I miei rapporti con il Pd di oggi, di Enrico Letta e del ministro Andrea Orlando, così incerto sulle politiche del lavoro, con il Pd di ieri, e con il mondo dei giuslavoristi italiani – Il perché del nuova guida al mondo meraviglioso dei rebus, così apparentemente estranea a tutto quanto ho scritto prima d’ora
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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata il 4 giugno 2021 su Italia Oggi – Le altre interviste e commenti su L’ora desiata vola sono reperibili attraverso la pagina web dedicata al libro
Anche in questa situazione di crisi grave le imprese italiane stentano a coprire un terzo dei posti disponibili, circa 100 mila al mese». A quasi 20 anni dalla legge Biagi, le politiche attive per il lavoro non sono mai decollate, un disastro a cui hanno contribuito un po’ tutti, non esclusa la sinistra «e anche le confederazioni sindacali, che su questo terreno sono del tutto prive di iniziativa e afone”.
Pietro Ichino, giuslavorista, considerato il padre del Jobs act, ex senatore del Pd, giudica negativamente la proroga del blocco dei licenziamenti decisa dal governo Draghi, «serve solo a congelare la situazione e a coprire l’inerzia generale sul terreno delle politiche attive del lavoro». Ichino, in questi giorni in libreria con L’ora desiata vola. Guida al mondo dei rebus per solutori (ancora) poco abili (Bompiani editore), un libro sulla sua passione per l’enigmistica, parla del suo essere riformista, del Pd («sto cercando di capire che cosa abbia in mente il ministro del lavoro Orlando»). E delle due volte in cui è stato a un passo dall’essere ministro del Lavoro.
A quasi un anno e mezzo dall’inizio dell’epidemia, che futuro attende i lavoratori dipendenti e gli autonomi?
Li attende, innanzitutto, un po’ di confusione. Nel senso che, con il coordinamento telematico e informatico al posto del coordinamento spazio-temporale della prestazione lavorativa, si sta facendo sempre più labile la distinzione tra lavoro dipendente e autonomo.
Ma non la contrapposizione tra garantiti e non garantiti.
Quella, ahimè, appare sempre più marcata. E non coincide affatto con la distinzione tra dipendenti e autonomi. Ecco un bel test per stabilire la natura politica del riformismo: consideriamo di sinistra o di destra una politica tendente, sul piano delle garanzie, a superare la contrapposizione?
Come giudica il blocco dei licenziamenti prorogato a fine giugno dal governo Draghi?
Lo giudico male fin dalla prima proroga. Serve solo a congelare la situazione e a coprire l’inerzia generale sul terreno delle politiche attive del lavoro. Mentre la difficoltà di reinserimento delle persone interessate nel tessuto produttivo aumentano col protrarsi della loro inerzia.
I sindacati paventano uno tsunami sociale.
Che sarà tanto più grave quanto più lo si rinvia. E intanto le imprese stentano a trovare le persone che cercano.
Di politiche attive per il lavoro si parla dalla legge Biagi. Sono passati 20 anni e siamo ancora qui a dire che i centri per l’impiego non funzionano, l’Anpal è stato un fallimento, i navigator soldi buttati. Dov’è l’errore?
Si è sempre pensato che il problema si risolvesse emanando nuove leggi. Mentre per risolverlo occorreva soprattutto rimboccarsi le maniche e acquisire il know-how specifico, attingendo alle esperienze migliori d’Oltralpe.
Non crede che la sinistra abbia contribuito a questo disastro?
Se è per questo, mi sembra che abbiano contribuito un po’ tutti, comprese le confederazioni sindacali, che su questo terreno, con l’eccezione di poche voci individuali, sono del tutto prive di iniziativa e afone.
Vede dei miglioramenti da parte dell’attuale dirigenza del Pd sul tema?
Sto cercando di capire che cosa abbia in mente il ministro del lavoro Orlando. Ma mi preoccupa il fatto che nella struttura del partito oggi manchi un responsabile delle politiche del lavoro.
L’anno scorso ha pubblicato un libro, L’intelligenza del lavoro (Rizzoli), nel quale sostiene che il mercato del lavoro deve essere concepito, e attrezzato, anche come un luogo dove sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore. Non le sembra paradossale affermarlo in un momento di crisi nera come questo?
