I dati necessari per mettere a fuoco il problema e la proposta di una diffusa campagna di contrattazione aziendale e/o territoriale per estendere e rafforzare i premi di produttività ridiscutendo contestualmente l’organizzazione del lavoro e gli organici
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N. 115 del bollettino Mercato del Lavoro News, organo della Fondazione Anna Kuliscioff, a cura di Claudio Negro, 26 novembre 2021 – In argomento v. anche, su questo sito, il n. 106 dello stesso bollettino, che affronta la questione dal punto di vista del mismatch tra domanda e offerta di lavoro
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Il rapporto sulle dichiarazioni dei redditi 2019, recentemente presentato da Itinerari Previdenziali, ha tra l’altro spiegato che 18 milioni di cittadini presentano dichiarazioni IRPEF che portano a imposte negative o al massimo pari a 848 € annui. Si tratta di rediti che vanno da 0 a 15.000 €, che in termini netti significano da 1.090 € al mese in giù. Si tratta della fascia più disagiata, nella quale si concentrano la povertà, sia assoluta che relativa, e nella quale si concentra la gran parte dei sussidi contro la povertà (che in genere non concorrono alla base imponibile). Credo possa essere interessante mettere a fuoco in quale misura quest’area possa interessare il lavoro dipendente.
Sempre facendo riferimento al Rapporto, i lavoratori dipendenti compresi in questa fascia che pagano l’IRPEF sono circa 4.300.000 e pagano un’imposta che va da 69 € annui a 734 € medi annui). Sono circa il 20% dell’intera categoria. Corrispondono alla categoria dei working poors che nel dopo covid si tenta di mettere a fuoco?
Prendiamo in esame la categoria che ha le retribuzioni inferiori, cioè le qualifiche operaie (che rappresentano il 58% dell’occupazione dipendente): la retribuzione media annua lorda, comprensiva di premi di risultato, è pari a 25.686 (dati 2019, come quelli del Rapporto); si tratta di un dato riferito ai contratti-tipo (tempo indeterminato e full time). Quindi molto superiore ai 15.000 di cui sopra. Se osserviamo più da vicino la composizione del gruppo “operai” vediamo che la retribuzione scende significativamente per i giovani (15-24) le donne e le microaziende. Tuttavia, anche considerando tutte queste variabili e integrandole nel dato medio, si ottiene che il decile più basso delle retribuzioni operaie vede un valore di 21.669, che in termini di imponibile (ossia detratto il 9% di contributi) significa 19.718 €. Per scendere sotto i 15.000 occorre guardare a forme contrattuali che non comportino la retribuzione piena per tutto l’anno: part time, contratti a termine, lavori intermittenti, stagionali, occasionali.
Nel 2019 gli occupati con contratti di lavoro a termine sono stati mediamente 3.000.000, compresi gli stagionali e nel 73% dei casi la durata del contratto non superava i 6 mesi. Inoltre mediamente un tempo determinato ha una retribuzione oraria inferiore del 30% alla media dei tempi indeterminati (a causa dei bassi profili professionali). Un contratto di 6 mesi vale nella ipotesi media poco più di 12.000 di imponibile, ma spesso anche (molto) meno. Anche se non sappiamo quanti lavoratori abbiano avuto più di un contratto nel corso dell’anno, è verosimile che la gran maggioranza degli interessati non abbia superato la soglia dei 15.000 €. Se usiamo come riferimento i 6 mesi di durata del contratto abbiamo che in questa fascia restano compresi circa 2.500.000 lavoratori compreso un congruo numero di coloro che pur superando i 6 mesi di contratto non si avvicinano al salario annuo pieno.
I contratti part time erano 3.690.000, di cui la gran maggioranza della durata da 20 a 30 ore settimanali. Si tratta soprattutto di donne in maggior parte part timer involontarie, con profili professionali medio bassi, determinando il fatto che la retribuzione oraria del part timer sia pari solo al 69% della retribuzione della media dei contratti full time. Nella fascia con orario che si avvicina alle 30 ore settimanali non è tuttavia improbabile trovare redditi superiori ai 15.000: una lavoratrice di livello medio basso con un part time di 30 ore ha in effetti una retribuzione lorda che si aggira appunto attorno ai 15.000 lordi. Anche in questo caso mancano dati precisi, per cui occorre procedere con una stima approssimativa: i part time al 50% (orizzontale o verticale) sono nettamente più numerosi di quelli al 75% (p.es. 30 ore settimanali) per cui è verosimile che la cifra si aggiri sui 2.500.000.
Vanno poi computati i lavoratori “a chiamata” (lavoro intermittente) che erano 187.000 con una media di giornate lavorate di 10 al mese, quindi nella scala retributiva da una retribuzione circa il 50% di quella piena in giù. Stimiamo pochissimi coloro che avvicinano le 20-21 giornate mensili di un contratto “pieno” o addirittura le 25-26 di un orario a turni avvicendati su 6 giornate settimanali. Possiamo stimare in 150.000 i lavoratori con questo tipo di contratto che non raggiungono i 15.000 €. di reddito.
