Due filosofe della mente analizzano i meccanismi cognitivi da cui nascono negazionismo e cospirazionismo, mostrando come nessuno possa dirsene del tutto esente
Articolo di Anna Ichino (Università degli Studi di Milano) e Lisa Bortolotti (Università di Birmingham) pubblicato sul sito Repubblica.it il , nonché l’articolo pubblicato a dicembre sulla rivista The Conversation, delle stesse due Autrici, Conspiracy theories may seem irrational – but they fulfill a basic human need – Si segnala inoltre uno studio che Anna Ichino, insieme ad altri ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, sta conducendo per comprendere meglio i pensieri e le emozioni che determinano le nostre scelte in questo momento di forte stress dovuto all’emergenza pandemica: chi lo desidera è caldamente invitato a contribuire allo studio, dedicando cinque minuti alla compilazione del questionario predisposto in funzione della ricerca
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Uno “sciamano” seminudo col volto dipinto a stelle e strisce, le corna da bisonte in testa, e lo sguardo invasato, in mezzo alle macerie di Capitol Hill saccheggiato dai manifestanti. Questa immagine simbolo dell’attacco del 6 gennaio è per molti diventata anche un simbolo della “follia complottista”. La matrice QAnonista dell’attacco è infatti ben nota, e l’idea per cui il complottismo, soprattutto nelle sue manifestazioni più estreme, abbia qualcosa di patologico e delirante è spesso suggerita anche dai media.
Una follia condivisa da quasi un quarto dell’elettorato USA, dunque? Tutto può essere. Ma l’idea che si tratti davvero di follia non sembra trovare riscontro nelle ormai numerosissime ricerche che gli scienziati cognitivi hanno condotto sui meccanismi psicologici alla base del complottismo. Secondo queste ricerche, viceversa, il pensiero complottista è frutto di processi cognitivi del tutto fisiologici, che guidano i nostri ragionamenti anche in molti altri ambiti. Questo non significa negare che il complottismo sia irrazionale, né tantomeno sminuirne la pericolosità. Al contrario: riconoscere la sua continuità con modi di pensare che ci sono propri è importante per comprenderlo, e quindi anche combatterlo, più efficacemente.
Prendiamo alcuni esempi tra i più sconcertanti, tratti proprio da uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori di QAnon: il negazionismo riguardo alla pandemia di Covid-19. C’è chi nega del tutto che il virus esista; chi nega che sia trasmissibile, mettendo in dubbio (sic!) l’idea stessa di contagio; chi nega che sia nocivo “come vogliono farci credere”: si tratterebbe di una colossale montatura usata come pretesto da qualche oscura élite (Big Pharma, Bill Gates) per terrorizzarci e controllarci, guadagnando sulla nostra pelle.
Ci sono poi una varietà di altre teorie sulle origini del virus, la sua diffusione, i rimedi possibili. C’è chi sostiene che il virus sia stato creato intenzionalmente in un laboratorio di Wuhan. Chi sostiene che si diffonda per mezzo della tecnologia G5 o delle coltivazioni OGM. Chi sostiene che le cure efficaci ci sarebbero, ma siano tenute nascoste. E l’elenco potrebbe continuare.
Queste teorie sono accumunate da alcuni tratti di fondo. Tra questi, una spiccata tendenza alla dietrologia – a pensare che la realtà sia diversa da come appare e che trame di senso nascoste connettano ciò che agli occhi dei più può sembrare frutto del caso; una tendenza all’intenzionalismo – cioè a ricondurre tutto ciò che succede all’azione deliberata di agenti intenzionali; e una tendenza al semplicismo – ovvero a semplificare drasticamente, quanto indebitamente, questioni complesse, cercando spiegazioni lineari e intuitive.
Come molti studi hanno messo in luce, questi tratti caratteristici del pensiero complottista a loro volta hanno origine in importanti bisogni psicologici che noi tutti abbiamo.
Innanzitutto, bisogni epistemici di comprensione e di certezza soggettiva – particolarmente acuti in un momento in cui dubbio e confusione regnano anche tra quegli esperti dai quali vorremo risposte sicure. La cognizione umana è caratterizzata da una forte “pulsione verso la comprensione causale” – una smania di conoscere la trama esplicativa sottesa al mondo che ci circonda. Quando non disponiamo di spiegazioni per qualche fenomeno, o quando quelle di cui disponiamo sono troppo complesse per le nostre capacità cognitive, piuttosto che limitarci a sospendere il giudizio, ne produciamo noi stessi di più semplici e intuitive. L’incertezza è infatti una condizione psicologica difficile da tollerare: meglio una spiegazione inaccurata o infondata che una lacuna nella nostra “mappa causale” del mondo.
