“La parola rebus viene dal latino, significa ‘con le cose’: sotto l’apparenza delle cose che percepiamo può nascondersi una verità diversa, qualcosa di più profondo; nei sogni viviamo un’esperienza analoga, e il lavoro di scavo per trovarne il significato nascosto è simile a quello che si compie per trovare la soluzione di un rebus”
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Intervista a cura di Francesca Schianchi, pubblicata su La Stampa il 5 giugno 2021 – Le altre lettere e recensioni su L’ora desiata vola sono raggiungibili direttamente dalla pagina web dedicata al libro
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La passione nasce da bambino. Complici le passeggiate in montagna e uno zio cultore dell’arte di giocare con le parole. Così Pietro Ichino si innamora dei rebus, e non li lascia più. Lungo tutta una vita spesa tra Università – docente ordinario di Diritto del lavoro alla Statale di Milano – professione forense e lungo impegno politico – deputato una prima volta nelle fila del Pci tra fine anni ’70 e primi anni ’80, poi senatore per il Pd e Scelta civica, il defunto partito di Mario Monti – i rebus e i loro enigmi diventano una compagnia costante. «Li faccio in ogni viaggio, in treno, in aereo, la sera… Ci rimugino mentre cammino per strada, mentre vado in bicicletta. Mi è capitato che una soluzione mi venisse la notte, svegliandomi al mattino eccola lì: una gioia indescrivibile». Dopo oltre mezzo secolo di Settimana enigmistica e dizionario, a imparare parole nuove e lambiccarsi il cervello sulle loro possibili combinazioni, il giurista milanese ha deciso di scriverci un libro, in uscita in questi giorni per la collana “Amletica leggera” di Bompiani diretta da Stefano Bartezzaghi, L’ora desiata vola, Guida al mondo dei rebus per solutori (ancora) poco abili, dove già titolo e copertina sono un omaggio al mondo immaginario e spesso paradossale di questo gioco.
Professore, perché scriverci un libro?
«Dopo tanti anni di passione, mi è venuta voglia di proporre al grande pubblico il fascino di questo mondo. Il mio proposito è di fornire quei pochi strumenti tecnici utili per facilitare l’ingresso nel mondo dei rebus».
Lei come ci è entrato?
«Da bambino andavo d’estate ospite di zio Giangiotto, il fratello di mia madre, in montagna, a Cortina d’Ampezzo. La prima volta che andai avevo nove anni. Nel corso di gite nei boschi e sui sentieri, lo zio mi proponeva continui giochi con le parole: trovare parole bisenso, o individuare endecasillabi nel discorso comune. Poi, tornati a casa, ci dedicavamo ai rebus. È da lui che ho appreso il piacere di trovare il significato nascosto delle cose, assistere alla metamorfosi per cui da un testo costruito in modo legnoso con immagini improbabili accostate l’una all’altra scaturisce una frase rotonda, liscia, perfetta. Lo Zio Giangiotto conservava anche uno scartafaccio in cui ritagliava rebus dalle pagine dei giornali».
Non solo lui, come racconta nel libro…
«Il suo scartafaccio è andato perduto, ma verso i vent’anni anch’io ho preso l’abitudine di ritagliare e conservare in un quaderno i rebus più belli».
In che senso i più belli?
«In più di cinquant’anni ne avrò incollati 150-200. Alcuni rappresentano un’immagine serena, plausibile, di uso comune, da cui poi si trae un testo che si trasforma in qualcosa di completamente diverso. In altri invece mi attrae il carattere paradossale dell’immagine: ricordo ancora mio zio mostrarmi divertito un re intento a seminare riso insieme a un prete… Cose che succedono solo nei rebus».
E nei sogni.
«È Freud il primo a dirlo. D’altra parte, la parola rebus viene dal latino, significa “con le cose”, vuol dire che sotto le cose che percepiamo può nascondersi una verità diversa, qualcosa di più profondo. Nei sogni viviamo un’esperienza analoga, e il lavoro di scavo per trovare il significato nascosto delle immagini è simile a quello che si fa per trovare la soluzione di un rebus. E’ questo fascino che vorrei trasmettere agli altri, mi piacerebbe spiegare quanto siano una metafora della vita».
Cosa deve avere un rebus per essere di buona qualità?
«Fondamentale è avere fiducia nella qualità dell’autore: impieghi tempo a cercare la soluzione se sai che alla fine non ti deluderà. Sono molto importanti i disegnatori, capaci di trasmettere con il loro tratto un sentimento, uno stato d’animo, fondamentali per arrivare alla soluzione. Una maestra in questo senso è stata Maria Ghezzi, detta la Brighella».
