Centinaia di migliaia dei posti di lavoro che il blocco dei licenziamenti tiene in vita solo formalmente in realtà non ci sono già più; è dannoso innanzitutto per le persone coinvolte rinviare ulteriormente le misure con cui il problema va affrontato: aumento del sostegno del reddito e attivazione dei percorsi verso i nuovi lavori (che ci sono)
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Intervista a cura di Lorenzo Alvaro, in corso di pubblicazione sul mensile Vita, marzo 2021 – In argomento v. anche la mia intervista del 13 febbraio al periodico Strumenti Politici, Un’agenda per il nuovo ministro del Lavoro
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Professor Ichino, il quadro provvisorio sui dati del lavoro del 2020 parla per ora di una perdita di occupati di oltre 650mila unità. Una flessione attesa che però rischia di non rappresentare ancora un dato reale. L’Italia è l’unico Paese europeo che infatti ha bloccato i licenziamenti. Qual è il quadro che ci dobbiamo aspettare?
Si stima che il divieto di recesso per motivo economico in vigore ormai da un anno abbia, per così dire, “congelato” fra i 300 e i 400mila licenziamenti: tutte persone che dovrebbero già oggi considerarsi sostanzialmente disoccupate, anche se formalmente il loro contratto di lavoro è ancora in vita. Per queste persone quel divieto è molto dannoso, perché ritarda il momento in cui esse incominceranno ad attivarsi per trovare una nuova occupazione e riduce, ogni mese che passa, la loro occupabilità.
Se dunque lei è contrario a prorogare il blocco dei licenziamenti, quali misure si devono adottare per evitare l’esplosione della disoccupazione il giorno dopo la cessazione del divieto?
Guardi che quella disoccupazione noi fingiamo di non vederla, ma è già esplosa. L’urgenza non è continuare a nasconderla, ma affrontare il problema seriamente. Il Governo dovrebbe destinare il denaro che stiamo spendendo per una Cassa integrazione senza limiti e senza speranza ad aumentare semmai la durata e l’entità del trattamento di disoccupazione per chi verrà licenziato dopo il 31 marzo, assicurando l’80 per cento a tutti, senza tetto o con un tetto nettamente più alto rispetto all’attuale di circa 1.200 euro al mese; e ad attivare i percorsi di orientamento e formazione necessari per indirizzare chi ha perso il posto verso le aziende che oggi cercano persone senza trovarle. O comunque verso i flussi delle assunzioni ordinarie, che si contano pur sempre a centinaia di migliaia ogni mese: non c’è alcuna ragione per cui chi ha perso il posto debba considerarsi destinato alla disoccupazione permanente.
A essere maggiormente colpite dalla crisi dovuta al Covid sono le donne: stando all’Istat nell’ultimo trimestre del 2020, sui 101 mila lavoratori che hanno perso il lavoro 99mila sono donne. Un dato allarmante su cui è necessario un intervento. Quali possono essere le leve su cui agire per tutelare il lavoro femminile?
Questo è la conseguenza del fatto che sono più le donne che gli uomini ad avere i contratti di lavoro a termine, dei quali la crisi in corso ha fatto strage. Se vogliamo davvero aumentare l’occupazione femminile e migliorarne la qualità, dobbiamo innanzitutto investire nei servizi alla famiglia, che facilitano la scelta delle madri di continuare o riprendere a lavorare. Sarebbe inoltre necessaria una grande “azione positiva” volta a rompere il circolo vizioso che caratterizza il nostro “equilibrio mediterraneo”, relegando le donne in una posizione di inferiorità rispetto agli uomini nel tessuto produttivo e, prima ancora, nel mercato del lavoro.
In che cosa potrebbe consistere questa “azione positiva”?
Inuna netta riduzione della pressione fiscale sui redditi di lavoro femminile. Gli economisti concordano sul punto che la domanda e l’offerta di lavoro femminile sono molto più elastiche di quelle di lavoro maschile, quindi molto più sensibili a un incentivo fiscale. La riduzione dell’Irpef potrebbe essere qualificata espressamente come “azione positiva” destinata a durare fino a che non sarà stato raggiunto un tasso di occupazione femminile del 60 per cento, obiettivo che l’Italia si è impegnata a raggiungere con il Trattato di Lisbona del 2000. Una misura di questo genere sarebbe perfettamente legittima dal punto di vista della legislazione antidiscriminatoria, proprio perché volta a correggere una discriminazione sistemica, e avrebbe un effetto molto positivo anche sulla ripartizione dei compiti domestici fra mariti e mogli.
