OCCUPATI FINTI E DISOCCUPATI VERI

Il cambio di definizione delle due nozioni ai fini statistici rende i dati disponibili circa la perdita di occupazione molto più crudi, smascherando la finzione prodotta dal blocco dei licenziamenti

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Bollettino n. 95 di
Mercato del Lavoro News, organo della Fondazione Kuliscioff, a cura di Claudio Negro, 9 aprile 2021 – In argomento, oltre all’articolo di Andrea Garnero linkato nel testo, v. anche il n. 87 dello stesso Bollettino, I “benefici” del blocco dei licenziamenti .
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I nuovi criteri statistici emessi dall’UE ai quali da questo mese l’ISTAT si attiene per elaborare i dati periodici sul mercato del lavoro riguardano essenzialmente i lavoratori sospesi dall’attività ma in costanza di rapporto di lavoro (per i dipendenti) e che abbiano sospeso l’attività solo temporaneamente (per gli autonomi), che finora erano considerati “occupati”. La nuova metodologia prevede invece che venga considerato non occupato (prevalentemente classificato come “inattivo”) il dipendente che sia in una qualche forma di sospensione temporanea del lavoro (Cassa Integrazione o equivalenti) da oltre tre mesi, e l’autonomo che non abbia svolto attività per il medesimo periodo. Come ben sottolineato dai quotidiani e da molti commentatori l’effetto più clamoroso di questa novità è l’impressionante aumento della categoria dei “non occupati”, e quindi per il comune sentire della disoccupazione.

In effetti il dato del 6 aprile, riferito al mese di febbraio mostra 945.000 occupati in meno rispetto a febbraio 2020 (ultimo mese prima della pandemia), mentre con i vecchi criteri l’ultimo dato (gennaio su febbraio 2020) eravamo poco sopra i 420.000. Il recente dato di meno 945.000 coincide quasi con la stima che abbiamo fatto nelle nostre ultime pubblicazioni di circa 1 milione di posti di lavoro perduti, che – prevedevamo – si manifesteranno quando verrà meno il divieto di licenziamenti individuali economici. La novità è stata male accolta dai sindacati, ma purtroppo non fa altro che dimostrare quanto il divieto di licenziamento fortemente richiesto (e ottenuto) non fosse che un’illusione statistica, nella migliore delle ipotesi finalizzata a moderare il panico.

Un altro dato che fa giustizia di un’illusione generata dalla statistica è quello relativo all’aumento, quanto meno percentuale, dei contratti a tempo indeterminato, che non sono mai stati reali (anche se a qualcuno piaceva attribuirli all’effetto del “Decreto Dignità”) ma determinati dal divieto di licenziamento: rispetto agli oltre 100.000 dipendenti “stabili” in più segnalati negli ultimi 12 mesi del 2020 vediamo che in realtà si tratta di 218.000 in meno. Per ovvie ragioni l’unico dato che resta stabile è quello relativo alla diminuzione degli occupati a termine (circa 370.000) poiché il contratto a termine ha vita definita, e pertanto non ha “scudo” contro la cessazione. Naturalmente tutto ciò obbliga a riconsiderare in negativo tutta una serie di indicatori rispetto alle rilevazioni di fine anno: il tasso di occupazione scende dal 58% al 56,5%, e l’incidenza delle donne sul numero totale dei non occupati scende significativamente; si tratta naturalmente di un puro effetto del nuovo criterio di costruzione della statistica, poiché l’ingresso nella categoria dei non occupati di oltre mezzo milione di uomini finora protetti dallo scudo antilicenziamenti modifica ovviamente le proporzioni.

Andrea Garnero

Tuttavia la cosa pare non piacere ai sindacati i quali lamentano che in questo modo risulta alleggerita nell’immagine pubblica la questione dell’occupazione femminile…

Giustamente il Prof. Garnero, in un lavoro pubblicato su lavoce.info, osserva che sarebbe molto più attendibile utilizzare come indicatore dell’occupazione reale il monte ore lavorato: tuttavia in quest’ultima rilevazione l’ISTAT non lo pubblica.

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