È quella gestita dai Comuni sulla base di un’intesa precisa coi cittadini per l’investimento in infrastrutture che aumentano il benessere e il valore stesso degli immobili – Un aumento dell’imposizione, se esteso ai beni mobili, sarebbe controproducente; se limitato agli immobili sarebbe iniquo
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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata da Italia Oggi il 17 dicembre 2020 – In argomento v. anche Patrimoniale: domande e risposte
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Anche soltanto a parlare di un prelievo sui patrimoni mobiliari, si può subito essere certi di un effetto negativo: un incentivo alla fuga dei capitali». Così Pietro Ichino, professore emerito di diritto del lavoro dell’università di Milano, considerato il padre del Jobs act, ex parlamentare del Pd, di cui è stato uno dei fondatori. A fronte di chi in parlamento torna a soffiare sul vento della patrimoniale, Ichino evidenzia «gli ostacoli oggettivi» che rendono problematico se non controproducente una tassazione sui patrimoni. Anche immobiliari: «Le case non si possono usare per pagare la tassa», spiega Ichino, «e accade diffusamente che all’entità della proprietà immobiliare non corrisponda la disponibilità di denaro liquido in proporzione». Ed è vero, dice Ichino, che l’Italia a fronte di un alto debito pubblico ha anche patrimoni privati mediamente più ricchi di quelli europei, ma «questo non basta per rendere opportuno un aggravio della patrimoniale già esistente».
D. Si torna a parlare di patrimoniale, al voto della Camera c’è l’emendamento Pd-Leu alla legge di bilancio. Professor Ichino, tassare i patrimoni è una soluzione praticabile per ripagare il debito pubblico o far fronte alle maggiori esigenze di spesa pubblica dovute alla crisi?
R. Nell’opinione pubblica di sinistra è molto diffusa la convinzione che un’imposta patrimoniale costituisca uno strumento efficace ed equo, in quanto grava su chi è più ricco: patrimoniale straordinaria per ridurre il debito pubblico, patrimoniale ordinaria per ridurre il deficit di bilancio annuale. Non è però altrettanto diffusa la consapevolezza degli ostacoli oggettivi che rendono molto problematico l’uso di questo strumento.
Quali ostacoli?
Tassare i patrimoni immobiliari è relativamente facile: c’è solo il problema dei valori catastali non aggiornati. Invece, tassare le azioni, le obbligazioni, i depositi bancari, soprattutto quando a farlo è uno Stato nazionale di dimensioni piccole o medie come l’Italia, presenta controindicazioni molto gravi, al punto che anche solo il danno indirettamente prodotto per l’Erario dal prelievo fiscale rischia seriamente di superare il gettito del prelievo stesso.
Può chiarire meglio questo punto?
Appena si incomincia anche soltanto a parlare di un prelievo sui patrimoni mobiliari, si può subito essere certi di un effetto negativo: un incentivo alla fuga dei capitali, da un Paese che già soffre di un grave difetto di attrattività per gli investitori. Ogni milione dei capitali che si allontanano dall’Italia ha un costo immediato sia in termini di occupazione, sia in termini di gettito per l’Erario. Non è irragionevole temere che il gettito dell’imposta, se essa verrà istituita, non arrivi neppure a coprire il danno prodotto dal solo annuncio della stessa, in termini di fuga dei capitali dal nostro Paese.
Questo problema, però, per la proprietà immobiliare non si pone.
R. Già, ma le case non le si possono usare per pagare la tassa. Se l’aliquota fosse, per esempio, il 2 per cento, il contribuente non potrebbe pagarla cedendo all’Erario il 2 per cento dell’immobile di cui è proprietario. E accade diffusamente che all’entità della proprietà immobiliare non corrisponda la disponibilità di denaro liquido in proporzione.
Rivedere le rendite catastali non è, in fondo, una forma surrettizia di patrimoniale?
R. Sugli immobili soggetti all’IMU è così. Logica vorrebbe, però, che dell’IMU non si occupasse lo Stato, ma gli enti locali, che sono finanziati con il gettito di questa imposta. Questa sarebbe una “patrimoniale buona”, perché consentirebbe che modelli diversi di politica fiscale si confrontassero e competessero tra loro: per esempio, quella del Comune che chiede ai propri cittadini di sopportare un prelievo maggiore per finanziare ingenti investimenti sui mezzi di trasporto, sull’edilizia per le scuole, per le attività sportive, o su altre infrastrutture che valorizzano l’intero tessuto urbano e quindi gli stessi immobili che vengono tassati, e la politica fiscale del Comune che invece investe poco ma esige anche poco dai propri contribuenti. Questa possibilità di confronto consentirebbe anche di evidenziare, e agli elettori di punire, il Comune che tartassa i propri cittadini, ma non per investimenti bensì per incrementare la spesa corrente.
Che probabilità vede di una patrimoniale straordinaria nel 2021 per far fronte alla crisi?