Vi sono poi circa 150.000 in apprendistato professionalizzante che statisticamente fanno parte dei contratti full time a tempo indeterminato ma che hanno una retribuzione che si aggira attorno al 50% di quella contrattuale di riferimento, quindi quasi certamente al di sotto dei 15.000. Occorre poi aggiungere, anche se poco rilevanti dal punto di vista statistico, 30.000 prestazioni occasionali che, per definizione, non possono superare i 5.000 € all’anno.
Si tratta di circa 5.250.000 posizioni lavorative, che però in molti casi possono fare capo allo stesso contribuente: nel caso di contratti a termine che si sommano nel corso dell’anno, di part time che si sommano, di contratti a termine che si sommano con contratti stagionali, ecc., portando così il reddito sopra la soglia dei 15.000. Analogamente verso la parte bassa della fascia è evidente che vi siano titolari di contratti a termine o part time con talmente poco orario lavorativo da restare, grazie anche al gioco delle detrazioni, nella no tax area (sotto 8.100 €); così come è probabile che in no tax area si trovino lavoratori cui il part time o il tempo determinato viene applicato sulle retribuzioni dei numerosissimi “contratti pirata”, nonché lavoratori che percepiscono parte della retribuzione in nero. Al netto di queste collocazioni all’interno della no tax area e del cumulo tra diverse attività è verosimile che i 5.250.000 lavoratori sopra individuati si riducano ai 4.326.000 di lavoratori dipendenti versanti IRPEF su redditi da 15.000, e che la composizione di questo gruppo di contribuenti sia quella descritta sopra.
Quanto coincide quest’area con quella dei working poors? Eurostat classifica come tali coloro la cui retribuzione è inferiore ai 2/3 della retribuzione globale mediana, cioè quella equidistante tra la più alta e la più bassa (non media, quindi); sulla base dei dati Job Pricing Salary Outlook del 2019 la retribuzione mediana in Italia era 21.020 € annui: il 66% è pari a 13.873 euro. Come si vede questa soglia è abbastanza vicina ai fatidici 15.000. Se consideriamo questa una soglia realistica per l’area dei working poors otteniamo che la consistenza di questa categoria, per quanto concerne il lavoro operaio, aveva, nel 2019, una consistenza pari al 19,7%. Questa percentuale tuttavia non tiene conto del reddito familiare ma solo di quello individuale; è evidente che l’indice di povertà delle famiglie di lavoratori dipendenti è inferiore: non abbiamo dati specifici su queste in particolare, ma il reddito medio delle famiglie nel 2019 era poco inferiore ai 32.000 € annui (contro i 25.686 dei salari individuali) e nel 44% delle famiglie vi era più di un occupato.
Tuttavia, senza che questo voglia rappresentare uno spaccato della povertà nella società italiana, resta il fatto che quasi il 20% dei salari rientra in una fascia che possiamo accettabilmente definire “salari poveri”. A partire da questa constatazione occorre fare alcune puntualizzazioni: innanzitutto non sono poveri i salari contrattuali, ma quelli che prevedono un orario lavorativo diverso dal full time a tempi indeterminato. Non sono quindi i salari contrattuali (risultato del CCNL e della contrattazione aziendale) a determinare i working poors, ma le prestazioni part time e discontinue. Il che rende di complessa realizzazione l’ipotesi di un salario minimo legale come rimedio alla working poverty: stabilire un minimo orario avrebbe un effetto marginale per part timer e discontinui, a meno di fissare livelli talmente alti da risultare incompatibili per i contratti ordinari; fissare minimi mensili tali da superare la soglia di povertà renderebbe impraticabili una gran parte dei contratti a termine e part time che non sono necessariamente sinonimo di sfruttamento ma spesso vano anche incontro a esigenze dei lavoratori di tenere assieme lavoro e altri impegni.
In realtà non esistono soluzioni amministrative, ma soltanto percorsi di crescita dei salari in un contesto di crescita economica. La crescita salariale può essere contrattata, a livello nazionale e/o aziendale soltanto se è connessa ad una forte ripresa dei fondamentali dell’economia e in particolare della produttività; e allo stesso tempo una crescita economica è il solo fattore che può sollecitare un aumento strutturale della domanda di lavoro (piuttosto degli incentivi fiscali e contributivi che strutturali non possono essere) e quindi marginalizzare e ridurre a una quota fisiologica i part time e i contratti discontinui.
In questo contesto un contributo utile e realistico alla soluzione del problema potrebbe essere quello di avviare una diffusa campagna di contrattazione aziendale e/o territoriale per estendere e rafforzare i premi di produttività ridiscutendo contestualmente l’organizzazione del lavoro e gli organici.
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