CONTRATTO PER I RIDER DI JUST EAT: L’ALTRA FACCIA DELLA LUNA

JustEat assume come dipendenti solo la parte di rider delle città maggiori cui può garantire la retribuzione minima per l’orario concordato; gli altri, circa il 70%, restano fuori, gestititi da un’app che li mette direttamente in contatto con i ristoranti, cui compete di retribuirli di volta in volta, oppure da agenzie convenzionate

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Interviste parallele a Pietro Ichino e Salvatore Pellecchia, segretario generale della FIT-Federazione Italiana Trasporti Cisl, a cura di Lorenzo Borga, pubblicata sul sito il Foglio.it il  5 aprile 2021 – In argomento v. anche Il ruolo insostituibile della contrattazione collettiva per risolvere la questione dei rider
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I rider con la pandemia sono divenuti essenziali per il settore della ristorazione. E negli ultimi mesi si sta combattendo una battaglia per il futuro contratto. Saranno lavoratori autonomi o dipendenti? Anche le piattaforme tecnologiche si stanno dividendo su questo, e altri paesi hanno già scelto una via definita. Su questo dialogano a distanza, rispondendo alle stesse domande di “Divergenze parallele”, Pietro Ichino (giuslavorista, già sindacalista e parlamentare) e Salvatore Pellecchia (segretario generale della Federazione Italiana Trasporti Cisl).

Il contratto di lavoro dipendente è compatibile con l’organizzazione del lavoro dei rider, caratterizzata da un’alta flessibilità lavorativa e dal collegamento a distanza attraverso la piattaforma digitale?

ICHINO – Una notevole flessibilità, nell’interesse di entrambe le parti del rapporto, si può ottenere anche nel quadro di un contratto di lavoro subordinato. Ma non la libertà di presentarsi al lavoro giorno per giorno, né tanto meno quella di rispondere o no alle chiamate, che costituiscono una caratteristica peculiare del platform work, nella versione che abbiamo conosciuto fino a oggi.

PELLECCHIA – Sì è sostenibile. Il contratto della logistica è già applicato per esempio ai driver, che hanno caratteristiche simili rispetto ai rider. Parliamo di quei lavoratori che ci portano a casa i pacchi di Amazon, per esempio. Il contratto nazionale prevede la possibilità per i lavoratori di decidere di lavorare anche solo due ore al giorno per cinque giorni. E lo certifica anche l’adesione di una società come Just Eat che fa della flessibilità il suo driver principale. Tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro sono dotati di riserve applicabili a determinate particolarità aziendali.

Ma per le compagnie e il business delle consegne porta a porta sarebbe sostenibile contrattualizzare i rider come dipendenti?

ICHINO – Sì, strutturando la prestazione in modo diverso da come è stata strutturata fin qui. Cioè prevedendo un obbligo di presentarsi al lavoro ogni giorno e di rispondere alle chiamate durante l’orario pattuito. Corrispondentemente dovrà essere previsto uno “zoccolo” retributivo fisso, riferito all’orario concordato. Potrà anche essere previsto lo straordinario, ma solo entro i limiti massimi stabiliti dalla legge e dal contratto nazionale. Questo contratto di lavoro avrà un “contenuto assicurativo” nettamente superiore, cui corrisponderà però una retribuzione inferiore. Come nel caso di Just Eat, che infatti, per poter garantire maggiore sicurezza ai rider assunti, propone loro contratti che offrono minori possibilità di guadagno.

PELLECCHIA – Sì perché i fatti dimostrano che il business si può praticare anche senza calpestare i diritti elementari delle persone. Cioè ritmi di lavoro sostenibili, periodi di riposo tra una prestazione e l’altra e una retribuzione corrispondente alla prestazione. Senza contare le ferie, la malattia, il diritto allo studio.

La Repubblica, 4 aprile 2021

Just Eat ha scelto una strada diversa dalle altre aziende: l’esempio della compagnia fondata in Danimarca può segnare la strada per tutte le altre?