L’altro segmento particolarmente colpito dalla crisi sono i giovani. Crescono dell’1,8% i Neet in tutta Europa con l’Italia fanalino di coda, che fa registrare un tasso del 20,7%. I disoccupati italiani under 25 salgono al 29,7% (erano al 28,4% nel 2019). Anche qui si tratta di una debolezza strutturale del nostro Paese. Come affrontarla?
Il problema della disoccupazione giovanile va affrontato con strumenti molto diversi rispetto a quelli con cui va affrontato quello del basso tasso di occupazione femminile. Se il tasso di disoccupazione degli under30 è triplo rispetto al tasso di disoccupazione generale, questa differenza va imputata interamente al difetto gravissimo dei servizi di orientamento scolastico e professionale nel nostro Paese: gli adolescenti compiono le scelte decisive per il loro futuro “con la testa nel sacco”, cioè senza conoscere neanche in modo molto approssimativo che cosa li attende nel mercato del lavoro.
Chi porta la responsabilità di questo difetto?
Le Regioni, poiché esse hanno la competenza legislativa e amministrativa esclusiva in questo campo. D’altra parte va anche detto che un servizio di orientamento scolastico e professionale efficace, che raggiunga capillarmente ogni adolescente all’uscita di ogni ciclo scolastico – come accade nei Paesi del centro e nord-Europa – può essere realizzato soltanto quando gli addetti al servizio conoscano con precisione la qualità dei corsi scolastici e di formazione che possono essere consigliati agli interessati: per la formazione è essenziale la conoscenza del tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivamente conseguiti da chi ne ha fruito. Anche questo è un tassello del nuovo sistema che va costruito quasi da zero, approfittando delle risorse straordinarie che verranno messe a disposizione da Bruxellesi con il Next Generation Plan.
Gli occupati in Italia stanno subendo una forte flessione. Se si considerano invece i dati sulla disoccupazione, prendendo in esame i principali Paesi europei, emerge che l’Italia nell’anno della pandemia ha visto diminuire, in controtendenza assoluta rispetto a tutti gli altri, i disoccupati generali di 220mila unità. Il contesto generale è l’aumento in area Ue di 2 milioni di disoccupati. Come si può spiegare questa discrasia tra il dato relativo all’occupazione e quello alla disoccupazione?
La si spiega agevolmente con il blocco dei licenziamenti, che è servito per fare come quando si nasconde la polvere sotto il tappeto: abbiamo messo in freezer centinaia di migliaia di persone, fingendo che fossero ancora occupate e attivando per esse la Cassa integrazione senza causali e senza termine. Ma si tratta di persone che andrebbero, più correttamente, qualificate come disoccupate. Gli altri Paesi sembrano avere aumenti della disoccupazione maggiori del nostro solo perché non hanno compiuto questo sotterfugio: hanno chiamato le cose con il loro nome.
Ancora in relazione al numero di disoccupati che lei dice essere stati “nascosti sotto il tappeto”, che ruolo ha il reddito di cittadinanza?
Mentre la Cassa integrazione guadagni è, o dovrebbe essere, una misura di carattere assicurativo, con il compito di tenere legate le persone all’azienda da cui dipendono in un periodo di sospensione temporanea della prestazione, per evitare la dispersione di professionalità che si prevede torneranno presto a essere valorizzate nella stessa azienda, il RdC è invece una misura di carattere assistenziale – sostanzialmente una versione potenziata del “Reddito di inserimento” già esistente prima del 2018 – dichiaratamente destinata a persone che non sono attualmente in grado di mantenersi con il proprio lavoro. Pertanto al RdC, che pure ha molti difetti per il modo in cui è stato implementato negli ultimi due anni, non può essere imputata la colpa di nascondere situazioni di disoccupazione. Semmai, il suo difetto può essere quello di disincentivare il lavoro regolare, perché non sono stati resi effettivi i meccanismi di “condizionalità” previsti nella legge istitutiva.
Ecco, la condizionalità: secondo lei è realistico pensare che il reddito di cittadinanza sia utile per «attivare i percorsi di orientamento e formazione» per chi al 31 marzo si troverà senza lavoro, stimolandolo a cercare la nuova occupazione?
Certo che no! Chi nel prossimo futuro verrà licenziato per ragioni economiche avrà immediatamente a disposizione una misura non di natura assistenziale come il RdC, ma di natura assicurativa: la NASpI, ovvero un trattamento di disoccupazione finanziato con i contributi versati nel corso del rapporto di lavoro. Il problema, semmai, potrà essere come dicevo all’inizio, quello di rafforzare questa copertura assicurativa a spese dell’Erario, in considerazione della gravità della crisi che stiamo attraversando.
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