LE CREPE NELLA CORONA DEI WINDSOR

Il serial di Netflix mette a nudo, con gli arcana imperii della Royal Family, le due contraddizioni che minano le fondamenta del trono di San Giacomo

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Recensione della serie televisiva
The Crown, Netflix, pubblicata sul quotidiano Il Foglio il 5 gennaio 2021 – In argomento v. anche l’articolo di Steven Erlanger pubblicato sul New York Times il 4 novembre 2017, No one knows what Britain is anymore .
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Winston Churchill, grande protagonista delle prime due “stagioni” del serial

Colossale opera cinematografica di alta qualità, la serie The Crown scritta da Peter Morgan e realizzata da Netflix si avvia al completamento, proponendosi di condurre il racconto fino ai giorni nostri. Una sorta di storia politica della Gran Bretagna nell’arco di quasi un intero secolo (parte dall’abdicazione di Edoardo VIII, nel 1936) guardata con gli occhi dei membri della famiglia reale: culturalmente rozzi, profondamente classisti, incapaci di empatia verso il loro popolo, per lo più distratti dalle rispettive movimentatissime vicende coniugali ed extra-coniugali, ma nondimeno dotati di una loro capacità di affascinare il mondo intero. Lungo l’arco delle 40 puntate per ora disponibili – sono in arrivo altre due “stagioni”, con un’altra ventina di puntate – si assiste al disfacimento dell’impero britannico e al declino progressivo del peso della nazione nella politica mondiale, vivendo in diretta dalle stanze di Buckingham Palace episodi drammatici come il bombardamento di Londra con i V2, la crisi di Suez del ‘56, l’assassinio di Kennedy del 1963, la gravissima crisi della sterlina di poco successiva, la contrastata ammissione della Gran Bretagna nella Comunità Economica Europea, la guerra delle Falkland.

I candidati alla ghigliottina

Il valore dell’opera sta soprattutto nello sguardo indiscreto, penetrante, veritiero e storicamente preciso, intrusivo al punto di indagare nelle pieghe dei rapporti personalissimi dei Windsor tra loro e con i/le rispettivi/e amanti, nonché in quelle dei rapporti della longeva, inappuntabilmente anaffettiva Regina Elisabetta con ciascuno dei Primi Ministri da Churchill in poi. Il tutto è reso spettacolare da una regia impeccabile, dalla scenografia calligraficamente sontuosa, largamente fondata sulle nuove tecnologie cinematografiche, che consentono di dare allo spettatore una sensazione di familiarità con le residenze reali, soprattutto     quella di Buckingham Palace. E dalla recitazione strepitosa delle due attrici che interpretano la stessa Regina lungo l’arco di tutto il regno, ma anche degli attori che interpretano suo marito Filippo, suo figlio Carlo e la di lui moglie Diana, la sorella Margaret (qui sopra alla destra di Elisabetta) e il di lei marito Tony Armstrong Jones, la Regina Madre, Winston Churchill, Harold Macmillan, Harold Wilson.

Margaret Thatcher nella fiction (a sinistra) e nella realtà

Forse un po’ caricaturale l’interpretazione di altri grandi personaggi: in particolare quella di Margaret Thatcher; della quale però è descritta benissimo la distanza che la separa – lei, espressione di una piccola borghesia modesta e operosa – dal mondo vacuo e indolente dell’alta aristocrazia. Da antologia la puntata del serial dedicata alla visita della prima premier donna al castello di Balmoral durante un periodo di vacanza della famiglia Windsor, che lei guarda con lo stesso cipiglio riservato da Robespierre a Luigi XVI. Cordialmente ricambiata, del resto, dai novelli candidati alla ghigliottina.

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Elisabetta II all’epoca dell’incoronazione (primi anni ’50), nel film (a sinistra) e nella realtà

La grandezza e il fallimento di Elisabetta

Come ne esce la dinastia reale? Nel complesso, a me sembra, molto male. Di Elisabetta le prime “stagioni” della saga esaltano la vocazione di vestale planetaria del Commonwealth, l’ultima illustra lo scontro durissimo con Margaret Thatcher sulle sanzioni contro il regime razzista sudafricano, tutte scolpiscono il ruolo sovrumano di monarca costituzionalmente refrattaria alle emozioni, politicamente e socialmente indifferente perché devota solo al dovere di assoluta imparzialità del suo alto ufficio. Ma, sulla distanza, questa grandezza si sgretola a causa del disastroso fallimento della stessa Elisabetta nel ruolo di madre e di capo della Royal Family.

Elisabetta II alla fine degli anni ’70 (a sinistra nella fiction)

In una scena struggente dell’ultima “stagione” del serial lei se ne mostra del tutto consapevole nel corso di un dialogo notturno col marito che, tetragono agli eventi, cerca di convincerla del contrario. In un’altra scena ancora più struggente Diana cerca invano di accendere in lei una scintilla di empatia, spingendosi a cercar di forzare un abbraccio materno, ma scontrandosi con il muro della sua anaffettività. A Diana come a Carlo e agli altri figli Elisabetta cerca di inculcare il dovere istituzionale del sacrificio delle proprie emozioni e dei propri sentimenti; ma il risultato – lei stessa lo constata – è una sequenza continua di disastri affettivi.

