Il messaggio di liberazione lanciato da scuole come quella di Barbiana ieri e oggi questa animata dai volontari di Soddo, 300 chilometri a sud di Addis Abeba
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È il mio contributo a un libro in corso di pubblicazione per i tipi di Giunti, dedicato all’iniziativa della Onlus Busajo in Etiopia – In argomento v. anche Una Barbiana fatta università
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Prima di dare vita al nuovo grande campus costruito su un terreno
ricevuto in concessione dal governo etiopico,
l’associazione Busajo ha operato per anni presso la struttura Smiling Children Town:
qui sono girate le immagini di questo video,
mentre sul sito www.busajo.org si trovano informazioni e immagini
sulle molteplici attvità nate insieme al campus
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Mi scorrono davanti agli occhi le immagini dei bambini e dei ragazzi nel campus di Busajo. I loro volti concentrati e i loro sorrisi pieni di luce mi riportano alla mente un ricordo ancora vivissimo.
Ero un ragazzino come loro quando una domenica i genitori mi portarono per la prima volta a Barbiana, da don Lorenzo Milani. Anche quel giorno i miei coetanei allievi del Priore facevano lezione, studiavano, coglievano l’occasione per succhiare conoscenze sul mondo circostante anche da visitatori occasionali come noi. Un impegno che non avevo visto in nessuno dei miei compagni di scuola prima di allora; una fame di sapere che mi colpì profondamente. Erano consapevoli che quell’impegno avrebbe significato per loro un lavoro diverso da quello dei loro padri, chini nei campi e nelle stalle. Ecco: i sorrisi dei bambini di Busajo Campus sono gli stessi dei ragazzi di Barbiana: sono quelli di chi sta ricevendo il dono dell’istruzione, promessa di un lavoro che darà loro forza e dignità. Il dono di un futuro di libertà.
Le immagini delle due scuole, quella di allora sui monti del Mugello come quella sull’altipiano etiopico, illustrano uno dei due significati della parola “lavoro”. Questo è un singolare caso di omonimia: la stessa parola indica due condizioni umane non soltanto diversissime tra loro, ma che sono addirittura l’una il contrario dell’altra. Una cosa è il lavoro che – coerente con l’origine etimologica del termine: labor – si concretizza soltanto in fatica, travaglio e sofferenza: è il caso del lavoro alienato della persona ridotta a strumento, come lo schiavo, o l’operaio dopo la prima rivoluzione industriale, oppure addirittura la persona che per mezzo del lavoro massacrante viene uccisa, come accadde nei Lager nazisti. Una cosa diametralmente opposta è il lavoro come espressione della creatività umana, come strumento di attiva costruzione del presente e del futuro, quello nel quale la persona realizza se stessa e la propria dignità e libertà.
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Il contrasto tra queste due accezioni opposte della nozione di lavoro è al centro della vita e dell’opera di Primo Levi, che ha vissuto l’orrore dell’Arbeit come strumento di morte e ha trovato la forza per raccontarlo come pochi altri hanno saputo fare, per poi scrivere pagine altrettanto intense e profonde sul lavoro che non solo salva la persona umana, ma ha la virtù di darle la felicità. L’avere conosciuto direttamente entrambi questi tipi di lavoro consente a Primo Levi di far emergere l’essenza di ciascuno. Il primo è il lavoro che non soltanto affatica mortalmente – questo è talvolta proprio anche del secondo – ma è inflitto per affermare l’inferiorità della persona che lo svolge, ridurla al rango di bestia:
Gli ignobili avversari del regime non sono degni di lavorare nel senso usuale del termine. Il loro lavoro dev’essere afflittivo: non deve lasciare spazio alla professionalità, dev’essere quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la schiena sulla terra. Violenza inutile anche questa: utile forse solo a stroncare le resistenze attuali ed a punire le resistenze passate. […] Tormento del corpo e dello spirito, mitico e dantesco […].
(I sommersi e i salvati, p. 1086 [1]).
In Se questo è un uomo (p. 61), Levi osserva che, quando questa è la natura del lavoro, anche il sorvegliante più benevolo tratta il lavoratore come una bestia:
I Kapos […] ci percuotono per pura bestialità e violenza, ma ve ne sono altri che ci percuotono quando siamo sotto il carico quasi amorevolmente, accompagnando le percosse con esortazioni e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi cavalli volenterosi.
Nulla di nuovo sotto il sole. Nel gelo di Auschwitz accade qualche cosa di simile a quanto è descritto nel libro dell’Esodo (I, 11-14, 5, 6-9):
Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Rames. […] Gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente. Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza. […] In quel giorno il faraone ordinò ai sorveglianti del popolo e ai suoi scribi: “[…] Pesi dunque il lavoro su questi uomini”.
