L’evoluzione tecnologica non è affatto nemica del lavoro umano e neanche dei livelli di occupazione; ma occorre saper scommettere sull’innovazione, supportare la transizione dal vecchio lavoro al nuovo e, al livello delle singole persone, conoscere i meccanismi del mercato del lavoro per poterli utilizzare a proprio vantaggio
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Intervista a cura di Enrico Pedretti pubblicata sul numero di maggio 2021 di Manageritalia – In argomento v. anche la mia intervista a Firstonline per la Festa del Lavoro, 1° maggio 2021, e l’articolo di Dario Di Vico pubblicato sul Corriere della Sera il 13 aprile 2021, Le previsioni sbagliate sul lavoro
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Professor Ichino, ai grandi cambiamenti che hanno inciso sul mondo del lavoro nell’ultimo decennio lei ha dedicato l’ultimo suo libro, L’intelligenza del lavoro (Rizzoli). Quali sono questi cambiamenti, a livello globale e in Italia?
Forse il più vistoso è questo: l’evoluzione tecnologica sta progressivamente erodendo l’utilità pratica dei criteri tradizionali di distinzione tra lavoro subordinato e autonomo. Di più: sta progressivamente togliendo attualità alla distinzione stessa.
A che cosa si riferisce più precisamente?
Mi riferisco al fatto che i progressi dell’informatica e della telematica consentono di realizzare per mezzo del pc e del web quell’“inserimento” della prestazione lavorativa che nel secolo scorso doveva essere perseguito per mezzo del coordinamento spazio-temporale, cioè mediante il vincolo di svolgimento del lavoro dentro il perimetro aziendale ed entro un orario determinato. Due forme nuove di organizzazione del lavoro mostrano il superamento dei vecchi criteri: il cosiddetto “lavoro agile” e il lavoro organizzato per mezzo della piattaforma digitale, quello dei rider per intenderci.
Il telelavoro, però, esisteva già quarant’anni fa.
Il lavoro agile, o smart working, ha pochissimo a che fare con il telelavoro che incominciò a essere sperimentato negli anni ’80. Quello richiedeva che l’impresa datrice di lavoro predisponesse presso l’abitazione della persona interessata una postazione di lavoro vera e propria, con tanto di tavolo e sedile, tastiera e video, collegata via cavo con l’azienda: il lavoro doveva essere svolto lì e non altrove; ed era assoggettato al vincolo d’orario né più né meno che il lavoro svolto dentro il perimetro aziendale.
Anche i pony express erano già comparsi negli anni ’80.
È vero. Però il platform work governato dall’algoritmo è un fenomeno nuovo e diverso, che ha incominciato a svilupparsi in modo rilevante soltanto nell’ultimo quinquennio: basti pensare che negli anni in cui sono maturate le due riforme del lavoro del 2012 e del 2015 era un fenomeno quasi sconosciuto.
Come incidono le nuove tecnologie sulla struttura della prestazione di lavoro?
Esse consentono il suo inserimento nell’organizzazione aziendale senza necessità che il lavoro si svolga dentro il perimetro dell’azienda e – nel caso dello smart working – con un vincolo d’orario. La quantità della prestazione, dunque, non può più essere misurata in ragione della sua durata temporale, bensì soltanto in ragione del risultato. Lo svincolo dal coordinamento spazio-temporale e la responsabilizzazione del prestatore per il risultato determinano una sostanziale assimilazione morfologica del lavoro dipendente al lavoro autonomo. Dopodiché, possiamo anche continuare a dire che A è inquadrato come dipendente e B come autonomo anche quando la struttura della prestazione nei due casi è sostanzialmente la stessa.
Come regolare un rapporto di lavoro subordinato che esce dai luoghi tipici – fabbriche e uffici – e si presenta sempre più simile nella struttura a quello autonomo?
Sono convinto che questa evoluzione della realtà del lavoro richieda una evoluzione del diritto del lavoro, delle tecniche normative. È la distinzione stessa tra lavoro subordinato e autonomo che mostra sempre di più la corda. Essa deve probabilmente essere sostituita dalla distinzione tra lavoro economicamente indipendente, caratterizzato dalla occasionalità e/o dalla pluricommittenza, e lavoro economicamente dipendente, caratterizzato da una durevole monocommittenza.
Si possono sviluppare modelli di smart working equilibrati nei diritti e negli obiettivi di produttività, applicabili in modo più generalizzato?
Certo che sì. Stando attenti, però, a evitare di mettere del piombo nelle ali del lavoro agile, con disposizioni che lo snaturerebbero.
Per esempio?
Per esempio, con la pretesa di stabilire al livello nazionale la “quota” di dipendenti che hanno un “diritto allo smart working”, come sembra che si voglia fare nel settore pubblico. Questa forma di organizzazione del lavoro deve nascere dal libero incontro di volontà tra datore e prestatore di lavoro, con una pattuizione su misura, che tenga conto con molta precisione dei tutti gli interessi in gioco, personali e aziendali. La regolazione delle materie critiche – quali gli obblighi di reperibilità, la ripartizione dei costi di connessione, le modalità di determinazione dei carichi di lavoro – deve consistere principalmente in una disciplina di default, cioè non inderogabile: applicabile solo se datore e prestatore non si accordano diversamente.
Cosa fare per evitare il rischio di una concorrenza tra intelligenza umana e intelligenza artificiale?
