La decarbonizzazione integrale della produzione dell’acciaio in tempi relativamente brevi, con la trasformazione dello stabilimeto in un’acciaieria elettrica, è possibile: dunque è dovuta – Che cosa, realisticamente, deve cambiare – Il prerequisito fondamentale: affidabilità e fiducia reciproca fra tutti gli attori
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Articolo di Roberto Pensa pubblicato sul quotidiano Taranto Buonasera il 17 febbraio 2021 – L’Autore è ingegnere, dirigente nell’acciaieria di Taranto sia nel periodo della gestione pubblica, sia in quello della gestione Riva, sia in quello della gestione commissariale prima del 2017 – Sull0 stesso argomento v. il suo intervento del dicembre scorso, nonché il mio articolo pubblicato su lavoce.info il 29 novembre 2019, Il capitale sociale che manca all’ex-Ilva
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L’esperienza maturata nella fabbrica per quasi un trentennio mi porta a un’analisi dei problemi e a ricercare le possibili soluzioni. Molte delle idee sono condivise da alcuni colleghi con i quali abbiamo insieme, in toto o in parte, attraversato il percorso lavorativo nella fabbrica di Taranto. Niente di nuovo, dunque, ma un tentativo di dare concretezza alle tante cose dette.
La mia attività lavorativa si è svolta principalmente nell’area primaria tra altiforni e cokerie, dove mi sono occupato d’impiantistica, processo e manutenzione. È evidente da parte mia una certa predilezione per questa gigantesca impiantistica ma, oggi più che mai, bisogna fare i conti con il mondo che ci circonda, avere rispetto per il territorio. La capacità di rivedere alcune marcate convinzioni e superare gli schemi del passato è dunque doverosa.
Il problema
È continuamente messa in discussione la sostenibilità ambientale della fabbrica e in particolare della sua area “a caldo” o “primaria”, che rappresenta l’insieme dei processi siderurgici indispensabili per la trasformazione delle materie prime quali minerali di ferro e carboni fossili, prima in ghisa e successivamente in acciaio formato. Parliamo degli impianti di agglomerazione, degli altiforni e delle cokerie, considerati per le loro caratteristiche e dimensioni, processi a elevato impatto ambientale.
È stato spesso sottolineato che una fabbrica siderurgica come quella di Taranto non può marciare senza l’area primaria, poiché non sarebbe possibile una produzione di laminati piani, poiché verrebbe a mancare il prelavorato formato costituito da bramme di acciaio e quindi va definitivamente ribadito che, nel caso d’inoperatività dell’area a caldo, la fabbrica non può più operare nel suo complesso e deve essere fermata.
I gravi accadimenti esterni iniziati nel 2012 con il sequestro dell’area a caldo, hanno condizionato le normali attività produttive e da allora lo stabilimento è stato oggetto, e continua a esserlo, di un avvicendarsi di campagne mediatiche del mondo ambientalista e sanitario, di ordinanze dei sindaci, di sentenze del TAR, d’ingiunzioni del tribunale, di sequestro d’impianti, di procedimenti giudiziari. Questo è successo nella gestione privata del gruppo RIVA, nelle varie gestioni commissariali, nella gestione ArcelorMittal, determinando un assetto che ha compromesso la normale operatività industriale e di conseguenza è venuta meno la sostenibilità economica indispensabile per la sopravvivenza della fabbrica: enormi perdite nella gestione hanno accompagnato dal 2013 a oggi la prosecuzione produttiva, impoverendo sostanzialmente il territorio e mortificandone il personale e le professionalità, senza dimenticare che un’azienda che non fa utili non potrà mai investire nel miglioramento dei suoi impianti e nell’ambiente. A poco sono serviti gli ingenti investimenti effettuati per adeguare gli impianti alle stringenti normative previste nell’Autorizzazione Impatto Ambientale (AIA) ben più rigide delle normative europee.
