La nuova sentenza della Corte costituzionale scalfisce solo marginalmente la legge Fornero, confermando per il resto l’impianto della nuova disciplina del recesso datoriale; ma nella sua motivazione vedo una incoerenza poco difendibile rispetto alla sentenza del 2018 della stessa Corte sul Jobs Act
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Articolo pubblicato sul quotidiano Il Foglio il 3 aprile 2021 – In argomento v. anche il mio commento alla sentenza della stessa Corte costituzionale n. 194 del 2018, Quando la Consulta pecca di provincialismo .
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Molte testate, compresi i TG Rai, hanno presentato la sentenza costituzionale n. 59/2021, pubblicata nei giorni scorsi, con titoli del tipo “Incostituzionale la legge Fornero sui licenziamenti”. La portata della decisione della Consulta è, in realtà, molto più modesta. Si tratta di questo: la legge n. 92/2012 prevedeva che il giudice fosse tenuto senz’altro alla reintegrazione del lavoratore nel caso in cui ravvisasse la radicale insussistenza del motivo del licenziamento di natura disciplinare; nel caso del licenziamento per motivo economico-organizzativo ritenuto manifestamente insussistente, attribuiva invece al giudice la facoltà discrezionale di disporre la reintegrazione, al posto del solo indennizzo monetario; ora la Consulta ha ritenuto che questa disparità di trattamento fra i due casi sia irragionevole e che dunque anche nel caso del difetto radicale del motivo economico-organizzativo debba essere sempre disposta la reintegrazione. Resta dunque intatta la disposizione che prevede il solo indennizzo monetario per tutti i casi – la netta maggioranza – in cui il motivo addotto dall’imprenditore abbia un qualche fondamento reale, ma sia ritenuto dal giudice insufficiente.
L’impianto della legge Fornero è dunque scalfito soltanto marginalmente da questa sentenza. La quale tuttavia merita una osservazione critica.
Colpisce una contraddizione evidente tra questa decisione e quella contenuta nella sentenza precedente della Corte costituzionale sulla stessa materia, la n. 194 del 2018. Quella sentenza correggeva la norma del Jobs Act (più precisamente, del suo decreto attuativo n. 23/2015) sull’indennizzo monetario dovuto nel caso del licenziamento ritenuto non sufficientemente giustificato, stabilendo che al giudice deve essere attribuita una ampia discrezionalità nella determinazione dell’ammontare tra il minimo e il massimo previsto dalla legge. In questa nuova sentenza, al contrario, la stessa Consulta corregge la legge Fornero proprio nella parte in cui essa attribuisce al giudice una ampia discrezionalità nel determinare la sanzione, eliminandola. Non una parola, nella motivazione, per spiegare il motivo per cui nella scelta dell’ammontare dell’indennizzo debba essere lasciata al giudice una ampia discrezionalità, mentre nella scelta tra la reintegrazione e l’indennizzo quella discrezionalità debba essere azzerata.
Se la Corte avesse applicato in questa nuova decisione il principio enunciato nel 2018, logica avrebbe imposto, semmai, che la legge Fornero venisse corretta nel senso della estensione anche al licenziamento disciplinare della stessa discrezionalità prevista per quello di natura economico-organizzativa. Anche perché non sta scritto da nessuna parte che, nel caso in cui la Consulta rilevi in una norma legislativa una disparità di trattamento irragionevole, la parificazione debba avvenire necessariamente nel senso della maggiore rigidità della norma e non nel senso inverso, o nel senso del ritorno al passato invece che dell’adeguamento del vecchio al nuovo.
Questa osservazione è assai rilevante sia per gli eventuali interventi futuri della Corte costituzionale su questa materia, sia per l’eventuale intervento di riordino e razionalizzazione della materia stessa da parte del legislatore. Tutte le questioni di costituzionalità che vengono sollevate sulla disciplina dei licenziamenti, sia essa quella contenuta nella legge Fornero – applicabile a chi è stato assunto prima del 7 marzo 2015 – o quella contenuta nel decreto attuativo del Jobs Act, fanno leva su una disparità di trattamento, vuoi tra assunti prima e dopo quella data fatidica, vuoi tra licenziati per motivi disciplinari e licenziati per motivi economici. Ma, quand’anche le differenze di trattamento dovessero essere superate, logica vorrebbe che la parificazione avvenisse nel segno del nuovo principio generale, legittimamente sancito dal legislatore: che non è quello vecchio della job property, ma quello vigente in tutti gli ordinamenti occidentali, dell’indennizzo monetario per il licenziamento ritenuto dal giudice non sufficientemente motivato.
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