BARTEZZAGHI: COME RADERSI A TAVOLA E VIVERE FELICI (NEL MONDO DEI REBUS)

“[…] Almeno un vantaggio dell’essere italiani è sicuro: possiamo godere dei rebus più belli del mondo; lo dobbiamo a una serie di circostanze storiche e di personalità note e meno note […] Fra queste è possibile che venga iscritto Pietro Ichino, grazie a questo libro discreto e ambiziosissimo […]

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Alcuni passaggi tratti dalla
Prefazione di Stefano Bartezzaghi, direttore della collana “Amletica leggera”, al libro L’ora desiata vola – Guida al mondo dei rebus per solutori (ancora) poco abili 

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È lecito pensare che i vantaggi che si possano avere per essere nati italiani siano pochi o sostenere che siano molti. Almeno uno è però sicuro: i madrelingua italiani possono godere dei più bei rebus del mondo. Dobbiamo questa distinzione a una serie di circostanze storiche e di personalità note e meno note: Dante Alighieri, che si ritiene comunemente padre della lingua italiana, è noto; lo è meno Maria Ghezzi, che ha codificato l’illustrazione del rebus e in più di mezzo secolo di attività ha stabilito uno standard qualitativo inarrivabile. Diversi suoi disegni si ammirano in questo e a lei è dedicata l’ultima pagina. Ogni volta che un italiano qualsiasi compone un rebus emula Leonardo da Vinci, perché l’enigmistica è anche una via di comunicazione fra l’alto e il basso della cultura. Fra queste personalità è possibile che venga iscritto Pietro Ichino, grazie a questo libro discreto e ambiziosissimo. Non spiega come inventare rebus o come illustrarli, ma è una guida per entrare nel loro mondo e al momento non ne esistono altre. Se il rebus fosse una religione (e naturalmente non lo è) Ichino non avrebbe fatto teologia ma catechesi.

[…]

Dante Alighieri ha dapprima cercato di dimostrare (in latino) l’eloquenza del volgare italiano, per poi passare direttamente alle vie di fatto e scrivere la sua Commedia. Ha così stabilito il canone di una lingua letteraria, scritta, con un grado di congruenza di entità anomala fra l’inventario dei suoni e quello delle lettere alfabetiche. Inoltre – ma c’è da credere involontariamente – ha indotto all’arte del rebus tutti quei suoi lettori che a leggere di Dante che chiede a Virgilio: “Maestro, che è quel ch’ i’ odo?” (Inferno, III) non hanno potuto far a meno di pensare alla ferramenta.

Se il “chiodo” dantesco era involontario, costruite con intenzione ed esplicitamente per giocare con il linguaggio furono invece le “chiavi” di rebus che Leonardo da Vinci ha annotato in un suo codice. Un amo da pesca e una scala di note musicali sono l’illustrazione della frase “L’amore mi fa sollazzare” (l’amo, re mi fa sol la….). Il rebus infatti stava diventando la versione giocosa delle seriose “imprese” che dalla tradizione cavalleresca si diffusero come forma d’arte minore in epoca rinascimentale e poi manierista e barocca. Al trattatista Giovanni Battista Palatino dobbiamo una delle prime e precise istruzioni su come inventare rebus: “Le figure siano accomodate alle materie distinte et chiare et con mancho lettere che sia possibile. Né si ricerca in esse di necessità molta orthographia, o parlar toscano et ornato, né importa che una medesima figura serva per mezzo o fine d’una parola et principio dell’altra”.