ICHINO – Just Eat assume come dipendenti solo la parte di rider delle città maggiori cui può garantire la retribuzione minima per l’orario concordato, con l’elasticità massima concessa nel lavoro subordinato. Gli altri – circa il 70% – restano fuori, gestititi da un’app che li mette direttamente in contatto con i ristoranti, cui compete di retribuirli di volta in volta, oppure da agenzie convenzionate, che fanno il servizio di “pony express”. La posizione di tutti questi altri ne risulta decisamente peggiorata sotto ogni punto di vista.

PELLECCHIA – Secondo noi sì. E Just Eat non è neppure la prima multinazionale ad applicare quel contratto della logistica. Abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con l’azienda e abbiamo definito tutte le peculiarità flessibili del contratto. Questa volta, con soddisfazione, questo sforzo è stato apprezzato e riconosciuto da una controparte che ha avuto pazienza di confrontarsi. D’altronde il riconoscimento dei diritti dei lavoratori paga anche per l’azienda. La prestazione di un lavoratore a cui sono riconosciuti i diritti normali è di maggiore qualità per il cliente finale.

Si può invece trovare una formula che garantisca i diritti e le tutele lavorative dei rider che però rimanga nell’alveo del lavoro autonomo, come prevede il contratto proposto da Assodelivery (l’associazione di categoria che rappresenta le piattaforme)?

ICHINO – L’evoluzione tecnologica toglie significato pratico alla summa divisio novecentesca tra subordinazione e autonomia. Proprio il caso dei platform workers, come quello dello smart work, mostra l’esistenza di una zona intermedia sempre più ampia, nella quale la struttura della prestazione è pressoché identica indipendentemente dalla qualificazione del rapporto. Donde la necessità di nuove tecniche normative e protettive, che prescindano dalla qualificazione stessa. La linea può essere quella del Ccnl Assodelivery, che va perfezionato nel contenuto, ma si muove nella direzione giusta.

PELLECCHIA – Nell’ambito del contratto della logistica sono previste alcune leve normative utilizzabili. Il mestiere del rider, contrariamente alla narrativa, non è un mestiere nuovo. Il garzone di bottega, il fattorino, è sempre esistito. Quello che è cambiato è la gestione del ciclo produttivo: non abbiamo più un singolo esercente, ma una piattaforma. È già previsto il part time verticale, come anche il part time orizzontale: il lavoro deve essere subordinato, perché le leve flessibili nel contratto ci sono tutte.

La corte suprema inglese ha deciso che i lavoratori di Uber vanno assunti con contratto di lavoro dipendente, la Spagna ha fatto lo stesso con i rider, in Italia sono forti le pressioni – anche da parte della magistratura – per dare contratti da dipendenti ai fattorini. In un contesto diverso dalla gig economy, anche la filiera Amazon è stata in agitazione per richiedere maggiore attenzione da parte del datore di lavoro. Siamo di fronte a un nuovo trend in questi settori?

ICHINO – Nell’ordinamento britannico si distingue il worker dall’employee. La Corte suprema ha qualificato gli autisti Uber come workers, riconoscendo loro alcune protezioni essenziali, come lo standard retributivo minimo, il divieto di discriminazioni, la libertà sindacale; ma non altre, proprie degli employees, come la protezione contro il licenziamento ingiustificato. In parte diversa è la scelta del legislatore spagnolo, che ultimamente ha imposto l’inquadramento dei rider come subordinati. Sarà interessante vedere come in Spagna il platform work si adatterà al nuovo quadro normativo.

PELLECCHIA – Se per esigenze di marketing si vuole presentare un’attività come nuova, lo posso comprendere. Ma nel caso dei rider, noi parliamo di lavoratori che prendono in carico la merce dal fornitore e lo recapitano al cliente. Questa attività avviene tutti i giorni in moltissimi settori. Non si tratta di attività nuove, ma di nuovo c’è l’organizzazione che avvalendosi alla tecnologia ottimizza il processo. Di questo si tratta.

 

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