Nei luoghi di lavoro dove non è possibile azzerare altrimenti il rischio del contagio, l’articolo 2087 del codice civile attribuisce al datore il potere e il dovere di adottare tutte le misure indicate dalla scienza e dall’esperienza atte ad assicurare il massimo di sicurezza ai dipendenti e a chiunque debba con essi entrare in contatto
.
Intervista a cura di Alessandra Ricciardi, pubblicata su Italia Oggi l’8 aprile 2021 – In argomento v. anche, tra le molte altre interviste e interventi, v. ultimamente il mio editoriale telegrafico del 21 febbraio 2021, Vaccinazioni: anche il sistema delle relazioni industriali faccia la sua parte: ivi il link ad altri interventi e interviste sullo stesso tema .
.
Anche le aziende di settori diversi dalla sanità possono prevedere l’obbligo per i dipendenti di vaccinarsi contro il Covid. A sostenerlo è Pietro Ichino, ordinario di diritto del lavoro dell’Università Statale di Milano, considerato il padre del Jobs Act, ex parlamentare del Pd. Il decreto legge varato dal governo sull’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari non prevede l’estensione ad altri settori, così come non lo prevede il protocollo firmato questa settimana da governo, parti sociali ed Inail, che apre alle vaccinazioni in azienda. Ma questo non osta, dice Ichino, perché “è l’articolo 2087 del codice civile ad attribuire in modo molto esplicito al datore di lavoro la responsabilità di adottare le misure necessarie” per eliminare il rischio di un focolaio di infezione. E la libertà di non sottoporsi a trattamenti sanitari sancita dall’articolo 32 della Costituzione? “La libertà personale sancita dalla Costituzione non può spingersi al punto di mettere a repentaglio la salute di altre persone”, spiega Ichino.
Domanda. Lei professore ha sostenuto, con un certo clamore, la possibilità che i datori di lavoro obblighino i propri dipendenti a vaccinarsi contro il Covid. Il governo l’ha ascoltata: per i sanitari e tutti coloro che lavorano nel settore delle cura alla persona è previsto l’obbligo. Chi rifiuta viene adibito ad altre mansioni e, se questo non è possibile, gli verrà sospeso lo stipendio. Una misura adeguata?
R. Mi sembra una misura perfetta nella sua formulazione e molto equilibrata nell’apparato sanzionatorio che istituisce contro la renitenza ingiustificata.
D. Ma imporre di vaccinarsi, in una stagione in cui sui vaccini contro il Covid c’è molto dibattito circa rischi e controindicazioni, non è una violazione del diritto della persona di scegliere a quale trattamento sanitario sottoporsi?
R. No, perché la libertà personale sancita dalla Costituzione non può spingersi al punto di mettere a repentaglio la salute di altre persone. La legge dice: “libero di non vaccinarti, ma se questa è la tua scelta non puoi lavorare in un ospedale o in una casa di riposo per anziani”.
D. Anche se si registrano dei casi di effetti indesiderati della vaccinazione, soprattutto nel caso del vaccino Astra Zeneca?
R. Le autorità sanitarie competenti, sia al livello sovranazionale, sia a quello nazionale, hanno molto ragionevolmente ritenuto che i rischi connessi all’infezione da Covid-19 siano incommensurabilmente maggiori rispetto ai rischi connessi alla vaccinazione: per stare soltanto ai dati italiani, stiamo parlando di molte centinaia di morti ogni giorno sicuramente causate dal virus, a fronte di due o tre casi di trombosi cerebrale su milioni di vaccinazioni, il cui collegamento causale con il vaccino è soltanto una ipotesi lontanissima dall’essere dimostrata.
D. La sanzione della sospensione dello stipendio è prevista da decreto-legge fino a fine anno, presumendo che entro allora la pandemia sia finita. In caso contrario, se la misura dovesse essere prorogata, avremmo lavoratori a cui è negato di svolgere le proprie mansioni e che restano senza stipendio?
R. Se a fine anno la situazione non si sarà normalizzata, l’ente datore di lavoro sarà plausibilmente abilitato a prorogare la sospensione del dipendente che insista nel rifiutare la vaccinazione.
D. L’obbligo esiste solo per i sanitari. Il protocollo sottoscritto questa settimana dall’Inail prevede che le aziende di altri settori possano vaccinare i propri dipendenti, ma su base volontaria. Perché non c’è l’obbligatorietà?
R. Perché non in tutte le aziende sussiste lo stesso rischio di contagio che tipicamente esiste in un ospedale o casa di riposo per anziani. Per esempio, in una azienda in cui ciascun dipendente opera in una sua stanza e senza contatti con persone terze, la vaccinazione non è una misura indispensabile come invece lo è in un ospedale o in una casa di riposo.