Primo Levi osserva che per conseguire lo scopo di degradare la persona, di disumanizzarla, il lavoro-castigo “non deve lasciare spazio alla professionalità”. Deve essere pura fatica. Perché appena si crea qualche spazio nel quale possa manifestarsi un “saper fare” o addirittura un pensiero progettuale, anche il lavoro del deportato e persino quello del condannato allo sterminio assume in qualche modo il carattere opposto, quello del lavoro nel quale la persona si esprime e, come fu per lui stesso, in qualche caso si salva. Leggiamo ancora ne I sommersi e i salvati (p. 1087):
A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che ho appena descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una difesa. Lo era per i pochi che in Lager riuscivano a essere inseriti nel loro proprio mestiere: sarti, ciabattini, falegnami, fabbri, muratori; questi, ritrovando la loro attività consueta, recuperavano in pari tempo, in certa misura, la loro dignità umana. […] Ho notato spesso su alcuni miei compagni (qualche volta anche su me stesso) un fenomeno curioso: l’ambizione del “lavoro ben fatto” è talmente radicata da spingere a “far bene” anche lavori nemici, nocivi ai tuoi e alla tua parte, tanto che occorre uno sforzo consapevole per farli invece “male”.
Qui Primo Levi passa sull’altro versante dell’omonimia: il lavoro di cui parla in questa pagina è quello nel quale la persona umana si realizza arrivando addirittura ad attingervi la felicità. È quello di cui scrive, in un altro libro, che
Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.
La citazione, famosissima, è tratta da La chiave a stella (p. 1015): un libro che al lavoro in questa sua accezione diversissima dalla precedente è interamente dedicato. La chiave a stella è un vero e proprio inno al lavoro inteso come l’attività attraverso la quale la persona entra in contatto con il senso della propria esistenza, non soltanto perché in esso esprime tutta la propria intelligenza e creatività, ma anche perché con esso si pone al servizio dell’umanità di cui si sente parte. In questo, il lavoro del chimico-scrittore Levi è perfettamente equiparato a quello dell’impiantista Faussone, il quale ne trae l’intenso piacere del vedere crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella, e non importa poi tanto se sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso “forse un altro non ci sarebbe riuscito” (p. 989).
Questo piacere prescinde totalmente dalla circostanza che il frutto del lavoro appartenga a chi lo ha compiuto o entri immediatamente nella disponibilità di un utilizzatore o beneficiario. Lo sguardo di Faussone sulla propria creatura è lo stesso del protagonista del Ponte sul fiume Qwai, citato da Levi in questa stessa pagina: il colonnello inglese prigioniero dei giapponesi che ha diretto i suoi compagni di prigionia nella costruzione di un ponte ferroviario in legno di squisita fattura e che, quando scopre i guastatori suoi connazionali che intendono distruggerlo, cerca di opporvisi per amore della propria opera.
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La migliore approssimazione alla felicità su questa terra – ci avverte dunque Primo Levi – sta nell’amare il proprio lavoro, che sia lavoro intellettuale o manuale, anche il più umile; il lavoro del libero professionista o quello del dipendente. Qui – forse inavvertitamente, perché non ha una formazione giuridica, ma forse invece consapevolmente – l’autore della Chiave a stella arricchisce di significato un precetto che compare già nella cultura della Roma antica: quello per il quale ogni obbligazione, e quella di lavoro più di ogni altra, deve essere adempiuta, oltre che con la diligenza tecnica richiesta dalla natura della prestazione, anche con la diligenza del bonus pater familias. Il significato di questo precetto, sul piano esistenziale prima ancora che su quello giuridico, è diffusamente ignorato nella cultura del lavoro di oggi.
La parola “diligenza” deriva dal verbo diligere, che significa amare. Affermare che ogni lavoro deve essere svolto con la diligenza del buon padre di famiglia ha dunque un contenuto pratico molto impegnativo: significa che chi lo svolge ha il dovere giuridico di farlo per la persona beneficiaria della prestazione, chiunque essa sia, nello stesso spirito e con lo stesso amore con cui un genitore lo farebbe per l’altro coniuge o per un proprio figlio. E – si osservi la raffinatezza del diritto romano fin dalle sue origini più antiche – non con l’amore di un genitore qualsiasi, che potrebbe essere un po’ sciatto o anaffettivo, ma con l’amore di un buon genitore!