Gli aspetti sanitari legati alle emissioni, così controversi, non sono mai stati oggetto di una decisione chiara da parte delle istituzioni centrali. Tutto fa pensare che la vicenda continuerà con enorme dispendio di denaro. Nel prosieguo delle attività industriali bisogna tener conto degli aspetti sotto riportati. Ipotizzare di esporre il management a rischi giudiziari come quelli già in corso non è più possibile per la stessa sopravvivenza della fabbrica: il continuo rischio di azioni penali sull’azienda e sui manager per reati ambientali o peggio per aver causato malattie a cittadini, non può essere trascurato. Il management non può operare in queste condizioni e per i cittadini dei Tamburi si deve trovare una soluzione definitiva del problema ambientale.
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Anche le pressioni provenienti dall’opinione pubblica, dalle autorità locali devono essere tenute in considerazione e va quindi definito un assetto compatibile e condiviso. Ancora oggi ci sono posizioni molto diverse come quelle del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano e del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci che non mancano di esprimere pubblicamente continui aut aut fra loro contrastanti.
Per salvaguardare la cittadinanza, il management e l’intera fabbrica occorre porsi seriamente il problema e uscire dagli equivoci. Se si deciderà di andare oltre e assicurare un futuro alla fabbrica, è bene che siano valutate attentamente le possibili alternative più sostenibili e realizzare nuovi assetti impiantistici. Altrimenti la fabbrica rischia di spegnersi da sola, esaurendo risorse pubbliche consistenti. È sempre da evidenziare e non perdere di vista la strategicità della produzione di acciaio nell’interesse nazionale e l’importanza per lo sviluppo di tutta l’industria meccanica.
Con l’accordo firmato tra Invitalia e Arcelor Mittal Italy il 10 dicembre 2020, il colosso siderurgico ritorna in mano pubblica. Con il via libera dell’Antitrust e della Commissione Europea, risolti tutti gli aspetti societari, occorre avviare rapidamente la realizzazione degli investimenti.
Il piano industriale di Invitalia-AMI prevede complessi e difficili investimenti per realizzare un assetto “ibrido” introducendo, accanto agli altiforni, un’acciaieria elettrica che dovrebbe essere operativa già nella metà del 2024. Si raggiungerà per quella data una produzione complessiva di 7 milioni di tonnellate/anno di acciaio di cui 2,5 milioni sviluppate con il ciclo elettrico. In questo modo si ridurranno gli impatti ambientali, in conseguenza di una minore necessità:
– di carbone/coke per oltre 1 milione di tonnellate,
– di agglomerato per circa 3 milioni di tonnellate.
L’effetto, sulla riduzione di emissioni di NOx, Polveri, Idrocarburi Policiclici Aromatici e SOx, Diossine, è certamente consistente e sensibile e ridurrà l’impatto ambientale della fabbrica sul territorio di almeno il 25%.
Va aggiunto che tra gli investimenti di rilievo è previsto il rifacimento dell’altoforn n. 5 (AFO5) e una serie d’interventi per assicurare all’area primaria una marcia ai livelli produttivi previsti (macchine dei parchi, macchine per la discarica delle materie prime, filtri agli agglomerati, ecc.). Chiaramente il mantenimento in marcia dell’altoforno n. 5 rende necessaria la prosecuzione dell’esercizio delle batterie di forni a coke e degli impianti di agglomerazione, a monte, e di almeno una acciaieria tradizionale BOF, a valle. La vita tecnica di un altoforno ricostruito supera ampiamente i 15 anni.
La proposta aggiuntiva
Se dal punto di vista tecnico la soluzione “ ibrida” pianificata è sufficiente per il funzionamento della fabbrica, le considerazioni prima espresse sulla situazione ambientale fanno pensare tuttavia che il piano non possa fermarsi a quest’assetto che, pur migliorando la situazione, tornerebbe a creare criticità ambientali e stato di conflitto. Il presente è un momento in cui per evitare un tragico insuccesso e perdita di denaro pubblico occorre dare a Taranto quello che chiede, cioè “una produzione di acciaio pulita”. Solo così le azioni progettate potranno essere una reale occasione di rilancio.
