Alla parola “licenziamento collettivo”, subito scatta il riflesso pavloviano: sindacati, partiti e istituzioni, invece di rimboccarsi le maniche per ricollocare i lavoratori coinvolti presso le imprese che cercano e non trovano, li incoraggiano a erigere le barricate e ad aggrapparsi con le unghie e coi denti alla struttura che sta chiudendo
.
Intervista a cura di Valérie Segond, pubblicata (in lingua francese) su Le Figaro il 30 giugno 2021 – In argomento v. anche il fondo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera due giorni dopo, Lavoro, l’eccezione italiana
.
.
Quale è la parte dei dipendenti che è interessata dal sblocco dei licenziamenti?
In linea teorica, tutti i lavoratori dipendenti sono interessati, perché il blocco oggi (e ancora per due giorni) vieta qualsiasi licenziamento di natura non disciplinare. Però in pratica i dipendenti che corrono davvero qualche rischio di essere licenziati dal 1° luglio sono solo quelli di aziende in crisi, che devono ridurre il personale o addirittura chiudere.
Non arrivo a capire se questo tocca ad una grande parte dei dipendenti. Quali sono le stime dei dipendenti a rischio di essere licenziati?
Le stime che per lo più si leggono in questi giorni vanno dai 200mila ai 400mila. Ma c’è anche chi sostiene che veramente a rischio di licenziamento siano meno di 100mila.
C’è allarme per il rischio di imminenti licenziamenti collettivi da parte di alcune multinazionali.
In un Paese in cui operano 20.000 multinazionali, con una occupazione complessiva che si misura in milioni di persone, dovrebbe considerarsi fisiologico che, dopo un anno e mezzo di blocco dei licenziamenti, si apra qualche procedura di riduzione del personale con qualche centinaio di persone coinvolte.
Invece?
Appena si sente parlare di licenziamenti collettivi, subito scatta il riflesso pavloviano: sindacati, partiti e istituzioni, invece di rimboccarsi le maniche per riconvertire e ricollocare i lavoratori coinvolti presso le molte imprese che offrirebbero prospettive occupazionali eccellenti e non trovano la manodopera che cercano, li incoraggiano a erigere le barricate e ad aggrapparsi con le unghie e coi denti alla struttura che sta chiudendo.
Però, in genere, nel passaggio alla nuova occupazione si verifica una perdita di retribuzione, in genere fra il 15 e il 25 per cento.
Sì, ma anche quando questo si verifica si tratta per lo più di una perdita temporanea, destinata a essere riassorbita nel giro di tre o quattro anni. E comunque potrebbe essere compensata con un wage subsidy a carico della gestione della Cassa Integrazione, con un costo molto inferiore a quello dell’integrazione a zero ore per anni, che costituisce solitamente la sorte dei lavoratori in queste crisi occupazionali.
Le piccole imprese non possono licenziare fino al 31 ottobre…
Ma possono godere della Cassa integrazione incondizionata.
Secondo Lei, il blocco è stato vantaggioso per l’occupazione oppure ha avuto più impatti negativi sulle assunzioni?
Penso che sia stata una scelta sbagliata: come in tutti gli altri Paesi europei, sarebbe stata sufficiente la Cassa integrazione incondizionata e gratuita: nessuna impresa licenzia, avendo a disposizione questo ammortizzatore sociale.
Il blocco dei licenziamenti non ha impedito la distruzione di un milione di posti.
Non lo ha impedito per nulla: ha avuto solo l’effetto di collocare tutto il peso dell’indispensabile aggiustamento industriale sui peripheral workers, prevalentemente donne e giovani, che fanno registrare la quota maggiore di contratti a termine e di collaborazioni autonome continuative.
C’è una stima sull’effetto del blocco dei licenziamenti sulle assunzioni ? Ha impedito di creare nuovi posti secondo Lei ?
È molto difficile stimare l’impatto del blocco sulle assunzioni. Però è certo che esso ha un effetto di addormentamento del mercato del lavoro: è un po’ come mettere le persone in freezer. Si riduce molto la propensione delle persone a cercare la nuova occupazione. Nel frattempo, le imprese cercano personale che non trovano.