Già questo è un precetto che, se venisse diffusamente rispettato, rivoluzionerebbe molti ambienti di lavoro e molti servizi. Ma Primo Levi ci invita ad arricchire ulteriormente di significato il canone della diligenza. Se vuoi che il tuo lavoro non soltanto adempia il tuo obbligo, ma anche ti avvicini il più possibile alla felicità – ci avverte – la diligenza con cui devi svolgerlo non è soltanto amore per la persona che ne è beneficiaria, ma è anche amore per il lavoro stesso che stai svolgendo.
Un amore che richiede al tempo stesso la capacità di non idolatrarlo, quel lavoro, di destinargli il tempo giusto, che nella cultura ebraica si esprime nel rispetto del riposo sabbatico, quando bisogna porsi in ascolto silenzioso e riflettere sul senso della propria vita.
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Forse non tutti sanno che nel secolo ventunesimo il lavoro inteso nella prima accezione che abbiamo qui considerato è drasticamente vietato, a ogni longitudine e latitudine, dall’ordinamento dell’ONU. Non mi riferisco tanto al divieto della riduzione della persona umana in schiavitù, quanto al principio fondamentale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, organo appunto delle Nazioni Unite, che dal 1998 vieta in modo assoluto “qualsiasi forma di lavoro forzato od obbligatorio” (forced or compulsory), anche come pena applicabile a persone detenute: anche in carcere il lavoro può e deve essere solo quello che ridà alla persona speranza e buona coscienza di sé, del proprio valore. C’è poi una norma dell’ordinamento europeo che vieta inderogabilmente non soltanto il lavoro che richiede sforzi dannosi per la salute di chi lo compie, ma anche quello che abbia soltanto tratti di monotonia e ripetitività incompatibili con il benessere psicofisico di chi vi è addetto. Insomma, oggi in Europa il lavoro cui è adibito Charlot alla catena di montaggio in Tempi moderni sarebbe vietato. Così come è sicuramente contrario al diritto oggi vigente il modo in cui troppo spesso nelle campagne del nostro Mezzogiorno vengono fatti lavorare gli immigrati, condannati a un lavoro forzato, alla mercé dei loro sfruttatori, proprio in conseguenza del fatto che lo Stato nega loro il permesso di accedere al lavoro regolare.
Al contrario, secondo il diritto europeo e quindi anche il nostro ordinamento nazionale, tutto nell’azienda – dalla strumentazione all’organizzazione del lavoro – deve essere ergonomicamente concepito in funzione del benessere psicofisico di chi vi è addetto. Ciò che, a ben vedere, può essere letto come un corollario del principio della diligenza del bonus pater familias, applicabile anche all’adempimento dell’obbligazione contrattuale dell’imprenditore nei confronti del dipendente: l’obbligo giuridico per l’imprenditore di creare nell’azienda le condizioni perché ogni persona che vi è inserita, dalla prima all’ultima, possa amare il proprio lavoro.
Detto questo, però, è ancora Primo Levi ne La chiave a stella (p. 1016) ad avvertirci che l’amore per il proprio lavoro dipende dalle circostanze esterne assai meno che da quanto alberga nell’animo della persona interessata:
Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena; ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.
Il riferimento di Levi alla “storia dell’individuo” chiude il cerchio della riflessione che ha preso le mosse dai sorrisi dei ragazzi nel Campus di Soddo.
Il programma in cui sono coinvolti è tanto felice ed efficace proprio perché pone al centro la storia di ognuno, come singolo individuo, tendendogli la mano quando è abbandonato alla miseria e alla dipendenza – sia essa da altri esseri umani o da sostanze assunte per tollerare la solitudine –, fornendogli non solo l’accesso all’istruzione ma anche tutto il sostegno necessario per perseverare lungo il faticoso cammino della scuola e per apprendere poi un lavoro vero e proprio. Nel Campus ciascuno è considerato come un seme da proteggere e nutrire fino a che potrà dare i suoi frutti, tornando nella famiglia o nel villaggio di origine e condividendo le competenze e le buone pratiche apprese.
Busajo Onlus destina ogni goccia delle sue energie alla coltivazione di quei “semi”, ed è a sua volta fondata sul lavoro di chi le dedica la vita e di chi grazie a essa può costruire una vita migliore. Proprio ora che la pandemia – anziché farci sentire tutti affratellati dalla sorte – ha reso tanti di noi ancor più concentrati su se stessi e preoccupati del proprio orticello, Busajo è essa stessa un vero seme di speranza nella possibilità di cambiare le sorti del mondo.
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[1] Tutte le citazioni dalle opere di Primo Levi sono estratte dalle sue Opere, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi 1997.