Perché è necessario rinnovare i concetti fondamentali e le tecniche dell’ordinamento protettivo – La possibilità (e l’auspicio) di un contratto nazionale per il settore dei rider che disciplini sia il contratto di lavoro subordinato sia quello di lavoro autonomo
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Articolo pubblicato sul quotidiano Il Foglio il 9 dicembre 2020 – In argomento v. anche il mio articolo pubblicato l’11 novembre scorso su lavoce.info, I rider tra subordinazione e autonomia, dal quale si può risalire ai quattro articoli precedenti sullo stesso tema.
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Il platform work, cioè il lavoro organizzato per mezzo di una piattaforma digitale che mette direttamente in comunicazione domanda e offerta di servizi in tempo reale (come nel caso dei ciclofattorini, i rider), è un fenomeno così recente, che nel 2013-14, quando sono stati elaborati i contenuti del Jobs act, esso era ancora agli esordi in Europa; e sul piano del diritto del lavoro non era considerato meritevole di particolare attenzione da nessuno, né in Parlamento né fuori. Quando, un paio di anni dopo, esso è diventato una forma di organizzazione del lavoro capace di coinvolgere in tutti i Paesi europei una frazione rilevante della forza-lavoro, in particolare nel settore del food delivery, i giudici e il legislatore hanno incominciato a occuparsene per assicurare una protezione alle persone coinvolte. Ma mancavano loro le categorie concettuali adatte per inquadrare il fenomeno: rimasti alla summa divisio tra lavoro autonomo e subordinato, si sono trovati a dover scegliere tra l’applicazione dell’intero apparato protettivo e il nulla.
Giudici del lavoro e legislatore optano per l’equiparazione integrale ai dipendenti
Ultimamente, qui in Italia sia la Corte di Cassazione (seguita ultimamente da una sentenza del Tribunale di Palermo), sia il legislatore con il decreto Di Maio (n. 101/2019), pur seguendo percorsi logici in parte diversi, si sono orientati nel senso di applicare integralmente al platform work dei rider la disciplina del lavoro subordinato. Senonché questa scelta si scontra con alcuni problemi apparentemente insolubili. Uno degli effetti più rilevanti dell’assoggettamento del lavoro dei rider alla disciplina generale del lavoro subordinato, per esempio, è che diventa necessario predeterminare contrattualmente in modo precisa il tempo della prestazione lavorativa nell’arco della giornata, della settimana, del mese e dell’anno: vincolo evidentemente incompatibile con una delle caratteristiche essenziali del platform work, cioè la libertà del prestatore di presentarsi o no al lavoro e rispondere o no alle chiamate della centrale. Un altro effetto rilevante è l’applicazione necessaria di uno zoccolo retributivo garantito, correlato all’unità di tempo – che sia l’ora, la giornata, la settimana o il mese – non inferiore rispetto ai minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi nazionali: secondo la regola generale, l’eventuale “cottimo”, cioè retribuzione correlata al numero delle consegne, può dunque costituire solo un elemento aggiuntivo rispetto a quello zoccolo. È difficile considerare il combinato disposto di questi due capitoli del diritto del lavoro subordinato compatibile con i caratteri essenziali del nuovo modello di organizzazione del lavoro di cui stiamo parlando.
C’è chi plaude a questa incompatibilità, auspicando che l’orientamento giurisprudenziale confermato dalla Cassazione e la norma legislativa emanata nel 2019 producano la fine, almeno in Italia, del platform work dei rider nella forma in cui è stato sperimentato fin qui. Questo esito non è apprezzato, invece, da chi considera che questa forma di organizzazione del lavoro, adeguatamente regolata, possa svolgere una funzione sociale ed economica positiva favorendo l’accesso al tessuto produttivo a una parte dei lavoratori marginali poco qualificati e, in alcune situazioni, consentendo una flessibilità della prestazione nell’interesse del prestatore, che può costituire una condizione sine qua non per l’impegno di una persona in un lavoro retribuito.