No. Anche in questo momento almeno una metà delle persone che vivono del proprio lavoro si scelgono l’imprenditore, sanno usare il mercato del lavoro. Il problema è di innervare il mercato dei servizi necessari perché anche l’altra metà sia dotata dell’intelligenza necessaria per farlo.
Ma se il lavoro manca…
Certo, la nostra domanda di lavoro è debole. Ma anche in questa situazione di crisi grave le imprese italiane stentano a coprire un terzo dei posti che si aprono: circa 100 mila posti ogni mese restano scoperti. A ben vedere, il difetto di servizi di informazione, orientamento, formazione mirata, nel mercato del lavoro pesa più che il difetto di domanda di manodopera.
Professore, perché ha voluto scrivere da ultimo un libro sui rebus?
Perché sono stato per un anno chiuso in casa a causa della pandemia. E perché ho un quadernone nel quale da decenni incollo i rebus più belli che incontro: mi è venuta voglia di farne assaporare il gusto a tante persone che se ne tengono a distanza considerandolo un gioco astruso.
Un gioco elitario o democratico?
Democraticissimo, perché non costa nulla. Un po’ aristocratico perché privilegia chi conosce meglio i segreti della lingua, l’analisi logica e grammaticale. Ma anche per chi li conosce meno è un modo divertente di affinare la propria cultura linguistica.
Chi sono stati i suoi mentori in questo campo?
Nonno e zio materni. Sono loro che mi hanno inoculato fin da bambino la curiosità e il gusto per i rebus: l’arte di scovare il significato che si nasconde sotto le apparenze. Ma questo era soltanto uno dei tanti giochi di parole che proponevano a noi piccoli durante i viaggi, o le passeggiate, o la sera in montagna dopo cena.
Quali altri?
Fra i tanti, la gara a chi trova più parole bisenso, trisenso o quadrisenso; oppure i tautogrammi: tradurre un proverbio, o anche qualcosa di più, in un testo le cui parole incominciano tutte con la stessa lettera. Per esempio, «Chi dorme non piglia pesci» può diventare «Addormentato abdichi ad avere all’amo aringhe», ma anche «Se sonnolento, saran sue scarse sogliole».
Come è avvenuto il suo innamoramento per l’altra sua passione, il diritto del lavoro?
Fin da bambino sono stato un discepolo di don Lorenzo Milani, che mi diceva: «Ricordati che da grande dovrai restituire tutto; e per restituire hai due modi: fare l’insegnante, oppure il sindacalista». A vent’anni scelsi di fare il sindacalista, e dunque la strada era obbligata: dovevo dedicarmi al diritto del lavoro.
Che professore è stato?
Gli studenti hanno apprezzato il mio modo di insegnare: anche a decenni di distanza molti mi sono ancora legati, mi scrivono e leggono ancora quello che scrivo. Mi lusingo di avere costruito qualche cosa di qualche peso: il Dipartimento di Scienze del Lavoro dell’Università di Milano è stato una cosa del tutto nuova nel panorama italiano. Ma sono molti miei colleghi giuslavoristi a non apprezzare il mio contributo.
Perché mai?
Perché mi sentono più come un antagonista che come un collega. Mi rimproverano di aver favorito l’invasione della ragion economica nel campo del diritto del lavoro, di aver attentato alla superiorità del diritto sull’economia.
E lei cosa gli risponde?
Da che mondo è mondo l’economia è parte integrante del diritto. Il fatto è che loro vedono nelle mie tesi, e soprattutto in quello che ho fatto in Parlamento affinché venissero recepite in norme legislative, una riduzione del ruolo della giurisdizione nel sistema della tutela del lavoro, quindi del loro stesso ruolo.
È così?
Su questo, in qualche misura hanno ragione. Fin dalla metà degli anni 90 ho denunciato come un’anomalia del sistema italiano delle relazioni industriali, dannosa in primo luogo per gli interessi dei lavoratori e del movimento sindacale, l’ipertrofia del contenzioso giudiziale, quindi del ruolo di giudici e avvocati.
E questi suoi colleghi non sono d’accordo.