Non tutte le spiegazioni sono per noi ugualmente attraenti, però. Come già sottolineato, tendiamo a preferire spiegazioni “intenzionaliste”, che ascrivono la responsabilità di ciò che accade alle intenzioni di qualcuno.
Questa tendenza risponde a un altro fondamentale bisogno psicologico: il bisogno di controllo. Tutti desideriamo sentirci in qualche modo padroni delle nostre vite, capaci di determinarne almeno alcuni aspetti importanti. Il pensiero per cui ciò che ci succede è prodotto dalle intenzioni di un agente può aiutarci ad appagare questo bisogno, dandoci l’impressione (sia pur illusoria!) di poterlo controllare meglio: se ci sono dei responsabili, questo significa che almeno in linea di principio c’è qualcosa che è in nostro potere fare – fosse anche solo denunciarli pubblicamente.
La tendenza al “ragionamento motivato” – cioè a lasciare che i nostri bisogni e desideri guidino i nostri ragionamenti e influenzino ciò in cui crediamo – non è prerogativa esclusiva del pensiero complottista. È una caratteristica pervasiva della cognizione umana, che diventa particolarmente evidente in momenti di crisi o stress.
Se guardiamo criticamente ai nostri pensieri e ragionamenti, non è difficile rendersene conto. La ricerca di responsabili da biasimare, per esempio, è quantomai diffusa. Pensiamo a quanti dei nostri post sui social media dall’inizio della pandemia sono stati contro qualcuno – “chi ci governa”, “quelli che si assembrano a Ferragosto”, “quelli che pensano allo sci mentre la gente muore”, “quelli che tengono la mascherina abbassata”, “i runner”… – cui abbiamo ascritto responsabilità di vario genere per la situazione nella quale ci troviamo. Naturalmente in alcuni casi l’attribuzione di responsabilità è ragionevole e doverosa. Molto di ciò che accade è in effetti determinato dall’agire intenzionale di qualcuno. Ma molto non vuol dire tutto. E noi facciamo fatica ad accettare anche minimi margini di fatalità, soprattutto quando gli accadimenti in questione sono sgradevoli e preoccupanti. Almeno una parte dei nostri frequenti attacchi e sfoghi contro presunti responsabili sembra nascere più dal bisogno di dare un volto al colpevole per sentirsi in controllo di una situazione difficile, che da una lucida analisi di errori e responsabilità degli individui con cui ce la prendiamo. Quello stesso bisogno che come abbiamo visto è alla base del complottismo.
Riconoscere la continuità tra i meccanismi del pensiero complottista e quelli che guidano molti nostri pensieri quotidiani è importante. Non certo per negare che il complottismo in senso proprio sia un fenomeno distintivo – senza dubbio lo è, non foss’altro che per la marcatissima sfiducia nelle istituzioni che lo caratterizza; né tantomeno per sminuirne i rischi.
Ma riconoscere che esso nasce da meccanismi cognitivi universali significa ammettere che siamo tutti meno razionali di quanto pensiamo di essere. E questo è importante perché, per quanto buonista possa suonare, non c’è modo migliore di cambiare le cose che partire da noi stessi. Se tutti iniziassimo a riconoscere le nostre irrazionalità, a moderare i nostri toni rabbiosi, e, perché no, a cercare di empatizzare con i bisogni altrui, anche la qualità del dibattitto pubblico migliorerebbe sensibilmente.
E questo potrebbe anche contribuire a ridimensionare il complottismo stesso, il quale si nutre di un dibattito polarizzato e di una esasperata distinzione tra “noi” e “loro” (la cosiddetta “otherisation”), che alimenta sospetti, divisioni, sfiducia reciproca.
Se a livello psicologico il complottismo nasce da fallacie tipiche del ragionamento motivato, infatti, diversi studi mostrano che a livello sociale esso spesso nasce in condizioni di disagio o svantaggio, ed è fortemente legato a dinamiche di identità di gruppo (come vediamo chiaramente nel caso dei supporter QAnonisti di Trump, ma lo stesso avviene anche in altri contesti sociali).
Rafforzare la coesione sociale e i valori di comunità – oltre a ridurre le diseguaglianze per ristabilire fiducia nelle istituzioni – è la strada da perseguire per combatterlo.