COME SI RAFFORZA DAVVERO IL LAVORO

Le cause del tasso aberrante di disoccupazione giovanile e il modo in cui si costruiscono i percorsi che mettono in comunicazione domanda e offerta di lavoro, risolvendo le situazioni di skill shortage

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Intervista a cura di Carlo Cefaloni
pubblicata sulla rivista Cittanuova, 20 gennaio 2021 – In argomento v. anche la mia intervista a LawHR, Il circolo vizioso del nostro mercato del lavoro.
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In Italia viviamo il paradosso di avere una popolazione giovanile in continua decrescita, fino agli effetti prevedibili del gelo demografico, e con alti tassi di disoccupazione e inoccupazione. Cosa è che non funziona?
Sono tentato di dare una risposta molto semplice: ciò che funziona male sono il sistema scolastico e quello della formazione professionale. Poi c’è una cosa che manca proprio del tutto, e questo pesa moltissimo sulla condizione dei giovani nel mercato del lavoro: un sistema di orientamento scolastico capillare ed efficace. L’esperienza dei Paesi più avanzati mostra che l’orientamento costituisce il primo anello di una catena efficiente di misure di politica attiva: senza di esso tutte le altre, se pur ci sono, sono molto più deboli.

E quali altre politiche attive sarebbero necessarie?
L’Italia è il grande Paese europeo con il peggiore mis-match tra domanda e offerta di lavoro. Le rilevazioni di Anpal e Unioncamere mostrano che le imprese italiane fanno fatica a trovare circa un terzo dei lavoratori che cercano: nell’ultimo trimestre 2020, nel momento peggiore di una crisi gravissima, i posti difficili da coprire sono stati circa 250.000, distribuiti in tutte le fasce professionali, dalle più alte alle più basse. Occorre costruire i percorsi che conducono chi cerca un lavoro a potersi candidare a quei posti che restano scoperti.

Con quali strumenti?
Occorrono servizi di collocamento capaci di cercare, una per una, le persone più vicine per luogo di residenza e per caratteristiche personali e professionali rispetto ai posti vacanti difficili da coprire. Individuata ciascuna persona, occorre per lo più attivare, in collaborazione con l’impresa interessata, un corso di addestramento, o di vera e propria formazione, che consenta alla persona in questione di svolgere il ruolo richiesto dall’impresa. Formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, dunque; e misurata nella sua efficacia.

Come?
Con una anagrafe della formazione, i cui dati possano essere incrociati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro, degli albi e ordini professionali, delle liste di disoccupazione. Si potrebbe così rilevare il tasso di coerenza tra formazione impartita in ciascun centro o corso finanziato con denaro pubblico, rispetto agli esiti occupazionali fatti registrare da chi lo ha frequentato.

Ci sono esempi di altri Paesi replicabili da noi?
Quello che ho appena delineato è, più o meno, ciò che accade in tutti i Paesi del centro e nord-Europa, che sono avanti rispetto a noi di due o tre decenni. Ma non occorre andare neanche tanto lontano per trovare dei buoni esempi di come potrebbero funzionare i servizi al mercato del lavoro: basterebbe andare nel Trentino-Alto Adige.

Ritiene valido e qualificante il sistema delle agenzie interinali ormai prevalente?
Le agenzie di somministrazione svolgono un ruolo utile nel settore pubblico, consentendo alle amministrazioni un incremento di flessibilità operativa necessario e, altrimenti, impossibile. Svolgono un ruolo utile anche nel settore privato, dove suppliscono all’assenza di quei “percorsi attrezzati” per l’incontro fra domanda e offerta di cui parlavo prima. Non è questa l’intermediazione dannosa tra domanda e offerta di lavoro.

Qual è invece?
È quella svolta da alcune cooperative di lavoro che, soprattutto nel settore sanitario e in alcuni settori di servizi, costituiscono un puro e semplice diaframma fra impresa e lavoratore, senza svolgere alcuna funzione apprezzabile sul piano economico, ma determinando un abbassamento della qualità del lavoro.

