L’idea dell’imposta sulla proprietà per uscire da una crisi economica eccezionale soddisfa un desiderio elementare di equità sociale; ma, anche se si condivide fino in fondo questo valore, non si possono ignorare i gravi ostacoli oggettivi a un’opzione di questo genere, ne trascurare le misure alternative disponibili
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Domande frequenti e relative risposte sulla questione dell’imposta patrimoniale – In argomento v. anche Tassare i patrimoni è la soluzione per il problema del debito?
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Nell’opinione pubblica di sinistra è molto diffusa la convinzione che un’imposta patrimoniale costituisca uno strumento efficace ed equo, in quanto grava su chi è più ricco, per ridurre il debito pubblico (patrimoniale straordinaria, una tantum) o per ridurre il deficit di bilancio annuale (patrimoniale ordinaria). Non è altrettanto diffusa la consapevolezza degli ostacoli oggettivi che rendono molto problematico l’uso di questo strumento. Vediamo le domande che si pongono più frequentemente in proposito e le risposte che, a mio modo di vedere, devono essere date.
Perché l’idea di un’imposta patrimoniale per far fronte alla crisi eccezionalmente grave che stiamo attraversando, dando una bella botta al debito pubblico, incontra tanta resistenza anche in una parte della sinistra?
L’idea è suggestiva. Si dice: “il debito pubblico grava mediamente su ciascun cittadino italiano per circa 60.000 euro? Facciamo un prelievo progressivo una tantum che gravi in media per 15.000 euro pro capite, e avremo ottenuto di allineare in un colpo solo il nostro debito a quello dei nostri maggiori partner europei e di mettere tranquilli i nostri creditori”. Sarebbe sbagliato rifiutare questa soluzione soltanto per ragioni ideologiche. Occorre però valutare molto attentamente le difficoltà pratiche che rendono questa scelta poco praticabile.
Quali difficoltà?
La prima è che tassare i patrimoni immobiliari è relativamente facile, mentre tassare quelli mobiliari – azioni, obbligazioni, conti correnti, ecc. – presenta problemi e controindicazioni molto gravi. E tassare solo i primi e non i secondi sarebbe evidentemente iniquo.
Quali sono gli ostacoli alla tassazione dei beni mobili?
Appena si incomincia anche soltanto a parlare di un prelievo sui patrimoni mobiliari si può subito essere certi di un effetto negativo: un incentivo alla fuga dei capitali, da un Paese che già soffre di un grave difetto di attrattività per gli investitori. Ogni milione dei capitali che si allontanano dall’Italia ha un costo immediato sia in termini di occupazione, sia in termini di gettito per l’Erario. Non è irragionevole temere che il gettito dell’imposta, se essa verrà istituita, non arrivi neppure a coprire il danno prodotto dal solo annuncio della stessa, in termini di fuga dei capitali dal nostro Paese.
Gli immobili, però, non possono scappare.
Ma non si possono neanche usare per pagare la tassa. Solo una parte dei contribuenti, per saldare il debito col fisco, dispone di denaro liquido, o di azioni, o di obbligazioni, che possono essere vendute rapidamente a basso costo (l’aumento delle vendite di titoli causato dall’imposta sugli immobili ha poi comunque un effetto depressivo sulle borse, che in qualche misura si può riflettere sull’economia reale). Molti altri contribuenti, invece, non ne dispongono e su troverebbero in grave difficoltà per pagare l’imposta; se l’aliquota fosse, per esempio, il 2 per cento, il contribuente non potrebbe pagarla cedendo all’Erario il 2 per cento dell’immobile di cui è proprietario.
Come si colloca l’Italia rispetto agli altri Paesi occidentali, dal punto di vista della tassazione dei patrimoni?
Se per “patrimoniale” si intende un’imposta ordinaria, cioè un prelievo sui patrimoni con cadenza annuale, con le misure adottate dal Governo Monti nel dicembre 2011 – in particolare con la reintroduzione dell’IMU sulle seconde case – l’Italia è passata dall’essere tra i Paesi UE con l’imposizione sui patrimoni più bassa, all’essere tra quelli con l’imposizione più elevata.
Ma i titolari dei grandi patrimoni non hanno sempre una disponibilità di denaro liquido sufficiente anche per pagare un’imposta patrimoniale straordinaria?
Solitamente è così. Però un’imposta limitata ai grandi patrimoni (si è parlato, per esempio, di un’imposta straordinaria su quelli superiori ai cinque oppure ai dieci milioni di euro) darebbe un gettito modestissimo, in rapporto all’entità del nostro debito pubblico.
