Il protocollo firmato il 7 dicembre tra governo e parti sociali non contiene alcun elemento di novità rispetto alla legge che da 4 anni disciplina il lavoro agile; ma è il primo accordo interconfederale che riconosce esplicitamente il ruolo centrale della contrattazione tra azienda e dipendente
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Articolo pubblicato il 9 dicembre 2021 sul sito lavoce.info – In argomento, oltre all’articolo il cui link compare nel testo, v. anche Se l’epidemia mette le ali allo smart working – V. inoltre tutti gli altri post in tema di lavoro agile accessibili attraverso il portale Lo smart working
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Un accordo tra le parti sociali dagli effetti pratici impalpabili
I giuslavoristi si interrogano sul significato che deve essere attribuito al protocollo sottoscritto il 7 dicembre scorso tra le associazioni sindacali e imprenditoriali e il ministro del Lavoro, per delineare il nuovo quadro normativo nel quale dovrà svolgersi il cosiddetto lavoro agile dal momento – si spera ormai prossimo – in cui cesserà il regime di emergenza inaugurato nel marzo 2020 per fronteggiare l’epidemia da Covid. Ce lo si chiede perché nessuno dei 15 articoli di cui l’accordo si compone contiene alcuna disposizione che abbia un apprezzabile contenuto pratico aggiuntivo rispetto a quanto previsto dalla legge (n. 81/2017), che da quattro anni disciplina compiutamente la materia, o comunque dal diritto del lavoro vigente.
Anche sul tema caldo della disconnessione e della reperibilità, nel quadro del diritto al riposto giornaliero e settimanale, l’accordo è molto generico: gli articoli 2 e 3 si limitano a menzionare l’esistenza del diritto alla disconnessione, rinviando all’eventuale contrattazione aziendale e in ogni caso alla negoziazione individuale tra prestatore e datore di lavoro la precisazione delle sue modalità di esercizio. Ma né in tema di disconnessione, né in tema di reperibilità, dettano alcuna disciplina di default: non dicono, cioè, che cosa accade in mancanza di un accordo in proposito (del resto, difficilmente avrebbero potuto farlo sul piano generale, stante l’estrema varietà delle situazioni nelle quali questo diritto deve essere esercitato).
Sorprende che l’occasione di questo protocollo non sia stata colta neppure per un “avviso comune” delle parti al legislatore affinché corregga un paio di storture contenute nella legge. Di una di queste abbiamo già parlato su questo sito: l’obbligo a carico della datrice di lavoro della comunicazione scritta “con cadenza almeno annuale” in due copie, una per il dipendente e una per il responsabile dei lavoratori per la sicurezza, contenente l’indicazione dei rischi generici e specifici propri del lavoro agile. È questo un appesantimento burocratico la cui inutilità è evidente a chiunque si occupi di queste cose nel mondo reale. Un’altra stortura, questa assai più grave, è costituita dall’estensione dell’assicurazione Inail agli infortuni che possono accadere alla persona nel tragitto tra l’abitazione e il luogo da essa stessa scelto per svolgervi la prestazione: si tratta di un tipico “rischio elettivo”, cioè liberamente scelto (un caso estremo è illustrato nell’immagine qui a fianco), cui non ha alcun senso estendere l’assicurazione obbligatoria. Per altro verso, è assai probabile che col diffondersi del lavoro agile questa estensione finisca col generare molti abusi, con conseguente aggravio indebito del premio assicurativo sulle imprese interessate. E poiché la statistica dice che prevedibilmente gli abusi saranno più frequenti al sud, questo penalizzerà la diffusione del lavoro agile nel Mezzogiorno del Paese: lì le imprese cercheranno di limitarla il più possibile.
Dove sta l’aspetto più significativo dell’accordo
Il protocollo del 7 dicembre è, ciononostante, assai significativo perché indica una volontà comune delle parti nel senso di non ostacolare, ma al contrario promuovere lo sviluppo post-pandemico del lavoro agile. Le associazioni imprenditoriali – Confindustria in testa –, non ritenevano questo accordo necessario e ne avrebbero fatto volentieri a meno; tuttavia non hanno opposto resistenza al ministro del Lavoro, che voleva dare un segnale favorevole al consolidarsi di questa forma di organizzazione del lavoro, anche in considerazione del suo forte impatto positivo sulla presenza delle donne nel tessuto produttivo. Per altro verso, è merito del ministro stesso aver disatteso la richiesta proveniente dai sindacati di un nuovo intervento legislativo, rendendosi conto che c’era poca materia per una nuova legge in aggiunta a quella che già da quattro anni regola compiutamente questa forma di organizzazione del lavoro.
Va infine sottolineato un aspetto di questo protocollo che – nonostante l’assenza di disposizioni particolarmente innovative – fa di esso una tappa importante nell’evoluzione del nostro sistema delle relazioni industriali: è la prima volta, a quanto mi consta, che in un accordo interconfederale viene dedicato un articolo apposito a sancire la piena sovranità dell’autonomia negoziale individuale su un aspetto del rapporto di lavoro, sovranità che viene poi più volte ribadita in altre parti del documento, salvo enunciare doverosamente anche la necessità di proteggere la libertà effettiva delle persone nell’esercizio di questa prerogativa.
L’autonomia negoziale individuale, cioè la possibilità per la singola persona di contrattare validamente con l’azienda un aspetto del rapporto di lavoro, in qualche misura è sempre esistita. Sono sempre state oggetto di una pattuizione individuale, per esempio, il patto di prova, quello di non concorrenza, o quello di reperibilità fuori orario di lavoro. E l’autonomia individuale del prestatore su un capitolo rilevantissimo del contratto di lavoro ha avuto una sanzione esplicita nel 1984 con il riconoscimento legislativo del lavoro a tempo parziale; ma proprio in quell’occasione si era registrata una forte opposizione da sinistra nella fase di gestazione della norma, poi un tentativo di “contenimento” della sua portata mediante regolamentazioni rigide in sede collettiva delle forme possibili del part-time e/o di un suo rigido contingentamento, anche in considerazione del possibile suo impatto differenziato a danno del lavoro femminile. Ora, in riferimento al lavoro agile queste diffidenze sono cadute: un protocollo interconfederale riconosce e protegge la piena libertà della persona che vive del proprio lavoro di negoziarne con l’azienda un aspetto organizzativo importantissimo. Al di là del rituale omaggio alla contrattazione collettiva contenuto nella premessa del protocollo, nella sua parte concretamente dispositiva l’autonomia negoziale individuale assume un ruolo centrale e le parti si impegnano a difendere la libertà effettiva necessaria alla persona per esercitarla. La capite deminutio del lavoratore, cioè la sua radicale giuridica incapacità di gestire validamente i propri interessi, sembra essere ormai cosa del secolo passato.