A CHE COSA DOVREBBE SERVIRE IL 25 APRILE – 2

Risposta alle reazioni sdegnate, e in alcuni casi violente, suscitate dal mio invito a una riflessione sulle responsabilità (anche) delle forze antifasciste nell’avvento del regime mussoliniano: davvero discutere pacatamente sulle radici della catastrofe è un insulto alla Resistenza?

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Editoriale del giorno dopo, 26 aprile 2021, a seguito dell’acceso dibattito suscitato da quello della Festa della Liberazione, A che cosa dovrebbe servire il 25 aprile – A questo articolo nessuno dei miei numerosi contestatori ha saputo replicare: non una parola (forse è per questo che essi invocano qualcuno che la parola la tolga a me?)
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Il mio editoriale di ieri, sulla necessità che la Festa della Liberazione sia anche l’occasione per una riflessione approfondita sulle radici della dittatura, ha suscitato un gran numero di reazioni di rifiuto sdegnato, in alcuni casi anche violento (un esempio nell’immagine qui a sinistra). Come se io avessi messo in dubbio che in questa ricorrenza importantissima si debbano ricordare con immensa gratitudine tutti coloro che per liberare il Paese dal nazi-fascismo hanno sacrificato la vita. Ovviamente non sostenevo questo, bensì soltanto che celebrarla bene implica anche coglierne l’occasione per riflettere sul tema cruciale delle cause della catastrofe del fascismo e della guerra.

Se chiarirsi le idee sulle radici del male è necessario, dobbiamo riflettere sul fatto che nel quinquennio 1919-1924 l’Italia non si è trovata a scegliere tra un regime liberal-democratico e una dittatura: le alternative maggiori, in quegli anni, erano costituite da due movimenti politici ispirati entrambi a una drastica svalutazione del regime liberal-democratico.

Georg Wilhelm Friedric Hegel

Erano le due versioni, di sinistra e di destra, dell’idea hegeliana della violenza rivoluzionaria come levatrice della storia, che giustifica sé stessa per il solo fatto di essere vincente:  a sinistra erano tutti convinti che anche da noi dovesse accadere ciò che era appena accaduto in Russia e stava già allora evolvendo in senso totalitario; da destra si rispondeva nella forma del fascismo liberticida, dotato del braccio armato dello squadrismo assassino.

Pochi sono consapevoli del fatto che a sinistra, in quegli anni, non erano solo i comunisti – staccatisi nel ’21 dai socialisti – ad assumere come modello la rivoluzione bolscevica, ma anche una larga maggioranza dei socialisti stessi. Questo contribuì a indebolire gravemente l’opposizione alla violenza e all’illegalità praticate dal movimento fascista: perché era anche la componente maggiore di quell’opposizione, il Partito socialista, a teorizzare una dittatura, ancorché intestata al proletariato, e l’inevitabilità della violenza rivoluzionaria (ancorché qui non ancora concretamente praticata, se non in pochi casi marginali e isolati). Non si può chiudere gli occhi sul fatto che in quegli anni la prospettiva del mantenimento di un regime liberal-democratico era svalutata da entrambi i movimenti maggiori come una mistificazione; era quindi schiacciata tra le due alternative maggiori. Il che spiega il comportamento da pesce in barile, sfociato alla fine in una sostanziale condiscendenza verso il Mussolini trionfante, che in quegli anni venne tenuto, tra i liberali, anche da figure di grande prestigio come Giovanni Giolitti e Benedetto Croce.

I socialisti in seguito avrebbero corretto per primi questo loro grave errore; i comunisti, invece, vent’anni dopo avrebbero partecipato alla Resistenza perseguendo ancora come modello di Stato e di società quello stalinista. Il 25 aprile dei Paesi europei non protetti dall’ombrello atlantico non è stato un passaggio dalla dittatura alla libertà, ma il passaggio dalla dittatura di destra a una dittatura di sinistra: basti pensare alla vicenda tragica dell’eroe della Resistenza polacca Witold Pilecky. Il Pci ebbe poi il merito di convertirsi alla democrazia e di promuovere la stessa conversione nell’intero movimento operaio italiano; ma se nel 1945 l’Italia si fosse trovata dall’altra parte del confine tracciato dagli accordi di Yalta, la fine della dittatura fascista avrebbe probabilmente coinciso anche per noi con l’inizio di un regime stalinista. Perché mai di questo nella Festa della Liberazione non si dovrebbe discutere? Non è forse questo rifiuto sdegnato di parlarne un omaggio postumo alla grande abilità politica e culturale con cui il Pci in quegli anni riuscì a mettere in ombra i propri legami con il regime sovietico prima ancora che essi venissero definitivamente recisi?

Se non mettiamo a fuoco i termini della contrapposizione politica e ideale che caratterizzò lo scontro politico in Italia nel 1919-24, quindi l’insieme delle cause dell’avvento del regime mussoliniano, non possiamo neanche capire fino in fondo la stagione che ci ha donato la libertà, né trarre da quella storia gli insegnamenti necessari per impedire che qualche cosa di quel genere si ripeta. Con danni non trascurabili: basti pensare alla tendenza della sinistra e dei liberal-democratici a dividersi in fazioni che si guardano in cagnesco; oppure alla reazione rabbiosa, tanto violenta quanto vacua, scatenata da queste mie riflessioni in una parte della sinistra.

L’invito che rivolgo a tutti è a una discussione pacata, non faziosa, e soprattutto bene informata. A chi vi è interessato raccomando, come primo passo, il libro M – Il figlio del secolo, di Antonio Scurati (Giunti, 2020).

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