Si può pensare a una patrimoniale che risponda soltanto a un’esigenza di carattere politico, di giustizia sociale?
L’imposizione, se è limitata ai grandi patrimoni, può soddisfare un’istanza di redistribuzione della ricchezza, che essa piaccia o non piaccia. Ma il gettito di un’imposta ordinaria limitata a questa platea non può incidere molto sul bilancio annuale. E se invece l’imposta è straordinaria, il suo gettito può a malapena scalfire il macigno del debito pubblico, non certo ridurlo in modo sensibile. D’altra parte, se la si estende ai patrimoni di entità media si incontrano le difficoltà pratiche di cui si è detto (oltre al rischio di pregiudicare il consenso del ceto medio nei confronti della politica economica del Governo).
Quali sono le alternative all’imposta patrimoniale, per incominciare seriamente a ridurre il debito pubblico?
Innanzitutto occorre, appena la congiuntura lo consente, azzerare il deficit di bilancio, per evitare che lo stock complessivo del debito continui ad aumentare. Quindi smettere di prendere a prestito denaro destinato alla spesa corrente dello Stato e far sì che l’economia nazionale torni a crescere, almeno al tasso medio del resto dell’UE. Al tempo stesso occorre operare seriamente per la dismissione del patrimonio pubblico, immobiliare e mobiliare, male posseduto e male utilizzato: lo Stato non è legittimato a ricorrere all’imposizione patrimoniale straordinaria, in funzione della riduzione dello stock del debito, finché tanta parte del suo stesso patrimonio è così male utilizzata. In molti casi essa è lasciata deperire senza alcuna utilità, come una grande manomorta.
Che cosa potrebbe vendere lo Stato?
C’è una infinità di palazzi storici di grande valore occupati malamente da ministeri e altri uffici pubblici centrali e locali, da caserme e carceri, nonostante che siano poco adatti a quelle funzioni. Qui un piano ventennale di dismissione e spostamento progressivo delle funzioni pubbliche in spazi costruiti modernamente su misura potrebbe fruttare anche una decina di miliardi all’anno. Poi ci sono le quote azionarie che il ministero dell’Economia detiene in grandi imprese, da Finmeccanica a Fincantieri, dalle Poste all’Eni e all’Enel, da Terna a Sace e ST Microelectronics; per non parlare delle aziende pubbliche locali. Un piano decennale di dismissione di queste partecipazioni, anche sotto l’ipotesi del mantenimento in mano allo Stato della golden share, potrebbe fruttare, secondo le stime disponibili, dai 6 ai 10 miliardi l’anno. Fra tutto, vorrebbe dire un abbattimento di oltre un decimo del nostro debito pubblico; ma soprattutto si lancerebbe un segnale di grande rilievo alle istituzioni europee e ai mercati finanziari.
In questo momento, però, sembra prevalere l’orientamento politico opposto: quello, cioè, a un aumento della presenza dello Stato nell’economia.
E non è una cosa buona. Non è compito dello Stato fare il mestiere dell’imprenditore, per il quale del resto esso non ha le capacità: lo Stato non sa far volare gli aerei, produrre e vendere l’acciaio, gestire il credito alle imprese e ai consumatori, e così via. L’intervento dello Stato in una azienda in crisi può giustificarsi soltanto per garantire e accompagnare la transizione dalla vecchia gestione a quella di un nuovo imprenditore, del quale non si può fare a meno. Altrimenti si riproduce il sistema delle “partecipazioni statali” inaugurato all’indomani della grande crisi del 1929, che non ha dato buona prova nella seconda metà del secolo scorso. E uno Stato che sperpera il denaro dei contribuenti come lo sperperava la maggior parte delle imprese a partecipazione statale nel secolo scorso è assai poco legittimato a utilizzare lo strumento dell’imposta patrimoniale per rimettere in sesto i propri conti.
Ma lo Stato non fa bene a mantenere almeno la propria partecipazione nelle imprese considerate strategiche per l’economia e la sicurezza nazionale?
In primo luogo dovremmo stabilire un criterio che consenta di individuare in modo ragionevole e non arbitrario le imprese qualificabili come “strategiche” (il sospetto è che si tratti di una qualifica, per così dire, molto elastica). Individuate le imprese davvero “strategiche”, poi, dobbiamo chiederci quale sia il genere di controllo necessario su di esse da parte dello Stato. Il Governo conserva sempre il potere di controllare e regolare l’attività delle imprese, anche in modo molto penetrante, quando è in gioco l’interesse generale del Paese. E può farlo persino meglio se si limita alla propria funzione di regolatore, senza commistioni con i detentori del capitale e con i responsabili della gestione aziendale.
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