Anche senza che venga emanata una legge ad hoc, forse opportuna ma non indispensabile, a sostenere la diffusione della copertura vaccinale ben possono contribuire i rapporti di lavoro: quando questa misura di protezione sia concretamente praticabile, essa può e deve essere disposta dal datore a norma dell’articolo 2087 del codice civile
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Articolo pubblicato da lavoce.info il 31 dicembre 2020 – In argomento v. anche la mia intervista al Corriere della Sera del 29 dicembre 2021
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Il diritto costituzionale di rifiutare un trattamento sanitario
L’articolo 32 della Costituzione sancisce la libertà di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, salvo quello per il quale la legge istituisca un obbligo. Ora, l’ordinamento italiano conosce numerosi casi di vaccinazioni rese obbligatorie da norme di legge per singole categorie di persone o per tutti: quelle contro il tetano (1963), contro la tubercolosi (2000), contro la difterite, il tetano, la pertosse, la poliomielite, l’epatite B, l’Haemophilus influenzae tipo b, il morbillo, la parotite, la rosolia e la varicella (2017); ma a tutt’oggi nessuna norma ha reso obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19; né avrebbe evidentemente potuto, in assenza del vaccino stesso.
Così stando le cose, la questione che si pone è se, pur in assenza di una legge che la renda obbligatoria, e finché duri la pandemia, sia consentito a un imprenditore richiedere la vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti che abbiano la possibilità di sottoporvisi. In altre parole, se il vincolo non specificamente previsto da una legge per la generalità delle persone possa essere attivato a carico di determinate persone per effetto del contratto di lavoro di cui esse sono titolari (ma anche, eventualmente, per effetto di un contratto di trasporto, di ristorazione, o di altro genere). Coloro che sostengono la risposta positiva – tra i quali l’ex-procuratore della Repubblica Raffaele Guariniello e chi scrive – fondano questa tesi su alcune norme di legge, una di carattere generale e una di carattere specifico, che obbligano il datore di lavoro a realizzare le condizioni di massima sicurezza e igiene in azienda. Vediamone il contenuto.
L’obbligo di sicurezza a carico dell’imprenditore
L’articolo 2087 del Codice civile obbliga l’imprenditore, pubblico o privato, ad adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Occorre dunque chiedersi se, in una situazione di pandemia da Covid-19, una fabbrica o un ufficio nel quale tutti siano vaccinati contro questo virus realizzi condizioni di sicurezza contro il rischio dell’infezione apprezzabilmente maggiore, rispetto alla fabbrica o ufficio nel quale una parte dei dipendenti non sia vaccinata. Se le indicazioni della scienza medica sono univocamente in questo senso, l’imprenditore deve ritenersi obbligato dall’articolo 2087 a richiedere a tutti i propri dipendenti la vaccinazione, dove questa sia per essi concretamente possibile.
L’articolo 279 del Testo Unico sulla sicurezza negli ambienti di lavoro (decreto legislativo n. 81/2008) prevede in modo più specifico l’obbligo per l’imprenditore di richiedere la vaccinazione del dipendente. La previsione è riferita al rischio di infezione derivante da un “agente biologico presente nella lavorazione”; tuttavia, se l’obbligo è esplicitamente previsto dalla legge per questo rischio specifico, è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio grave di infezione derivante dalla pura e semplice compresenza di diverse persone in uno spazio chiuso.
Si obietta che anche la persona vaccinata può essere portatrice sana del Covid-19; ma il rischio di contagio, in questo caso, è molto inferiore rispetto al caso della persona che sta incubando la malattia: incubazione che la vaccinazione impedisce. Finché dura la pandemia, dunque, anche le persone vaccinate dovranno continuare a rispettare le misure di prevenzione fin qui praticate, come l’indossare la mascherina e mantenere la distanza prescritta dalle altre persone; ma la vaccinazione sarà comunque un rilevantissimo fattore di sicurezza aggiuntivo; e come tale il datore di lavoro avrà il dovere, dove possibile, di applicarla.
Ipotizziamo il caso di un ospedale o casa di cura che non richieda il rispetto di questa misura ai propri medici e infermieri (cui pure sia data la possibilità di vaccinarsi): se dall’omissione deriverà la malattia di una persona, dipendente o paziente, l’azienda ne sarà evidentemente responsabile, allo stesso modo in cui lo sarebbe se il danno fosse derivato dal mancato rispetto di una qualsiasi altra misura di sicurezza suggerita dalla scienza, dalla tecnica e/o dall’esperienza.
Il possibile motivo ragionevole di rifiuto
A questo punto si pone la questione delle conseguenze che possono derivare per il medico o l’infermiere che, pur potendo vaccinarsi, rifiuti di soddisfare la richiesta della casa di cura od ospedale. In primo luogo dovranno essere esaminate le ragioni del rifiuto: potrebbe essere addotta, per esempio, una condizione di immunodeficienza o altra condizione che sconsigli la vaccinazione. In questo caso la Direzione sanitaria dovrà adottare, se possibile, misure appropriate per consentire comunque lo svolgimento della prestazione nella condizione della massima possibile sicurezza; in caso contrario potrebbe rendersi necessaria la sospensione della prestazione con attivazione dell’integrazione salariale. Se invece il rifiuto non è ragionevolmente motivato, si pone la questione di quale sia il provvedimento più appropriato: potrà prospettarsi la sospensione dal lavoro senza retribuzione alla persona ingiustificatamente renitente (perché ad essa la causa della sospensione è imputabile) e sostituzione fino a che la pandemia non sia cessata: una legge che lo prevedesse sarebbe una auspicabile fonte di chiarezza. Dove questo non sia possibile, non può escludersi il licenziamento, dal momento che – per giurisprudenza costante – può sicuramente essere licenziato chi rifiuta senza giustificato motivo una misura necessaria per la sicurezza propria e dei terzi.
Potrà costituire motivo ragionevole di rifiuto della vaccinazione la preoccupazione per i suoi possibili effetti indesiderati? A me pare di no, dal momento che il compito di valutare la sicurezza dei vaccini, come di qualsiasi altra misura di protezione della salute, è affidato dall’ordinamento agli organi competenti. D’altra parte, i rischi derivanti dalla mancata vaccinazione, per la persona renitente come per chi con essa entra in contatto, sono sicuramente molto più gravi dei rischi connessi con la vaccinazione.
Ammissibilità di un ragionevole dovere contrattuale di vaccinazione
Con questo si reintroduce un obbligo generale di vaccinazione che la legge non prevede? No. I renitenti potranno continuare a non vaccinarsi. Ma non potranno pretendere di essere ammessi in un ambiente di lavoro la loro presenza sia fonte di rischio per la salute altrui. Lo stesso discorso vale in relazione ad altri rapporti contrattuali, quali quello di trasporto, di albergo, o di ristorazione, o in relazione all’accesso a spazi aperti al pubblico, come supermercati o sale per spettacoli, dove l’ordinamento non vieta affatto che venga richiesto un certificato di vaccinazione. Anche senza che venga emanata una legge ad hoc, opportuna ma non indispensabile, ben possono essere i rapporti contrattuali di diritto privato a sostenere la diffusione della copertura vaccinale, perché dove sia a rischio la salute delle persone il contratto può prevedere questa misura di protezione, là dove essa sia concretamente praticabile.
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