Il piano avrà dunque necessariamente bisogno di una successiva evoluzione con la realizzazione di una seconda acciaieria elettrica, per poi uscire gradualmente dall’assetto ibrido.
L’ubicazione degli impianti di Taranto in prossimità della città richiede una transizione senza ulteriori compromessi: dopo oltre 60 anni il ciclo dell’altoforno deve essere definitivamente abbandonato e occorre effettuare questo cambiamento con gli investimenti necessari per questa modernizzazione. Taranto sarà tra le prime siderurgie in Europa a operare questa scelta, con l’obiettivo di una completa decarbonizzazione e dell’abbattimento totale degli inquinanti.
Questa nuova fabbrica ridimensionata, razionalizzata e modernizzata svilupperebbe pur sempre oltre 5,5 milioni di tonnellate/anno con forni elettrici, da trasformare in laminati di qualità preferibilmente utilizzando il sistema ESP (brevetto Arvedi) cioè un processo dove la trasformazione diretta in coils avviene con consumi energetici ridottissimi ottenendo acciai con un mix qualitativo elevato. I forni elettrici, che non sono certamente una nuova tecnologia, saranno alimentati con rottame ferroso, ma principalmente con prodotti preridotti; e si possono ipotizzare capacità produttive di circa 2,5 – 2,8 milioni di tonnellate/anno per ciascun forno elettrico.
Va anche considerato che con la seconda acciaieria elettrica, anche il rilevante investimento della ricostruzione di AFO5 può diventare non necessario poiché la marcia può proseguire con AFO1, AFO2 e AFO4, ottenendo una maggiore flessibilità di produzione e reagire meglio alle situazioni di mercato o ai futuri nuovi assetti.
Si va così alla chiusura totale degli impianti di agglomerazione, degli altiforni e delle cokerie, dei sottoprodotti: naturalmente con una graduale fermata degli altiforni per fine vita tecnica. Sarebbe, inoltre, così eliminata un’impiantistica complessa con consistenti impianti ausiliari, molto costosa nelle operazioni di mantenimento e gestione anche per via dei flussi e della logistica; i sistemi di rifornimento con chilometri di vie nastri, colossali impianti di aspirazione complessi e costosi dal punto di vista energetico. Inoltre sarebbero oggetto di dismissioni:
– la complessa rete dei gas siderurgici sarebbe estremamente semplificata, probabilmente azzerata;
– impianti di servizio all’altoforno come parchi loppa, soffianti per la produzione del ”vento” alle tubiere, stock-houses, impianti per il trattamento di acque e fanghi, stazioni di pompaggio. Anche l’intero impianto PCI per iniezione del polverino di carbone in altoforno sarà dismesso.
Andrà preso in considerazione il potenziamento/adeguamento delle centrali elettriche
I vantaggi
I risultati da iscrivere sul lato positivo del bilancio complessivo dell’operazione sono:
– la decarbonizzazione dell’intero ciclo siderurgico e l’azzeramento degli inquinanti;
– l’eliminazione di costosi investimenti quale quello relativo all’AFO5 e ad altri impianti non più necessari a fronte di un piano di dismissioni dell’area altiforni/cokeria/agglomerato;
– una consistente semplificazione nella gestione di questa nuova fabbrica;
– la fine, con l’eliminazione del carbone fossile dal ciclo, di un conflitto che sembra non essere sanabile in alcun modo;
– minori necessità di personale per la manutenzione e la gestione;
– il recupero delle aree dismesse, attraverso il necessario processo di bonifica.
I problemi ulteriori e gli ulteriori possibili sviluppi
Per gli aspetti sociali legati al personale operativo a Taranto, va considerato che la riduzione di manodopera sarà sensibile e inevitabile, ma sempre da preferire a una totale chiusura della fabbrica. Va, d’altra parte, considerato che (parliamo di una data che si colloca intorno al 2028-2030) si saranno create le condizioni per il pensionamento o il prepensionamento di molti dipendenti, in conseguenza dell’aumentata età media del personale. Inoltre nello stabilimento si libereranno ampie aree e una consistente quota del personale potrà essere impiegata nelle operazioni non semplici di bonifica e recupero dei materiali ferroso (rottame) proveniente dalla demolizione degli impianti dismessi e dalla riutilizzare nei forni elettrici.
