QUANTO CI COSTA MANTENERE IMMUTATO IL MODELLO MEDITERRANEO DI WELFARE E MERCATO DEL LAVORO

I FAUTORI – DI DESTRA E DI SINISTRA –  DELLA CONSERVAZIONE DEL NOSTRO PICCOLO MONDO ANTICO, DELLE SUE VISCHIOSITA’ E DELLE SUE CHIUSURE, TENDONO A MOSTRARCENE SOLTANTO GLI ASPETTI RASSICURANTI; MA OCCORRE CONSIDERARNE ANCHE I COSTI PESANTI, IN TERMINI DI ESCLUSIONE DI MILIONI DI PERSONE DAL LAVORO PROFESSIONALE, DI MINORE MOBILITA’ SOCIALE, MINORE PRODUTTIVITA’ E MINOR REDDITO

Articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino pubblicato sul Sole 24 Ore del 29 ottobre 2009

L’instabilità causata dalla crisi finanziaria e dalla recessione globale ha creato, comprensibilmente, reazioni difensive e conservatrici (nel senso letterale del termine, cioè di conservazione del passato) in molti italiani. Un rifiuto del mercato, della mobilità sociale e geografica, del rischio, della competizione, della globalizzazione, del confronto con il resto del mondo (a cominciare dalla Cina), un rifiuto dell’immigrazione anche di quella ad alto capitale umano, una chiusura nelle tradizioni locali, persino una rivitalizzazione dei dialetti. Un ritorno al “piccolo mondo antico” ricordato da Barbara Spinelli domenica 25 ottobre sulla Stampa, in cui le banche sono inefficienti e (magari) pubbliche, ma rischiano poco, in cui i veri “produttori” sono quelli che sfornano beni tangibili, come automobili, lavatrici, acciao, insomma la vecchia industria. Il tutto sotto l’ala protettrice dello stato e dei regolatori che, meglio del mercato, sanno controllare il sistema economico: la cosiddetta “superiorità della politica”, una delle tesi celebri del Ministro Giulio Tremonti. Un mondo in cui il welfare lo fa la famiglia, centrata sull’uomo che lavora nel mercato e la donna che lavora in casa, con nonni figli e nipoti che vivono e si assistono gli uni con gli altri senza mai allontanarsi dal focolare. Un mondo in cui lo stato non offre assicurazione sociale se non con le pensioni e con la sicurezza del posto fisso per un membro (ed uno solo) della famiglia, garantito attraverso l’impiego pubblico e una legislazione del lavoro che ingessa il mercato e impedisce l’allocazione ottimale dei lavoratori nelle imprese.
Giulio Tremonti si è fatto interprete di queste paure e la sua recente esaltazione del “posto fisso” non deve quindi stupire, perché è un tassello importante e coerente con questa visione dell’economia e della società.
È una visione che ha una sua coerenza, fondata sull’avversione al rischio, la tranquillità, il rifiuto del multiculturalismo a favore dell’uniformità, magari definita da una religione unica, il cristianesimo. La gente vuole sicurezza, e, aggiungiamo noi, vota chi promette sicurezza senza evidenziarne i costi, un particolare che sicuramente non sfugge al Ministro Tremonti. Facendo un paragone con gli Stati Uniti, è qualcosa di simile a quella visione della destra repubblicana vicina alla “religious right” del Sud e della “Bible belt” del centro che si contende la direzione di quel partito con la destra liberista e pro-mercato dei Repubblicani del Nord Est. L’analogo di questi ultimi in Italia, se esiste nel centro destra, non riesce a farsi valere e preferisce vivere della luce riflessa del Ministro dell’Economia che forse diventerà Vice Presidente del Consiglio, sancendo cosi la vittoria della sua linea.
Il piccolo mondo antico tremontiano offre certamente anche benefici economici non trascurabili. In un libro di prossima pubblicazione presso Mondadori, abbiamo misurato quanto la famiglia italiana produce in beni e servizi, non solo in ambiti ovvi come l’alimentazione, ma anche in quelli meno ovvi che in altri paesi sono gestiti primariamente dallo stato come l’assistenza agli anziani e ai bambini e l’assicurazione sociale contro la disoccupazione e l’instabilità dei redditi. La famiglia italiana è una formidabile unità produttiva, i cui servizi, frutto soprattutto del lavoro familiare delle donne, non sono contabilizzati nelle statistiche ufficiali, pur essendo più consistenti che in altri paesi.
Ma affidare alla famiglia un ruolo così centrale ha dei costi molto alti. La coesione familiare riduce la fiducia verso il mondo esterno alla famiglia, diminuendo anche l’attenzione verso il bene pubblico e quindi il “capitale sociale”. La mancanza di mobilità geografica e sociale ostacola la meritocrazia e la concorrenza fra persone e imprese. La conseguenza è una minore produttività che si traduce in salari e profitti più bassi. È un mondo che altri paesi hanno progressivamente abbandonato, e per questo, non a caso, l’Italia sta perdendo rapidamente posizioni relativamente a questi paesi e continuerà a farlo se a questo mondo rimarremo attaccati. Si dice che l’Italia grazie a questa sua struttura ha patito meno la crisi, ma non è vero: la recessione in Italia è tra le più forti dei paesi OCSE.
E non è solo un problema di competitività ed efficienza: è anche un problema di equità. Il posto fisso è tale per una minoranza ad esculsione di molti altri, donne, giovani, precari. Sancisce come sacra una famiglia in cui l’allocazione dei compiti di lavoro in casa e nel mercato è fortemente squilibrata tra il maschio adulto percettore di un reddito stabile e la moglie e i figli adulti senza lavoro stabile, che da lui dipendono. Le imprese spaventate dal non poter adattare la forza lavoro a seconda delle esigenze produttive assumono meno, generando code di giovani in cerca di primo impiego, e possono imporre condizioni retributive peggiori perché non temono che i lavoratori per questo si spostino altrove, dato che rimanere vicino casa è necessario per sfruttare il welfare familiare. I pochi che lavorano nel mercato sostengono, con le loro imposte, i tanti che non lavorano. Quindi il posto è si fisso, ma il salario al netto delle imposte è basso. Non solo, ma, se pochi lavorano, poco si produce e poco rimane da dividere, quindi il reddito pro capite è scarso. Nel settore pubblico poi, in cui gli automatismi di carriera sono più forti che nel privato, il posto fisso riduce la possibilità di migliorare la qualità della burocrazia. Se vogliamo davvero garantirlo, dovremo adattarci a code, lungaggini burocratiche e impiegati assenteisti dato che non rischiano nulla a lavorare poco.
Questo assetto sociale, che produce tanto attraverso le famiglie ma protegge pochi a scapito di molti e spreca talenti scoraggiando la propensione al rischio e alla competizione, ha quindi dei vantaggi ma costa caro, molto caro. Siamo disposti a pagarne il prezzo? Se la risposta è si, allora smettiamo di lamentarci se il reddito degli italiani scende relativamente a quello di altri paesi e accontentiamoci della tranquillità, un po’ mediocre ma rassicurante, del ritorno al passato.
Alberto Alesina  – aalesina@harvard.edu
Andrea Ichino – andrea.ichino@unibo.it

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