È morta pochi mesi fa e lei le dedica un rebus di saluto nel libro…
«È stata la più grande disegnatrice di rebus, pochissimo valorizzata sul piano mediatico. Per la scrittura di questo libro la andai a trovare e lei mi regalò l’originale di uno dei rebus più belli della storia, un grande onore. E’ mancata all’improvviso a 94 anni, nel libro ho introdotto un’ultima parte di commiato».
E’ un gioco “aristocratico” o democratico? Lei stesso se lo chiede nel libro, visto che per risolvere i rebus occorre una buona conoscenza della lingua…
«Non c’è dubbio che conoscere bene la sintassi e l’analisi logica conferisca una marcia in più, ma chi non ha la stessa preparazione può acquisire conoscenze proprio grazie ai rebus. Per questo li consiglierei anche agli insegnanti di scuola: possono rendere più appassionante quelle cose noiosissime che hanno afflitto tutti noi alle medie che sono l’analisi logica e grammaticale».
Ha mai provato a risolvere rebus in un’altra lingua?
«Ho provato in inglese e in francese. Ma ho capito una cosa che mi aveva spiegato zio Giangiotto: l’italiano, per la sua forte corrispondenza tra fonetica e scrittura, è l’ambiente ideale dei rebus. In inglese, dove l’ambiguità fonetica è fortissima, con lo stesso suono che può corrispondere a scritture diverse, i rebus non danno la stessa soddisfazione. Constato anche che la rebussistica italiana è fiorentissima: c’è un’associazione, un congresso annuale, un campionato di soluzione dei rebus e un concorso nazionale per la loro creazione. Non mi risultano sviluppi altrettanto ricchi nel mondo anglofono».
Ha mai partecipato al campionato di solutori?
«No, guardo con ammirazione ai grandi rebussisti ma non mi sono mai cimentato con loro: sono troppo bravi per me!».
Dedica molto tempo ai rebus?
«Mi capita a volte di riflettere sulla soluzione per un’intera settimana, il tempo tra un’uscita della Settimana enigmistica e la successiva. A volte trovo nel sonno la parola che cercavo: ricordo una volta, parola di quattro lettere che finiva per P. Mi ero fissato con “stop” e mi arrovellavo nel tentativo di combinare quella parola. Poi, in piena notte, svegliandomi per svolgere funzioni non delegabili, ebbi l’illuminazione: la parola era “flop”! E’ come in un giallo: la vignetta è disseminata di indizi che bisogna saper mettere insieme».
Lei è un lettore di gialli?
«Sì, li uso per costringermi alla lettura in inglese e francese. Da piccolo, i miei genitori mi consentivano la lettura dei fumetti solo a patto che fossero in inglese o francese: per questo non leggevo Topolino, ma Tintin e Milou. Oggi i gialli e i thriller sono un piacere che mi concedo in lingua originale».
Quali scrittori legge?
«I classici come Simenon. O Agatha Christie, di cui ho letto tutto con grande piacere. Ma anche Ken Follett e James Patterson».
Cos’altro legge?
«Ormai da molto tempo ho preso a rileggere i grandi classici della letteratura francese e russa. E gli italiani: Dante, Ariosto, Manzoni. Riletti tanti anni dopo, mi sembrano completamente diversi da come li ricordavo. Anche l’Iliade e l’Odissea sono stati una grande riscoperta, mentre l’Eneide mi ha un po’ deluso».
Anche della politica si dice spesso che è un rebus. Da ex parlamentare, vede analogie?
«La politica che pratichiamo tutti, quella che vede coinvolta l’opinione pubblica, ha la caratteristica di un rebus: presenta immagini al di sotto delle quali nasconde altre realtà. Questo è ancora più vero se la politica la si vede dall’interno: la metamorfosi di ciò che appare in qualcosa di notevolmente diverso è incredibile».
Anche il mondo del lavoro è un rebus?
«Anche lì l’apparenza non corrisponde alla realtà e va decifrata».
Mi fa un esempio?
«Il blocco dei licenziamenti (deciso dal governo in via emergenziale per tamponare la crisi dovuta alla pandemia, ndr): viene usato per mascherare la realtà, che è la disoccupazione. Non si crea occupazione, ma si occulta la realtà di centinaia di migliaia di persone messe in freezer. Eppure, avremmo a disposizione molti più posti di lavoro di quanto non sembri».
Davvero?
«E’ così. Se le persone che cercano lavoro fossero attrezzate per leggere i meccanismi di quel mondo, potrebbero accedere a giacimenti occupazionali nascosti. Il mondo del lavoro è un rebus in cui dietro all’immagine si cela una realtà diversa».
Anche qui un rebus da risolvere…
«I rebus, come gli scacchi, sono una metafora della vita».
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