Sull’aumento del tasso di occupazione femminile, così come su molte altre questioni in tema di politiche sociali, sarebbe utilissimo che il dibattito politico fosse preceduto dall’acquisizione di dati sugli effetti delle politiche stesse, mediante la sperimentazione scientifica (oggi resa possibile da economia e statistica)
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Fondo pubblicato sulla Gazzetta di Parma il 3 aprile 2022 – In argomento v. anche l’articolo di Andrea Ichino pubblicato su Il Foglio il 2 dicembre 2021, La detassazione del lavoro femminile nella legge finanziaria; inoltre il suo articolo pubblicato sul Corriere della sera il 15 ottobre 2021, Il metodo sperimentale al servizio del lavoro e del welfare .
Per aumentare il nostro tasso di occupazione femminile, ancora molto più basso della media europea, nella legge-delega per la riforma fiscale il Governo ha previsto una riduzione dell’Irpef sul secondo reddito di ciascuna famiglia, che è quasi sempre quello della donna. Ben venga questa misura: nel 2000 ci eravamo impegnati con i partner UE ad allinearci al tasso di occupazione femminile del 60 per cento, ma a distanza di vent’anni siamo ancora sotto il 50.
La misura proposta dal Governo, tuttavia, fa storcere il naso a molti: alcuni obiettano che in questo modo si introduce nel nostro ordinamento un’inammissibile disparità di trattamento; altri sostengono che per aumentare il tasso di occupazione femminile occorre “ben altro”: soprattutto asili nido e servizi pubblici di assistenza alle persone anziane. Impostata così, la discussione sembra destinata a non portare a nulla: senza dati concreti e affidabili, il confronto teorico difficilmente può portare a una conclusione condivisa su quale sia il provvedimento che col minor costo produce il risultato migliore. E i dati concreti, affidabili, li può fornire soltanto la sperimentazione con metodo scientifico.
Prima di autorizzare il commercio di un farmaco, è obbligatorio sperimentarne gli effetti secondo un metodo rigoroso: lo si somministra a un campione di pazienti e si confrontano gli effetti ottenuti con quelli della somministrazione di un placebo a un campione statisticamente identico. Proprio questo metodo era stato suggerito in un disegno di legge a prima firma di Enrico Morando nel 2010: l’idea era di affidare alla Banca d’Italia il compito di sperimentare per due anni una riduzione del 25 per cento dell’Irpef sui redditi di lavoro delle donne in una provincia, per esempio quella di Parma, confrontandone le conseguenze rispetto a quanto accade nello stesso periodo in una provincia contigua e molto simile dal punto di vista economico-sociale, per esempio quella di Reggio Emilia.
La proposta aveva suscitato diverse obiezioni, tra cui quella secondo cui il principio costituzionale di uguaglianza vieterebbe la differenziazione del prelievo fiscale nel “campione trattato” rispetto a quello “di controllo”. Ma proprio l’anno successivo, nel 2011, un importante convegno internazionale su questo tema aveva portato a concludere nel senso della piena legittimità costituzionale di una differenza di trattamento ragionevolmente finalizzata alla sperimentazione degli effetti di una misura di politica economica o sociale: è questo il contenuto della Dichiarazione di Lucca firmata da 30 economisti e giuristi provenienti da ogni parte del mondo. E pochi anni dopo proprio questo metodo è stato applicato in Finlandia per studiare gli effetti del basic income, il “reddito di cittadinanza”: nel 2017 e 2018 a un campione di 2.000 finlandesi tra i 25 e i 58 anni di età è stato erogato un assegno pari a 560 euro mensili per verificare il suo impatto sul comportamento individuale, soprattutto per quel che riguarda la propensione al lavoro.
Le scienze sociali – economia, sociologia, statistica – oggi consentono di svolgere esperimenti scientifici sugli effetti di un’ampia gamma di possibili misure di politica sociale e del lavoro. Far precedere il dibattito politico da questi esperimenti aiuterebbe a de-ideologizzarlo. Con grande beneficio per la qualità del dibattito stesso e per l’efficacia delle politiche sociali e del lavoro. Forse potrebbe essere proprio l’Unione Europea a promuovere l’applicazione di questo metodo; e non sarebbero soltanto i Paesi membri a beneficiarne.