: l’armamentario tradizionale – ovvero gli standard minimi inderogabili con il loro contorno di interventi ispettivi e contenziosi giudiziali – può, sì, correggere distorsioni da monopsonio dinamico e corrispondenti forme di sfruttamento del lavoro che si producono anche in un tessuto produttivo maturo; ma esso non avrà mai la virtù di far diventare gratificante sul piano economico il lavoro strutturalmente povero, perché poco produttivo. La lotta contro il lavoro mal pagato e le disuguaglianze crescenti può essere condotta soltanto in piccola parte per mezzo dell’introduzione di standard minimi inderogabili; per la parte restante e ben maggiore deve essere condotta attraverso il miglioramento del sistema scolastico, il potenziamento dei servizi di orientamento, informazione, formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti nel mercato, il disegno di percorsi di transizione sempre nuovi e più sicuri verso il lavoro più produttivo, il sostegno (anche economico) alla mobilità professionale e geografica: tutto quell’insieme di politiche attive, appunto, in riferimento alle quali il nostro Paese accusa ancora un ritardo grave rispetto al centro e al nord-Europa.
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Questo saggio è destinato agli scritti in memoria di Renato Scognamiglio.
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