D. Ma dove il pericolo di contagio in azienda ci sia?
R. In quel caso è l’articolo 2087 del codice civile ad attribuire in modo molto esplicito al datore di lavoro la responsabilità di adottare le misure necessarie. Sentito il medico competente, dunque, egli deve adottare tutte le misure consigliate dalla scienza e dall’esperienza per eliminare radicalmente il rischio di un focolaio di infezione. Se il datore adotta questa misura il dipendente, a norma dell’articolo 20 del Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. n. 81 del 2008) è tenuto a ottemperarvi.
D. E la libertà di non sottoporsi a trattamenti sanitari sancita dall’articolo 32 della Costituzione?
R. È lo stesso discorso che abbiamo fatto prima: libero ciascuno di non vaccinarsi, ma non al costo di mettere a rischio la salute di altre persone. Tra l’altro, il datore di lavoro deve farsi carico anche del problema dei propri dipendenti che possono avere un motivo giustificato per non vaccinarsi, come nel caso delle donne in gravidanza o delle persone che soffrono di immunodepressione: quando si appartiene a una comunità, qual è quella aziendale, si è vincolati a un obbligo di solidarietà verso i suoi membri e in particolare verso i più deboli o fragili.
D. I giudici del lavoro sono già stati investiti della questione?
R. Sul punto specifico, a quanto mi risulta, per ora ci sono solo una decisione in via d’urgenza del Tribunale di Udine e una di quello di Belluno, entrambe nel senso della sussistenza dell’obbligo per il personale sanitario, anche prima del decreto-legge che ora lo ha sancito esplicitamente. Entrambe le decisioni sono motivate in riferimento al potere-dovere del datore di lavoro, sancito dall’articolo 2087 del codice civile, cioè da una norma che si applica in tutte le aziende.
D. I contratti di categoria potrebbero prevedere misure più restrittive in quanto ai vaccini?
R. La contrattazione può utilmente intervenire sulla materia, come è già accaduto con i protocolli interconfederali sulla sicurezza; quello che non può fare, però, è esentare il datore di lavoro dalla sua responsabilità verso i dipendenti e gli utenti per la loro sicurezza.
D. Vuol dire che un datore di lavoro domani potrebbe essere tenuto responsabile dei danni derivanti a un dipendente o un utente dei servizi resi dall’azienda per l’infezione trasmessa da un dipendente non vaccinato.
R. Pensiamo al caso di un’impresa di trasporto aereo o ferroviario, oppure di un albergo, o di un ristorante, o di una scuola, dove un dipendente che ha rifiutato di vaccinarsi sia causa di un focolaio epidemico. Se si applicano i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia di prevenzione delle malattie in azienda – si pensi alla giurisprudenza sul mesotelioma causato dalle micro-fibre di amianto – mi sembra molto probabile che in un caso di questo genere, dal momento in cui la vaccinazione è concretamente possibile, il datore di lavoro sia tenuto responsabile del danno causato dal contatto con il dipendente non vaccinato. Basterebbe il riferimento all’articolo 15 del Testo Unico sulla sicurezza, che obbliga il datore di lavoro a non limitarsi alle misure protettive, quando è possibile eliminare alla radice la causa stessa del rischio.
D. Un datore di lavoro potrebbe incentivare i propri dipendenti a vaccinarsi prevedendo dei premi?
R. Dove la vaccinazione costituisca una misura necessaria per la sicurezza in azienda, e il datore di lavoro l’abbia adottata a norma dell’articolo 2087, sono del tutto legittimi sia gli incentivi positivi, i premi per chi adempie, sia quelli negativi, le sanzioni proporzionate, per chi non adempie.
D. Secondo lei regge la tesi dell’Inail che chi rifiuta il vaccino ma si contagia ha diritto alla copertura per la malattia?
R. Sì: con quella delibera l’Inail nega la qualificazione dell’evento come infortunio o malattia professionale, in considerazione del cosiddetto “rischio elettivo”. Dunque il lavoratore che si è ammalato in questo caso ha diritto solo al trattamento ordinario di malattia.
D. In Europa si discute del passaporto vaccinale. La ripresa dell’economia, penso al turismo ma anche al libero accesso ai ristoranti, può passare per un certificato di quel tipo? Si possono legittimamente stabilire limitazioni alla circolazione per chi ne è sprovvisto?
R. L’ordinamento europeo è la fonte principale della protezione della privacy. Se dunque proprio dalla UE viene istituito il passaporto vaccinale, come strumento ritenuto indispensabile per rendere effettivo il diritto alla libera circolazione, questo significa che esso è compatibile con la protezione della privacy. Quest’ultima non è un valore assoluto, bensì un valore che deve essere conciliato ragionevolmente con tutti gli altri.
.