R. Molto modesta. Perché i politici sanno bene che un’imposta sui soli “grandi patrimoni” non avrebbe alcun impatto apprezzabile sul debito pubblico. Se invece l’imposta colpisse anche i patrimoni di entità più bassa, sarebbe vissuta dal ceto medio come il comportamento iniquo di uno Stato che copre in questo modo la propria incapacità di correggere i propri difetti. Uno Stato, per di più, che sta espandendo la propria presenza attiva nel sistema economico e continuando a sperperare risorse in grandi buchi neri come quello di Alitalia.
L’idea che l’Italia debba far fronte alla crisi anche ricorrendo al proprio patrimonio, però, non è appannaggio della sola sinistra. I cosiddetti paesi frugali questo ci dicono: “siete i più indebitati, ma anche quelli che hanno patrimoni privati mediamente più ricchi”. È così? Siamo ricchi e piangiamo miseria?
R. C’è del vero in quello che ci obiettano i paesi frugali. Però questo non basta per consigliare senz’altro un aggravio dell’imposizione sui patrimoni già in atto. Walter Veltroni, quando tornò al Lingotto nel gennaio 2011, propose un patto tra Stato e cittadini per l’abbattimento del debito pubblico, che prevedeva una prima fase di severa spending review – quella di cui oggi parla Cottarelli ma che finora non si è neppure incominciata –, di contrasto efficace all’evasione fiscale anche con una drastica riduzione della circolazione di contante, di dismissioni della parte di patrimonio statale suscettibile di essere venduta senza danno per la funzione pubblica. In quel programma, l’ipotesi della patrimoniale straordinaria si collocava solo in una seconda fase e solo se la prima fase, pur attuata con rigore dal Governo, non fosse riuscita a produrre per intero il risultato sperato.
I contribuenti potrebbero fidarsi di un patto di questo genere?
R. Occorrerebbe che la politica abbandonasse le grandi affermazioni di principio e incominciasse a usare il linguaggio dei numeri: dalle dismissioni intendiamo ricavare tot miliardi l’anno; dalla riduzione della circolazione del contante ci proponiamo di ottenere una riduzione dell’evasione fiscale di tot; nel bilancio di questo ministero ci impegniamo a spostare tot punti percentuali dalla spesa corrente agli investimenti; e così via. Allora si potrebbero giudicare i governi confrontando i risultati raggiungi con gli obiettivi enunciati: obiettivi specifici, misurabili, legati a scadenze temporali precise. E gli elettori potrebbero esprimere un voto meno ideologico, più basato sui fatti concreti.
Che alternative ci sono a una patrimoniale straordinaria?
R. Occorrerebbe incominciare seriamente dalla dismissione dalla parte del patrimonio pubblico, immobiliare e mobiliare, che è male posseduto e male utilizzato: lo Stato non può avventatamente ricorrere all’imposizione patrimoniale straordinaria, in funzione della riduzione dello stock del debito, finché tanta parte del suo stesso patrimonio è così poco e male utilizzata. In molti casi essa è lasciata deperire senza alcuna utilità, come una grande manomorta.
Ma la crisi, mentre ha impoverito molti, ha anche arricchito alcuni altri: soprattutto i giganti della logistica e del web.
R. È vero che c’è chi si è arricchito con questa crisi. Però non dimentichiamo che metà del maggior reddito di chi si è arricchito è tornato alla collettività in gettito fiscale. E non dimentichiamo neppure che senza Amazon, Google e gli altri giganti del web avremmo vissuto questa crisi molto peggio. La vera giustizia sociale si costruisce con l’imposizione progressiva sul reddito e investendo robustamente su tutto ciò che crea parità di dotazioni di partenza e di opportunità per le persone: soprattutto la scuola, la sanità pubblica, i servizi al mercato del lavoro.
A fine marzo cesserà il blocco dei licenziamenti. E a inizio 2021 finiranno molti dei sussidi messi in campo finora per fronteggiare i contraccolpi economici dell’epidemia. Quali conseguenze si attende sul piano economico e sociale?
R. La fine del blocco dei licenziamenti non produrrà un aumento della disoccupazione effettiva, ma solo di quella riconosciuta come tale nei dati statistici. Le persone che hanno perso il lavoro in questi mesi sono già disoccupate oggi, ma non sono contate come tali. Continueranno a ricevere un sostegno parziale del reddito, ma in forma di NASpI invece che di Cassa integrazione. Il problema è che il blocco dei licenziamenti è stato un po’ come mettere queste persone in freezer: non si è fatto nulla per predisporre i servizi e i percorsi necessari per la transizione verso il nuovo lavoro.
Ma quale nuovo lavoro?
Nell’ultimo bollettino Anpal-Unioncamere si indicano in 763.770 le assunzioni previste dalle imprese italiane nel trimestre ottobre-dicembre; e nel 32,5 per cento i casi difficoltà di reperimento delle persone cercate: quasi un caso ogni tre, oltre 250.000 posti di lavoro. Un enorme “giacimento occupazionale” che stiamo sprecando, perché abbiamo preferito nascondere la polvere sotto il tappeto piuttosto che affrontare il problema fin dal suo nascere.