Non ritiene che in questa fase di crisi estrema sia necessario riconoscere al soggetto pubblico, come fa Gael Giraud, il ruolo di datore di lavoro di ultima istanza finalizzato alla crescita di settori strategici decisivi descritti nel NextGeneration Ue?
A questo proposito ho una perplessità che non riesco a superare: lo Stato è fatto per dettare le regole e sorvegliarne l’applicazione, per governare la moneta, per orientare la distribuzione delle risorse nella direzione coerente con il massimo di benessere sociale, per garantire la parità di opportunità tra i cittadini, anche attraverso l’universalità dei servizi essenziali; ma non è imprenditore. Cioè non sa innovare nell’organizzazione del lavoro, nell’individuazione delle tendenze della domanda di servizi e del modo di farvi fronte; non sa valutare né incentivare adeguatamente l’impegno dei propri collaboratori. Invece, il Next Generation ha bisogno di imprese che sappiano far fruttare in modo efficiente i nuovi investimenti. In questo annus horribilis chi ci ha reso i servizi più preziosi sono le imprese farmaceutiche che hanno saputo fare il miracolo di darci il vaccino contro il Covid-19 in tempi strepitosamente rapidi, i sistemi di comunicazione telematica, le imprese del settore della logistica e della consegna a domicilio: lo Stato non sarebbe mai stato in grado neppure di immaginare la possibilità di questi servizi.

Però quella che ci ha salvato è stata la sanità pubblica.
Sì, ma attenzione: qualificare un servizio come “pubblico” significa stabilire che esso deve essere garantito a tutti senza discriminazioni, in modo imparziale e trasparente; può anche significare – e questo è certamente il caso della sanità – che, per garantirne l’universalità, esso deve essere sorretto da un forte finanziamento pubblico. Ma non significa che quel servizio debba essere svolto direttamente dallo Stato o da un ente locale. La scuola è un servizio pubblico anche quando a svolgerlo sono dei privati; lo stesso discorso vale per l’erogazione dell’energia elettrica, del gas o dell’acqua, per i trasporti pubblici. E vale anche per il servizio sanitario. Senza contendibilità delle funzioni, senza una ben regolata concorrenza, non c’è innovazione; e senza innovazione non c’è benessere. Detto questo, poi, va anche detto che talvolta il mercato fallisce; e questo accade con particolare frequenza nel mercato del lavoro e in quello della formazione professionale. Lì, proprio per questo, lo Stato ha un ruolo insostituibile.

La scommessa comune tra lavoratori e impresa che, nel suo ultimo libro L’intelligenza del lavoro (Rizzoli), lei indica come leva di una nuova politica delle relazioni sindacali prevede anche la possibilità di forme di partecipazione diretta alla gestione delle imprese?
La partecipazione dei lavoratori è elemento essenziale di qualsiasi scommessa comune degli stessi con l’imprenditore su di un piano industriale innovativo: perché se si tratta davvero di una scommessa comune, i lavoratori hanno titolo per essere compiutamente informati sull’andamento della realizzazione del piano e controllare la distribuzione dei frutti di un investimento di cui sono protagonisti. Questo non significa che sia opportuno imporre una determinata forma di partecipazione piuttosto che un’altra: come ho cercato di mostrare nell’ultimo capitolo del libro, è meglio lasciare che molti modelli di partecipazione si confrontino e competano tra loro. A questo servono i meccanismi della democrazia industriale.

Come valuta l’operazione Stellantis?
È indispensabile a entrambi i gruppi che ne sono stati protagonisti, perché le dimensioni del gruppo che ne è nato sono oggi indispensabili per poter reggere nel mercato mondiale dell’auto.

Non esiste un disequilibrio nelle strategie tra la presenza dello Stato francese in Psa e la non presenza di quello italiano?
Negli U.S.A. nessuno sarebbe preoccupato del fatto che in una grande impresa vi sia la partecipazione di uno dei 50 Stati della federazione; è ora che anche in seno alla UE abbandoniamo i campanilismi. Non credo, comunque, che la presenza dello Stato francese avrà un peso rilevante nelle scelte del nuovo gruppo. Mi preoccupa di più l’impreparazione del sindacato italiano rispetto alla sfida della partecipazione dei lavoratori al vertice del nuovo grande gruppo.

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