Il progetto di una così complessa trasformazione in tempi abbastanza contenuti è tuttavia di notevole difficoltà progettuale e realizzativa e richiede esperienze consolidate nella siderurgia. Le attività devono comprendere anche una razionalizzazione con la bonifica delle aree dismesse.
Quanto all’approvvigionamento del preridotto/rottame, il piano industriale del recente accordo non ne definisce ancora i dettagli, si parla soltanto di un impianto di preridotto costruito e gestito da una società ad hoc. Da quanto si legge questo impianto sarà fuori dal perimetro della gestione Invitalia-AMI. Naturalmente con 2 acciaierie elettriche il fabbisogno di questi materiali fondamentali si raddoppia. Riporto alcune ipotesi per il rifornimento del preridotto, che possono essere tra loro combinate, e che devono esser oggetto di valutazione:
– ricorso al mercato per l’acquisto sia di rottame ferroso sia di preridotto (il gruppo Arvedi e gli acciaieri del Nord ricorrono al mercato internazionale) con accordi di lungo termine;
– produzione in un impianto decentrato all’estero dove i costi di produzione possono essere contenuti, in un paese dove il gas metano ha un basso costo (caso Voest- Alpine);
– produzione parziale in loco (sito di Taranto) con costruzione degli impianti occorrenti da alimentare a metano.
Il nuovo assetto a sole acciaierie elettriche potrà consentire di adeguare le produzioni alle variabili condizioni di mercato favorevoli/sfavorevoli e/o all’utilizzo di semilavorati d’acquisto (bramme, coils) che possono essere trattati sugli impianti esistenti per lamiere e tubi.
Si potrà anche prevedere nei lay-out la sistemazione di una terza acciaieria elettrica per eventuali future strategie e per incrementare i livelli di produzione.
Conclusioni
Per evitare la prosecuzione di un inutile e dispendioso conflitto, che porterebbe inevitabilmente alla chiusura della fabbrica, occorre una pianificazione che nell’arco di circa un decennio (la complessità dell’operazione è tale da non consentire tempi più brevi), porti a realizzare un assetto innovativo per la siderurgia tarantina e nazionale con il passaggio alle acciaierie elettriche alimentate da rottame/preridotto: si realizza così una siderurgia sostenibile, tanto invocata dal territorio per conciliare il rapporto lavoro/salute.
Il piano Invitalia-AMI, ineccepibile per la ripresa produttiva, deve però accelerare il suo sviluppo verso la totale produzione con acciaierie totalmente elettriche. È una trasformazione complessa, una transizione verso una produzione di acciaio “green” che difficilmente poteva esser affrontata soltanto da un privato, per la rilevanza degli investimenti che essa richiede. Gli investimenti sono consistenti, ma ne vale la pena. Naturalmente la volontà politica non basta: occorrono anche la stabilità del percorso, un’azione di sostegno da parte dello Stato, la coesione e una rinnovata fiducia reciproca tra i diversi protagonisti dell’operazione.
La soluzione prospettata è concreta e immediata, a differenza delle ipotesi, ancora allo stato embrionale, che prevedono l’utilizzo dell’idrogeno e che comporterebbero tempi certamente più lunghi (un impiego su larga scala è ipotizzabile non prima di 15-20 anni da oggi) e costi molto elevati. Tra l’altro non apporterebbero alcun vantaggio dal punto di vista ambientale. Una operazione di quel genere è stata pianificata nello stabilimento tedesco Salzgitter, ma si svilupperà in un arco di tempo di 30 anni. La fine della vita tecnica degli altiforni a Taranto si può raggiungere in metà di quel tempo.
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