Non è un rischio: è una realtà con cui occorre fare i conti. Recentemente, però, l’Economist confermava in riferimento ai dati più recenti quello che già gli economisti del lavoro seri dicono da tempo: cioè che il progresso tecnologico non ha mai prodotto, sulla media e lunga distanza una riduzione complessiva delle occasioni di lavoro umano. Fa sparire vecchi mestieri, certo, ma ne fa anche nascere molti nuovi. Per esempio, il robot che sta sostituendo i neurochirurghi nelle operazioni intracraniche sta rendendo un servizio medico d’eccellenza disponibile non più soltanto in pochi centri specializzati, ma anche in moltissimi altri periferici; e ha pur sempre bisogno di un chirurgo alla consolle. E ogni nuovo ospedale periferico dove si incomincia a eseguire l’intervento con il robot richiede nuovi posti-letto, nuovi medici, nuovi infermieri, col risultato di un aumento complessivo del benessere e al tempo stesso dell’occupazione, non certo di una riduzione.
I principi dei ccnl dei dirigenti, in particolare quello di Manageritalia per i dirigenti del terziario, potrebbero rappresentare un punto di partenza per regolare il lavoro senza vincoli d’orario, legato a ruolo e obiettivi?
È proprio così. E non per caso: quello dirigenziale è un rapporto di lavoro che, proprio come lo smart working e il platform work, si colloca in una zona di confine rispetto alla summa divisio tradizionale tra lavoro subordinato e autonomo. Dunque è proprio dalle tecniche normative sperimentate dalla contrattazione collettiva in questo settore che si possono trarre spunti ed esperienze utilissime cui ispirarsi per la disciplina delle nuove forme di organizzazione del lavoro.
Per tornare al suo libro L’intelligenza del lavoro, anche i sindacati di operai e impiegati possono promuovere oppure ostacolare cambiamenti organizzativi. Quale evoluzione prevede e che cosa propone al sindacato oggi?
Nel libro sostengo che il sindacato nell’impresa deve essere l’intelligenza collettiva dei lavoratori, capace di valutare il piano industriale, le innovazioni in esso contenute, e, in caso di valutazione positiva, guidare i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore. Che può implicare anche accollarsi un rischio ben calcolato per quel che riguarda la fatica e il ritorno dell’innovazione: per esempio con la contrattazione di una rilevante parte della retribuzione variabile in relazione ai risultati. Ma proprio questo modello di condivisione da parte dei lavoratori della fatica e del rischio dell’innovazione implica anche un corrispondente aumento e intensificazione delle pratiche di partecipazione dei lavoratori nell’impresa: in termini di accesso tempestiva all’informazione e/o alle sedi decisionali.
I manager hanno un ruolo fondamentale nei cambiamenti organizzativi; come possono agire concretamente per promuovere nuovi modelli equilibrati e competitivi?
In un certo senso il rapporto dei dirigenti con l’impresa, quando è impostato bene, prefigura il rapporto che può e deve instaurarsi con l’impresa da parte del collettivo degli altri dipendenti, in un contesto di relazioni industriali più maturo. In questo senso i dirigenti possono svolgere un ruolo di grande importanza per favorire l’evoluzione del sistema delle relazioni industriali in azienda verso il modello di cui abbiamo appena parlato.
La gestione del Covid-19 ha sollevato tanti nuovi dilemmi con impatto concreto sul lavoro. Tra questi l’obbligatorietà del vaccino. Quale evoluzione prevede?
Sono convinto che già oggi l’articolo 2084 del codice civile legittimi l’imprenditore a richiedere ai propri dipendenti la vaccinazione anti-Covid, dove essa sia necessaria per azzerare il rischio di contagio in azienda. D’altra parte, sia il nostro Governo, sia il Parlamento Europeo si stanno apprestando, molto opportunamente, a varare una sorta di certificato vaccinale, indispensabile per ripristinare la libertà di circolazione e per rilanciare il turismo; se dunque sarà conoscibile il grado di immunità al virus delle persone che intendono viaggiare, perché lo stesso dato non dovrebbe essere conoscibile dall’imprenditore per consentirgli di adempiere il proprio dovere di sicurezza nei confronti di dipendenti e terzi?
Il sottotitolo del suo libro recita “quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore”. Come è pensabile che questa utopia si realizzi?
Già oggi per una metà circa delle persone che vivono del proprio lavoro il mercato è un luogo di cui esse conoscono i meccanismi e sanno sfruttarli abbastanza per essere anche loro a scegliere l’impresa per cui lavorare. Ma l’articolo 4 della Costituzione dice che questa possibilità deve essere data anche all’altra metà. E, come mi sono proposto di mostrare nel primo capitolo del libro, non è affatto un’utopia. Per realizzare qualche cosa che si avvicini a questo sogno sto lavorando molto intensamente con Afol, l’Agenzia per il Lavoro e la Formazione della Città metropolitana di Milano.
Può darci una anticipazione del progetto a cui state lavorando?
Abbiamo già digitalizzato i servizi burocratici dei Centri per l’Impiego mediante un’applicazione che è entrata in funzione proprio in questi giorni, con l’obiettivo di eliminare le code e soprattutto di liberare le risorse umane per dar vita a quello che chiamiamo lo Hub-Lavoro: un open space nel centro di Milano, cui dovranno seguire a ruota altri simili in ciascuno dei comuni maggiori dell’area metropolitana, che svolga anche nella nostra città la funzione che nelle città maggiori del centro e nord-Europa svolgono i cosiddetti OneStopShop: un centro direttamente accessibile dalla strada, aperto dalle 9 alle 21, ma replicato online in ogni sua parte e funzione con un sito web interattivo, dove chiunque, giovane o adulto/a, trovi il cosiddetto “primo anello della catena” dei servizi al mercato del lavoro, in modo che a ogni persona, a tutti i livelli, siano resi facilmente accessibili i servizi indispensabili di orientamento, di informazione su tutte le opportunità esistenti, di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Perché anche oggi, nella fase più grave della crisi, si assiste al paradosso delle imprese che cercano lavoratori e non li trovano.
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