La prima difficoltà riguarda la struttura non trasparente delle nostre retribuzioni; la seconda nasce dalla diffidenza delle confederazioni sindacali maggiori; la terza dai gravi squilibri tra le regioni italiane, sia sul piano della produttività, sia su quello del costo della vita – Come provare a risolverle
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Articolo pubblicato sul quotidiano il Riformista il 6 luglio 2021 – In argomento v. anche Il problema del lavoro povero e la questione del minimum wage
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Non sarà facile, qui da noi, dare attuazione alla direttiva europea sugli standard retributivi minimi, se e quando essa entrerà in vigore. La prima difficoltà riguarda la struttura delle nostre retribuzioni, resa complessa e poco trasparente dalle voci di retribuzione differita (soprattutto trattamento di fine rapporto, 13ma e 14ma mensilità), pressoché sconosciute a nord delle Alpi. La seconda nasce dalla diffidenza delle confederazioni sindacali maggiori, le quali temono che un minimum wage fissato per via legislativa o amministrativa possa spalancare le porte a una fuga dai contratti collettivi delle aziende marginali, che potrebbero essere fortemente tentate di assumere il nuovo standard minimo come parametro. La terza nasce dalle forti differenze del costo della vita tra le regioni del Paese.
Per risolvere la prima questione, la via maestra sarebbe quella di superare il vincolo delle voci di retribuzione differita, stabilendo chiaramente che non c’è alcun obbligo generale di suddividere la retribuzione annuale in più di 12 mensilità, né di pagare una parte della retribuzione a fine rapporto. In realtà, a ben vedere, l’eliminazione di queste due forme di retribuzione differita (previste rispettivamente dalla contrattazione collettiva corporativa, per questo aspetto ancora oggi in vigore, e dalla legge n. 297/1981) sarebbe già consentita: se l’ammontare complessivo del compenso rispetta lo standard complessivo minimo, la pattuizione che elimini le voci differite non può considerarsi come una deroga in peggio rispetto alla disciplina vigente. Ma pochi lo sanno, e due righe di chiarimento su questo punto in una legge sgombrerebbero il campo da ogni remora.
Assai più spinosa e difficile da risolvere è la seconda questione. In Italia i contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati maggiori, essendo assunti dai giudici come parametro della “giusta retribuzione” anche per imprese e lavoratori appartenenti al settore ma non iscritti alle associazioni stipulanti, coprono di fatto una porzione molto ampia del tessuto produttivo: secondo una stima corrente, intorno ai nove decimi della forza-lavoro dipendente occupata. Se verrà introdotto uno standard retributivo orario minimo assoluto, esso non potrà evidentemente collocarsi al di sopra di quello minimo previsto dal contratto collettivo di settore più povero; donde il rischio che esso produca negli altri settori l’effetto di “fuga verso il basso” delle imprese, di cui si è detto all’inizio.
Il problema può essere risolto rispolverando la delega legislativa contenuta nel Jobs Act (legge n. 183/2014), rimasta inattuata, che prevedeva l’istituzione di uno standard minimo, applicabile anche alle collaborazioni autonome continuative, valevole dovunque non esista già un contratto collettivo stipulato dalle confederazioni maggiori. Così i contratti collettivi seri, dove ci sono, non subirebbero la “concorrenza al ribasso” del minimum wage universale; ma tutti i lavoratori che non hanno contratto collettivo – a cominciare dai co.co.co. e dalle nuove figure della gig economy che spuntano come i funghi – avrebbero finalmente almeno questa tutela minima.
C’è infine il problema dell’entità del minimum wage, che rischia di essere troppo basso al nord o troppo alto al sud. Per risolverlo basterebbe fissare uno standard (per esempio: 6,5 euro) da moltiplicare per un coefficiente fra 0,8 e 1,2, in relazione al costo della vita regionale. Soluzione, questa, facilissima sul piano tecnico, ma difficilissima sul piano politico-culturale.
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