Figura e parola si alternano, nella posologia rebussistica di Palatino. Per farsi un’idea del rapporto che passa tra l’immagine e la lingua verbale bisogna allora rivolgersi al magistero di Sigmund Freud che nei suoi libri sui linguaggi dell’inconscio (il sogno, il lapsus, il gioco di parole umoristico) ha mostrato le deformazioni, le trasformazioni, le “condensazioni” e gli “spostamenti” che possono avvenire tra figure e nomi. Un esempio convincente lo fornisce un attento lettore di Freud, Carlo Emilio Gadda che nel suo proverbiale Pasticciaccio ha fatto sognare al brigadiere Pestalozzi un topazio animato, che diventava un topo, topazzo, topo pazzo. “Il sogno è un indovinello figurato”, stabilì Freud, che aveva in mente certi rompicapi che trovava su un giornale viennese. E proprio a Vienna, quando ancora Freud vi aveva residenza e sede professionale, il giovane ingegnere sassarese Giorgio Sisini trovò l’amore e la passione di tutta la sua vita. Vi era andato su mandato paterno alla ricerca di macchine agricole da importare per ammodernare l’agricoltura della Sardegna, ma lì fece la conoscenza di una contessina che avrebbe presto sposato e di una rivista di cruciverba e altri giochi (fra cui i rebus), di cui avrebbe predisposto un’edizione italiana. Fu così che nel gennaio del 1932 uscì il primo numero della Settimana Enigmistica. Il cruciverba, inventato a New York nel 1913, era arrivato in Europa alla fine del 1924 ed era molto di moda. Con i mezzi di cui disponeva e una mentalità orgogliosamente gelosa delle proprie prerogative Sisini diede alla sua rivista un’autonomia editoriale che le permise di sopravvivere agli stenti dell’economia bellica e che dopo la fine della Guerra mondiale la vide ripartire (dopo qualche mese di pausa) come leader incontrastata del settore. È a quell’epoca che in redazione entrò il modenese Giancarlo Brighenti, il quale si appassionò immensamente al rebus e ne intuì i possibili sviluppi. All’epoca le illustrazioni dei rebus erano perlopiù vasti quadri non molto eleganti da cui ricavare con laboriosità certosina frasi prolisse di argomento morale. Brighenti invece stimolò gli autori (fra i quali egli stesso primeggiava) a cercare chiavi originali e produrre frasi sintetiche e ben formate. Dotato di innato senso estetico, conobbe, Maria Ghezzi, una giovane artista dotata di uno squisito tratto figurativo, e la esortò a specializzarsi nella realizzazione grafica dei rebus, con risultati invero superbi per quantità e qualità. La Settimana Enigmistica divenne così, tra le altre cose, una palestra ineguagliata per generazioni di autori di rebus. Da ragazzino io stesso fui cooptato in una sorta di comitato per giudicare i migliori rebus di diverse annate, fra il 1974 e il 1982, e considero le riunioni a casa Brighenti Ghezzi (i due fecero poi coppia anche nella vita) come l’equivalente di un dottorato di ricerca in linguistica applicata. Il punto, in quelle riunioni, spesso era trovare l’idea realizzativa più convincente per valorizzare un rebus. Prendiamo quello che dà titolo a questo libro: “L’ora desiata vola”. La chiave (“LO radesi a tavola”) impone di raffigurare qualcuno che si fa la barba in sala da pranzo, scena abbastanza assurda: si tratta di riuscire a disegnarla come se assurda non fosse, con i tocchi di naturalezza dati dal rasoio elettrico, il dopobarba che campeggia dove sarebbe più congrua un’oliera e lo specchietto portatile appoggiato tra i coperti apparecchiati. La mano di Maria Ghezzi riesce a far sembrare accadimenti ordinari i re che arano, le are (altari) in mezzo a un prato, le pie che orano dove è chino magari un avo, dei pazzi che ogni giorno feriscono degli ibis, lasciando però in pace degli gnu.

Il rebus è il più incantevole degli enigmi per diversi motivi, il principale del quale è fare del misterioso rapporto che corre tra le parole e le figure un meccanismo di gioco che congiunge esattezza e fantasia. È un’arte che ne implica tre: l’arte della composizione, l’arte dell’illustrazione e infine l’arte della soluzione. Le prime due sono specialistiche: altamente la prima, supremamente la seconda. L’arte della soluzione è invece alla portata di qualsiasi parlante che ami della lingua italiana e non ne abbia una concezione (erronea) di arnese al mero servizio del pensiero.

 

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Per chi non ne sa nulla, un rebus è paragonabile a una montagna vista da qualcuno che non conosce né sospetta l’esistenza dei sentieri. Ogni montagna ha però i suoi, così come ogni rebus ha le sue vie d’accesso. In questo libro discorsivo e limpido, Ichino mostra il modo in cui i sentieri sono fatti, il tipo di appigli da ricercare, l’attrezzatura necessaria: ogni rebus poi farà storia a sé per chi si avventurerà ad affrontarlo e sormontarne le rupi.

Ichino ha anche il merito di non essere un enigmista in servizio permanente effettivo e questo è un grande vantaggio per il lettore, poiché all’autore non potranno sfuggire tecnicismi da accademia. Nella vita essendo inoltre professore, avvocato, politico e pubblicista ha un’attitudine a spiegare cose difficili, di quelle che spesso meritano sia loro esteso il nome di “rebus”. Quindi capisce bene le difficoltà di chi ha sempre visto i rebus (quelli enigmistici, dico ora) con eccessiva riverenza.

Con la sua guida vedrete come si producono le trasformazioni necessarie a risolvere un rebus. Le figure devono diventare parole, le parole scomporsi in lettere, le lettere conteggiate in numeri, i numeri votlarsi di nuovo in sillabe, quindi parole, quindi frasi di senso compiuto. Succede così che dal radersi a tavola si passa a veder volare ore desiate: la grazia di una simile alchimia mostrerà che dire di qualcosa “è un rebus” non deve significare che è incomprensibile, ma che è affascinante.

Spinoso rompicapo che se mediti molto potrai risolvere

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