Non solo loro: non sono d’accordo neanche i giudici, che tengono molto al ruolo centrale attribuito loro dal nostro diritto del lavoro in quest’ultimo mezzo secolo: una peculiarità italiana nel panorama europeo, a mio modo di vedere non positiva. Certo non positiva per i lavoratori.
Per i lavoratori non è una protezione?
In molti casi ovviamente sì. Ma non quando il giudice si sostituisce all’imprenditore nella gestione aziendale, o si sostituisce al sindacato nella determinazione del contenuto di un contratto collettivo. L’iper-giuridificazione del rapporto fa male al lavoro. E spesso finisce col premiare i peggiori, da entrambi i lati.
C’è un nesso tra quello che le rimproverano questi suoi colleghi e gli attacchi che le hanno rivolto i Brigatisti?
No. Vedo semmai un nesso tra le minacce che qualche volta mi vengono ancora rivolte da qualche parte e il modo caricaturale in cui vengono rappresentate le mie tesi sui social. Chi le avversa ha bisogno di rappresentarle in modo grottesco per potersi esimere dal riflettere e dal discuterne seriamente.
Che cosa ha provato quando è stato indicato dalle nuove Br come simbolo del capitalismo da abbattere?
Un senso di straniamento: come un salto indietro di un secolo, all’epoca in cui i comunisti accusavano i socialisti di social-fascismo.
Lei chiese loro di non essere considerato un simbolo, ma una persona.
Era un tentativo di difendermi: è molto più facile sparare a un simbolo che a una persona. Chi vuol sparare ha bisogno di convincersi che sta solo abbattendo un simbolo.
Che cosa significa essere riformisti oggi?
«Riformismo» e «riforme» sono diventate delle parole di significato indeterminato: ci sono le riforme che puntano al futuro e quelle che puntano a un ritorno al passato. E anche il «futuro» che si vuol costruire non è necessariamente tutto buono.
Allora mettiamola così: come definirebbe il suo riformismo?
Lo definirei come il puntare a una società nella quale tutte le posizioni e le funzioni siano contendibili e a una repubblica impegnata ad assicurare a ogni persona pari opportunità nella contesa. Oggi in Italia vedo un grave deficit di contendibilità delle funzioni, sia nel pubblico sia nel privato; e si fa pochissimo per il pareggiamento delle opportunità.
Questo riformismo è di destra o di sinistra?
Tradizionalmente si pensa che la contendibilità delle funzioni sia un valore promosso dalla destra, mentre la parità delle opportunità sarebbe un valore della sinistra. Ma, a ben vedere, per fare bene il suo mestiere la sinistra dovrebbe far proprio fino in fondo anche il valore della contendibilità delle funzioni.
Lei è stato parlamentare, in tempi diversi, per tre legislature. Perché non è mai stato ministro del Lavoro?
Una volta, subito dopo le elezioni del 2008, me lo propose Silvio Berlusconi. Gli risposi che non avrei potuto far parte del suo governo senza fare mie anche le posizioni del suo governo in tutti gli altri campi, a cominciare dalla Giustizia.
E la seconda volta?
Me lo propose Mario Monti nel novembre 2011. Lì fu un alto dirigente del mio partito a dichiarare pubblicamente che se io fossi stato indicato come ministro del Lavoro il governo Monti sarebbe morto prima ancora di nascere.
Le è dispiaciuto?
Questa seconda volta, un po’ sì: avevo già pronto il progetto del «codice semplificato del lavoro», presentato due anni prima con la firma di una sessantina di senatori, e mi sarebbe piaciuto molto poterlo realizzare compiutamente. Però, poi un pezzo consistente di quel progetto si è realizzata lo stesso, in parte con la legge Fornero del 2012, in parte con il Jobs Act.
Mi aiuti a sciogliere un enigma: perché il Pd ha perso un giuslavorista come Pietro Ichino?
Veramente non lo ha perso affatto: sono ancora iscritto al Pd. Diciamo piuttosto che in questo momento c’è un ministro del Lavoro Pd che non condivide molte mie idee; ma in un grande partito le divergenze sono abbastanza normali. Molti altri, poi, in seno allo stesso Pd le mie idee le condividono eccome.
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