Differenziare la disciplina applicabile a seconda che la ripresa del lavoro sia possibile o no – Istituire il collegamento organico fra Anpal e Inps Attivare gli incentivi giusti per il buon funzionamento dell’assegno di ricollocazione Realizzare un coordinamento nazionale dei Centri per l’Impiego
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Articolo pubblicato su il Riformista il 9 marzo 2021 – In argomento v. anche l’articolo di Marco Bentivogli, Lucia Valente e mio pubblicato nell0 stesso giorno su la Repubblica, Come si protegge davvero il lavoro .
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Curiosamente, è molto diffusa l’idea che il blocco dei licenziamenti debba essere mantenuto per le aziende più colpite dalla crisi, quelle dove il lavoro presumibilmente non riprenderà neanche dopo la pandemia; e che invece sarebbe opportuno rimuoverlo, più o meno in fretta, per la generalità degli altri settori. La logica sembrerebbe suggerire semmai l’inverso: dove si può prevedere che la produzione sia destinata prima o poi a essere riattivata, lì può avere un senso inibire le riduzioni del personale usando la Cassa integrazione Covid fino a che sia “passata ‘a nuttata”; dove invece è certo che il lavoro non si riattiverà, continuare a tenere le persone in freezer è un non senso. Anche perché tutti gli studi mostrano che ogni mese di inerzia allontana di più quelle persone dal mercato del lavoro, le rende meno “occupabili”.
Che fare dunque per queste persone? Per prima cosa toglierle dal freezer. Consentire che la cessazione del loro vecchio rapporto di lavoro venga verbalizzata e nel contempo, considerata la situazione di crisi economica gravissima, aumentare l’entità e la durata del trattamento di disoccupazione che oggi la NASpI offre loro: per esempio alzandone il tetto (che oggi per molti determina un dimezzamento del reddito) e aggiungendo 12 mesi al limite dei 24 oggi in vigore. E offrire loro subito l’assegno di ricollocazione: cioè quel voucher spendibile con qualsiasi agenzia pubblica o privata accreditata, in grado di offrire assistenza intensiva, la quale potrà incassare senz’altro, per il servizio reso, un quinto dell’ammontare, ma i restanti quattro quinti solo a ricollocazione ottenuta. È una misura di politica attiva del lavoro istituita originariamente dal Jobs Act (in particolare dal decreto legislativo n. 150 del 2015), ma soffocata in culla all’inizio della nuova legislatura in odio allo stesso Jobs Act e solo ora riesumata solo con la legge finanziaria 2021.
A questa indicazione di rotta si obietta da diverse parti che per le centinaia di migliaia di persone che hanno perso il posto una possibilità di nuova occupazione non c’è. Chi obietta questo non considera, innanzitutto, che nel nostro Paese anche in questa fase di crisi economica gravissima si registrano centinaia di migliaia di assunzioni regolari ogni mese: non si fa il bene di chi ha perso il posto per la pandemia tenendolo lontano da questo flusso continuo di opportunità di lavoro. Tanto più che i professionisti dei servizi di outplacement testimoniano di un allungamento relativamente modesto dei tempi di rioccupazione delle persone che hanno assistito nell’ultimo anno (un mese in più rispetto a un tempo medio di sei mesi). E – anche se qualcuno ritiene soprastimato il milione di situazioni di skill shortage risultante dall’indagine Excelsior di Unioncamere e Anpal – le associazioni imprenditoriali di tutti i settori non perdono occasione per confermare che le imprese associate denunciano una difficoltà crescente nel reperimento di personale di tutti i livelli professionali, oggi anche più di prima della pandemia
Dobbiamo renderci conto che mantenere il blocco dei licenziamenti per le imprese più colpite dalla crisi, dove non c’è speranza che il lavoro prima o poi riprenda, significa innanzitutto indurre i lavoratori interessati a sopportare ancora a lungo a una drastica riduzione del reddito; significa incoraggiarli a non muoversi, dopo che sono stati fermi per tutto un anno: esattamente il consiglio opposto rispetto a quello di cui hanno bisogno. Se vogliamo stare davvero dalla loro parte, quel che occorre non è certo tenerli in freezer ancora un po’, ma incoraggiarli e aiutarli a sfruttare subito il flusso delle nuove assunzioni regolari sostenendoli vigorosamente nella transizione.
Un’altra obiezione ricorrente a questa linea di condotta è quella che fa leva sull’inesperienza degli organi amministrativi competenti per quel che riguarda il funzionamento dell’assegno di ricollocazione. La prima replica a questa obiezione è che il rafforzamento del trattamento di disoccupazione, di cui si è detto all’inizio, consente a chi ha perso il posto di lavoro di affrontare la ricerca della nuova occupazione in condizioni di relativa sicurezza economica. Ritardare l’inizio di questa ricerca è comunque un grave errore, indipendentemente dallo stato in cui versa la macchina dei servizi al mercato del lavoro.
In ogni caso non c’è un minuto da perdere su questo terreno. E la soluzione non va cercata, come siamo soliti fare, sul terreno legislativo, con l’emanazione di nuove norme, bensì direttamente sul piano dell’implementazione, dove siamo debolissimi. La prima cosa da fare è attivare gli incentivi giusti, per far sì che il meccanismo complesso dell’assegno di ricollocazione si metta in moto correttamente. Per questo – ad avviso non solo mio – è necessario stabilire una connessione operativa tra l’Inps, che eroga il trattamento di disoccupazione, e l’Anpal, cui compete di promuovere e coordinare le politiche attive del lavoro; ed è necessario altresì abilitare l’Inps a istituire premi di risultato adeguati per stimolare la collaborazione efficace tra Centri per l’Impiego e operatori privati. La connessione operativa tra i due organismi consentirebbe di attivare, inoltre, un controllo adeguato sulla partecipazione delle persone beneficiarie del trattamento di disoccupazione: come erogatore di questo trattamento, l’Inps ha un interesse diretto alla riduzione della durata dei periodi di disoccupazione.
Così sarebbe proprio la catastrofe della pandemia a costringerci a sperimentare un nuovo modello di amministrazione pubblica, basato sulla responsabilizzazione e l’incentivazione delle strutture, a cominciare dal management, in relazione a risultati precisi e misurabili.
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