“[…] Perché la PA non è attraente? Perché non sa remunerare le competenze, le esperienze, i rischi e responsabilità. Ha retribuzioni di ingresso non competitive per i profili specialistici e percorsi di carriera condizionati dall’anzianità […] secondo il patto non scritto per cui ‘ti pago poco ma ti chiedo poco’ […]”
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Articolo di Francesco Verbaro, presidente di Formatemp e dell’Organismo Indipendente di Valutazione della Performance del MEF, pubblicato sul Sole 24 Ore il 3 luglio 2021, con alcuni tagli per ragioni di spazio – In argomento v. anche Se la stabilizzazione dei precari prevale sul criterio meritocratico
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Il livello massimo di crisi di un’organizzazione si ha quando questa si dimostra incapace, pur avendo le risorse, di reclutare le professionalità di cui ha bisogno. L’esperienza delle ultime settimane sul concorso per il Sud e per il Comune di Roma ci da due informazioni: pochi sono i partecipanti rispetto a chi presenta la domanda, a causa di un mix tra sfiducia e scarso entusiasmo di lavorare nella PA; e che la PA non attrae il capitale mano migliore. Il Concorsone unico, inoltre, può essere un utile strumento di supporto e aiuto per le piccole amministrazioni e per profili generalisti, ma non per le grandi amministrazioni e i profili specialistici. Rischia di deresponsabilizzare le ppaa sul procedimento più importante oggi per un’organizzazione: il reclutamento.
L’astinenza mista al cattivo reclutamento (precari e idonei) degli ultimi venti anni ha atrofizzato le capacità di reclutare delle pubbliche amministrazioni e di riflettere in modo puntuale sui propri fabbisogni senza riuscire ad andare oltre il classico “serve personale”.
Le disposizioni emergenziali nate per aiutare le amministrazioni ad attrezzarsi per gestire le ingenti e necessarie risorse del Recovery Fund e per attuare i programmi del Pnrr hanno messo in crisi le amministrazioni, mostrando le difficoltà nel conoscere il mercato del lavoro circostante e ad individuare lo strumento migliore per reclutare le professionalità di cui si ha bisogno. Da un’analisi delle disposizioni degli ultimi due anni emerge chiaramente come il “legislatore”, sia combattuto tra l’esigenza di recuperare velocemente i numerosi anni di blocco delle assunzioni e l’esigenza di migliorare il capitale umano per migliorare la capacità amministrativa della PA. Consapevoli di non poter scherzare con i soldi del Pnrr, si punta a reclutare professionalità assenti negli ultimi decenni negli organici.
Ma reclutare elevate professionalità pone il pubblico in competizione con il privato, in un contesto nazionale che soffre per la mancanza di professionalità specialistiche in generale. Basterebbe leggere uno dei tanti Rapporti Excelsior. La ripresa post-covid registra la difficolta di molte imprese nel reperire le professionalità necessarie, con un ricorso obbligato alle agenzie per il lavoro e società specializzate che a loro volta fanno fatica a trovare le competenze tecniche oggi richieste da tutti. Un analista del mercato del lavoro, a proposito di professionalità tecniche, avrebbe aiutato certamente anche a ricordare come da anni il nostro Paese ha un basso numero di laureati in generale e in particolare nelle materie stem.
La digitalizzazione ulteriormente accelerata dal distanziamento pandemico porta oggi a richiedere anche in Italia competenze tecniche che il nostro sistema formativo non fornisce in maniera adeguata. Ciò porta a creare una competizione sulle competenze specialistiche, che vede la PA perdente. La PA con la digitalizzazione dovrà fare meno cose, ma di qualità. Molte attività operative saranno disintermediate, digitalizzate. Non serviranno gli amministrativi (facili da trovare) in una PA meno autoreferenziale, ma più informatici, statistici, ingegneri, economisti, data analyst, ecc. Ma se non cambieranno gli inquadramenti contrattuali, non li attrarremo mai. Inoltre, non sappiamo quanto del personale attuale, può essere oggetto di processi di upskilling e reskilling e quanti probabilmente non potranno rendere la prestazione a causa delle innovazioni introdotte, perché impiegati in attività low skilled. Questo è un assessment importante da effettuare anche per capire se servono piani di incentivo all’esodo o il mantenimento di norme di facilitazione al pensionamento, come in tutti i settori oggetto di trasformazioni sostanziali.
Perché la PA non è attraente? Perché conosciamo solo le malefatte e le inefficienze di questa, altro che employer brand reputation. Perché non sa remunerare le competenze, le esperienze, i rischi e responsabilità. Ha retribuzioni di ingresso non competitive per i profili specialistici e percorsi di carriera condizionati dall’anzianità. Non prevede percorsi di aggiornamento e specializzazione. Non premia il merito. Non ha un welfare aziendale. Tranne in alcuni settori, sanità e difesa, non vi è più nel pubblico un patrimonio valoriale e culturale identitario. Anzi i ritardi e le inefficienze del sistema Italia vengono da tutti ormai attribuiti all’apparato “burocratico”, che con gli aggettivi che lo circondano ha ben poco di attrattivo. Soprattutto per le giovani generazioni. Le quali accettano di partecipare ad un concorso dopo aver fallito altri percorsi o aver verificato le difficoltà di placement o perché in difficoltà con l’attività professionale. In molti casi il lavoro nella PA non richiama il “posto fisso”, ma il “posto morto”. Un luogo di lavoro che ti spinge necessariamente a trovare soddisfazione e gratificazione fuori. Ma poco importa in un settore che non è abituato a misurare la produttività delle proprie risorse umane e a prendersi cura di esse.
Ricordiamo che in Italia abbiamo almeno tre mercati del lavoro, geograficamente caratterizzati, e che l’offerta meridionale risulta prevalente per le difficoltà derivanti dal mercato del lavoro del sud. La crisi e l’incertezza economica spingono alcune professioni, soprattutto nel mezzogiorno, a tentare la strada del concorso pubblico. Paradossalmente la PA al Sud risulterebbe più attraente rispetto alle alte professionalità, che in un contesto debole vivono in una continua precarietà. Ma su questo rileva anche la propensione alla mobilità interregionale.
Triste dirlo ma oggi chi partecipa ad un concorso pubblico, sceglie la PA soprattutto perché assicura un posto stabile, secondo il patto non scritto tra PA e dipendente per cui “ti pago poco ma ti chiedo poco”. E non abbiamo parlato delle soft skills, sulle quali il legislatore ha puntato l’attenzione anche per mapparle nella PA e che certamente non è facile verificare con procedure semplificate.
Ci sono processi, come il reclutamento, strategici per un’organizzazione e che non possono essere banalizzati. Soprattutto in ambiti, come quello pubblico, nel quale quando si assume lo si fa per sempre. Occorre investire nel reclutamento, usare dati per programmarlo e gestirlo in modo efficace, non semplificarlo perdendo di vista metodologie e obiettivi.
Infine, occorre migliorare il brand e l’attrattività della PA facendo conoscere le buone pratiche e rivoluzionando la gestione delle risorse umane, premiando e valorizzando il merito. La sfida più difficile quest’ultima. Anche perché differenziare, valutare, premiare e sanzionare ha sempre richiesto fatica e comportato impopolarità, in un contesto storicamente caratterizzato da politiche retributive piatte e pace sociale.
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