Lo stigma del tradimento

Uno dei meriti di questo colossal è di porre in rilievo la crepa nascosta nell’edificio politico-culturale della monarchia britannica (ma forse di qualsiasi monarchia che pretenda di sopravvivere nel XXI secolo): la contraddizione fra il dovere di rinunciare ai propri sentimenti per incarnare l’istituzione – quello che Elisabetta e Filippo non perdono occasione di indicare ai figli come The Duty – e il fatto di non avere scelto affatto questo mestiere, avendolo soltanto ereditato per nascita. A ben vedere, lo stesso dovere incombe in qualche misura su qualsiasi statista o capo politico; ma in una repubblica questo è un ruolo per il quale volontariamente ci si candida, mentre in una monarchia, e più che mai nella corte di San Giacomo, è un ruolo che viene attribuito iure ereditario anche a chi non ha alcuna vocazione personale ad adempierlo.

Carlo e Diana nella realtà (a sinistra) e nella fiction

Chi a quel ruolo si sottrae è bollato con lo stigma del tradimento. Stigma esplicito nel caso di Edoardo VIII, che rinuncia al trono per poter impalmare la pluridivorziata Wally Simpson (togliendo peraltro il Governo dall’imbarazzo suscitato dalle sue marcate simpatie naziste). Stigma implicito in mille squalifiche, invece, nel caso dell’erede Carlo, che non accetta di conformarsi al modello costituzional-atarassico di sua madre; ma che finisce poi col farsi complice della famiglia nella messa in scena della grande truffa, il matrimonio consapevolmente falso con Diana. Comportamento ambiguo che induce suo padre (nell’ultima, terribile puntata della quarta serie) a parlare di lui con Diana come di un malato di mente; e motiva sua madre a portare il peso della corona fino a tardissima età per sfiducia nell’idoneità del figlio a indossarla degnamente. Ma lo stesso stigma colpisce in modo drammatico anche la grande vittima della truffa, Diana, cui non si perdona la pretesa di avere e coltivare una spiccata personalità distinta da quella del principe suo marito e virtù pubbliche nettamente superiori. Alla luce del trattamento riservato dall’establishment a Carlo e a Diana si capisce il gran rifiuto degli onori e oneri della dignità reale compiuto ultimamente dal loro figlio Harry con la moglie Meghan.

Se gli arcana imperii vengono messi a nudo

La contraddizione fra il compito costituzionale della Royal Family e la prevedibilissima assenza di vocazione a (e capacità di) farsene carico dei suoi membri è a sua volta causa di una seconda contraddizione grave, che costituisce un altro filo conduttore del serial di Peter Morgan: quella tra ciò che la famiglia reale dovrebbe rappresentare agli occhi della nazione e ciò che essa sempre più visibilmente è nella realtà.

La principessa Margaret nella fiction (a sinistra) e nella realtà

La Royal Family dovrebbe essere modello di virtù civiche e al tempo stesso immagine di felicità e perfezione di vita, mentre presenta ogni giorno di più un’immagine di imperfezione, a tratti perfino abiezione, e per lo più di grande frustrazione e persino miseria esistenziale. A cominciare da Margaret, sorella minore di Elisabetta; ma non diversa è l’infelicità e la frustrazione di cui si vedono soffrire i due figli maggiori della sovrana. Questa contraddizione poteva essere tenuta a bada nei secoli passati, quando ancora la protezione degli arcana imperii riusciva a coprire meschinità, tradimenti, odii, miserie e infelicità conseguenti; ma viene inevitabilmente alla luce del sole nell’era dell’informazione pervasiva e intrusiva veicolata da Internet e dai social media.

La grande scalinata doppia all’entrata di Buckingham Palace

La turris eburnea di Elisabetta e Filippo in mezzo alle macerie

Il solo a salvarsi, nella saga dei Windsor, è il matrimonio di Elisabetta e Filippo, da lei tenuto in piedi con determinazione ferrea nonostante la mortificazione atroce inflittale dal tradimento sistematico e ostentato di lui in tutta una lunga prima fase, e nonostante la montagna di frustrazioni che affliggono lui stesso, in quanto marito che non decide e non conta, secondo in tutto rispetto alla moglie, la sola da cui tutto veramente dipende. L’unione profonda ritrovata dai due nella maturità e la vera e propria fede ora professata da entrambi nelle virtù del matrimonio indissolubile è un altro tema emotivamente forte, che emerge dal serial a tutto tondo, trattato dall’autore e dal regista con grande maestria. Ma la solidità ritrovata di quel matrimonio, che ne fa una sorta di turris eburnea in mezzo alle macerie del resto della Royal Family, non basta per salvare l’immagine della monarchia. Se la sua funzione essenziale è di unire un intero Paese rappresentando la proiezione dei desideri di felicità e prosperità della generalità dei cittadini, la saga dei Windsor raccontata da Netflix, svelando gli arcana imperii e mostrando “di che lacrime grondi e di che sangue”, mettendo impietosamente in evidenza le crepe profonde che minano la casa regnante, segna la sua condanna.

La dinastia dei Windsor potrà forse essere tenuta a libro-paga ancora per qualche tempo a fini folkloristici da un Governo che ha troppe altre gatte da pelare per potersi occupare anche di mandare il trono in soffitta. Ma quel trono prima o poi finirà col crollare da solo, travolto dalle sue stesse contraddizioni.

 

 

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