Sul fronte dell’obbligo di vaccinazione anti-Covid nelle aziende la linea tenuta dalle confederazioni sindacali maggiori, guidate dalla Cgil, ha sancito una rinuncia esplicita all’autonomia e al rafforzamento del ruolo della contrattazione collettiva nel governo delle condizioni di lavoro
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Articolo pubblicato sul sito lavoce.info il 10 settembre 2021 – In argomento v. anche l’Appello a Draghi sulla vaccinazione nelle scuole, del 18 luglio 2021
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Come si spiega non expedit della Cgil
Quanto è accaduto questa estate nel sistema italiano delle relazioni industriali pone alcuni interrogativi, rispondere ai quali è indispensabile per capire come il sistema stesso sta evolvendo.
Luglio 2021 – Confindustria sollecita le confederazioni sindacali maggiori a negoziare un aggiornamento dei “protocolli” del marzo 2020 sulla prevenzione del contagio anti-Covid nei luoghi di lavoro, per introdurre e disciplinare l’obbligo di vaccinazione, che ormai è disponibile per chiunque lo richieda. Il leader della Cgil risponde immediatamente con un secco “no”, argomentando che “la materia non è di competenza della contrattazione collettiva: solo la legge può imporre questo obbligo”. Subito dopo, però, ammonisce Governo e Parlamento con un altrettanto secco “no a provvedimenti calati dall’alto”.
I due “no” sono evidentemente in contraddizione tra loro. La sola spiegazione possibile di questo comportamento è quella che attribuisce al leader della Cgil: a) una sostanziale ostilità nei confronti del governo Draghi e della maggioranza trasversale che lo sostiene; b) l’intendimento di mettere in evidenza le divisioni interne a questa maggioranza e in particolare le divergenze sul tema dell’obbligo di vaccinazione, al fine di indebolirla. In altre parole: no a un accordo tra le parti sociali su questo tema, perché toglierebbe le castagne dal fuoco al governo, allungandone la vita. Ancora una volta, dunque, un’operazione squisitamente politica da parte della confederazione sindacale maggiore.
Che cosa significa l’acquiescenza di Cisl e Uil alla linea della Cgil
Un interrogativo in parte diverso si pone in riferimento al comportamento del leader della Cisl, confederazione che si è sempre caratterizzata in passato per la difesa gelosa dell’autonomia del sistema delle relazioni industriali dall’ingerenza legislativa statale. Invece di rispondere positivamente alla sollecitazione di Confindustria, dando la piena disponibilità per l’aggiornamento dei “protocolli” del marzo 2020, il leader della Cisl (nella foto qui a sinistra) sorprendentemente si accoda a quello della Cgil, rinunciando a cogliere l’occasione per ribadire e semmai allargare il ruolo della contrattazione collettiva, così sancendo l’irrilevanza della propria organizzazione; e come lui si comporta il leader della Uil. Questo allinearsi alla Cgil anche in un passaggio nel quale è particolarmente accentuata l’opzione essenzialmente politica che è alla base della sua scelta sembra indicare una rinuncia delle altre due confederazioni maggiori a coltivare la peculiarità del proprio ruolo nel sistema delle relazioni industriali; o quanto meno una loro contingente incapacità di farlo, non sappiamo se e quanto destinata a durare nel tempo.
Resta da chiedersi perché, di fronte a questa renitenza delle confederazioni sindacali, Confindustria non abbia dato indicazione agli imprenditori di procedere anche unilateralmente alla richiesta della vaccinazione ai dipendenti, cosa che del resto diverse imprese e amministrazioni hanno fatto di propria iniziativa: perché le norme di legge che lo prevedono ci sono, eccome. E non solo l’articolo 2087 del codice civile. L’articolo 15 del Testo Unico per la sicurezza nei luoghi di lavoro stabilisce che, quando sia possibile eliminare il pericolo, l’imprenditore non può limitarsi alle misure protettive ma deve adottare le misure utili per la c.d. “eradicazione”, o quanto meno la riduzione nei limiti del possibile, della fonte del rischio. Applicata alla crisi pandemica, la norma dice che, essendo disponibile una misura – la vaccinazione – capace di ridurre drasticamente il rischio dell’infezione, l’imprenditore non può limitarsi a imporre in azienda mascherine, divisori in plexiglass e distanziamento, ma è tenuto a richiedere ai dipendenti – in aggiunta alle misure protettive per così dire passive – anche la vaccinazione. Misura, questa, che è specificamente prevista tra quelle adottabili nel luogo di lavoro dallo stesso Testo Unico per la sicurezza, all’articolo 279. Dunque, le norme di legge che consentono al datore di lavoro di richiedere ai dipendenti di vaccinarsi, sia generiche sia specifiche, ci sono da tempo e sono già pacificamente applicate nelle aziende in riferimento ad altri agenti patogeni tipicamente presenti nei luoghi di lavoro.
L’effetto risolutivo della fermezza del governo
Le confederazioni sindacali spiegano la riluttanza a disciplinare per contratto l’introduzione dell’obbligo di vaccinazione nei luoghi di lavoro con la preoccupazione che questa possa far abbassare la guardia sulle altre misure protettive. Così dimenticando che proprio il Testo Unico per la sicurezza – come si è visto – impone sia l’una misura, sia le altre; e che, semmai, proprio il nuovo accordo può costituire lo strumento per ribadire la necessità che tutte vengano mantenute attive.
Sull’altro versante, a Viale dell’Astronomia si giustifica la scelta attendista dell’associazione industriale con la necessità di evitare l’acuirsi delle tensioni sindacali in una fase molto delicata della vita economica e sociale del Paese: a conti fatti, la cronaca degli ultimi giorni mostra che, alla fine, all’accordo si è arrivati, o quasi. È vero. Però è anche vero che Cgil Cisl Uil e Confindustria ci sono arrivate soltanto in questi giorni, dopo che il governo ha rotto gli indugi, istituendo prima l’obbligo del vaccino per il settore sanitario, poi quello del green pass per gli insegnanti, infine preannunciandone l’estensione a tutto il lavoro nel settore pubblico, con la prospettiva di una ulteriore estensione alla generalità dei posti di lavoro, se necessario anche senza l’accordo tra le parti sociali. In altre parole, il sistema italiano delle relazioni industriali ha perso un’ottima occasione per affermare un proprio ruolo autonomo.
Qualcuno si spinge a dire addirittura: per dimostrare la propria esistenza.
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