La riscossa della contrattazione collettiva
Se ci si colloca in questo secondo ordine di idee, non si può non auspicare che il sistema delle relazioni sindacali sciolga il nodo dettando, mediante la contrattazione collettiva, una disciplina che contenga le protezioni irrinunciabili, ma anche regole in materia di tempo di lavoro e di struttura della retribuzione compatibili con le peculiarità di questa forma di organizzazione del lavoro. Un primo passo molto concreto in questa direzione è stato compiuto con il contratto collettivo nazionale per i circa 30mila ciclofattorini italiani – a quanto consta il primo al mondo – stipulato da Assodelivery (associazione che rappresenta la quasi totalità delle imprese del settore) con Ugl-Rider (sindacato che, con il suo migliaio dichiarato di tesserati, risulta essere per ora l’unico con una diffusione apprezzabile in questo settore). Questo contratto sfrutta una possibilità di deroga rispetto alla disciplina legislativa generale prevista dal Jobs Act, per consentire l’ingaggio dei rider come lavoratori autonomi a tutti gli effetti, dettando però per loro alcune norme protettive: tra queste soprattutto uno standard retributivo minimo orario commisurato a 10 euro l’ora, la tutela contro le discriminazioni, l’assicurazione antinfortunistica, i diritti di associazione e rappresentanza sindacale.
Una soluzione diversa è quella che sembra perseguita da un’impresa del settore, JustEat, fino a poche settimane fa associata ad Assodelivery, la quale ha annunciato l’intenzione di “sganciarsi” da quel contratto collettivo, per assumere come lavoratori subordinati i propri 3mila ciclofattorini: circa un decimo del totale della categoria. Per fare questo potrebbe decidere di trattarli in tutto e per tutto come lavoratori subordinati, vincolati a un orario di lavoro predeterminato e con una retribuzione fissa a tempo; ma in questo caso verrebbe meno il carattere tipico del platform work, di cui si è detto. Altrimenti, JustEat dovrà presumibilmente stipulare un contratto aziendale che preveda alcune deroghe alla disciplina generale del lavoro subordinato, soprattutto in materia di struttura della retribuzione e di orario di lavoro: cosa anche questa da tempo consentita alla contrattazione collettiva dalla legge. Si compirà, in tal caso, un’operazione specularmente inversa rispetto a quella compiuta da Assodelivery e Ugl-Rider: si inquadreranno i ciclofattorini come dipendenti, ma adattando la disciplina della retribuzione e dell’orario di lavoro alle esigenze particolari del platform work, mediante deroghe più o meno estese alla disciplina generale.
Resta il fatto, su cui nessuno spende una parola, che JustEat gestisce meno di un terzo delle consegne per mezzo dei ciclofattorini collegati con la piattaforma: per il resto essa si limita a ricevere le richieste dei consumatori e smistarle ai ristoranti, i quali provvedono in proprio alle consegne a domicilio, in forme che per ora sfuggono a qualsiasi inquadramento e controllo).
Nel frattempo si è riaperto al ministero del Lavoro un tavolo negoziale che potrebbe portare anche a una riunificazione della categoria sotto un unico nuovo contratto collettivo nazionale. Sarà interessante, nel caso in cui ciò avvenga, vedere se il nuovo contratto manterrà l’impostazione di quello Assodelivery-Ugl Rider, magari colmando alcune lacune nelle tutele previste, o se invece esso adotterà l’impostazione inversa: inquadramento dei rider come dipendenti, con ampie deroghe alla disciplina generale in materia di struttura della retribuzione e orario in funzione delle esigenze peculiari dell’organizzazione del lavoro, ma con obbligo di presentarsi in servizio tutti i giorni e di rispondere alle chiamate della centrale. Potrebbe però anche accadere – e sarebbe davvero una novità straordinaria, non solo per il sistema italiano delle relazioni industriali – che un nuovo contratto collettivo nazionale di settore preveda al tempo stesso l’una e l’altra cosa: una disciplina per i rider ingaggiati come collaboratori autonomi, quindi contrattualmente liberi circa il quando presentarsi al lavoro e se rispondere alle chiamate; e una disciplina per i rider ingaggiati come subordinati, contenente le deroghe necessarie per renderla compatibile con le caratteristiche essenziali del platform work. In ogni caso con alcune norme comuni a entrambe le categorie, in materia di tutela antidiscriminatoria e della libertà personale, diritti di informazione, diritti sindacali.
Il superamento della summa divisio tradizionale
La realtà è che questi, come altri, nuovi modelli di organizzazione resi possibili dall’evoluzione tecnologica (si pensi per esempio allo smart working) si collocano in una specie di “zona grigia”, nella quale la summa divisio novecentesca tra lavoro subordinato e lavoro autonomo si applica con crescente difficoltà e comunque appare in larga misura inadeguata alla nuova realtà. In riferimento a queste nuove forme di organizzazione del lavoro è probabilmente necessario che il diritto del lavoro elabori una nuova definizione del proprio campo di applicazione, dunque nuovi criteri di delimitazione e compartimentazione delle aree in cui si applicano le proprie discipline protettive, e adotti nuove tecniche di tutela adatte a ciascuna di esse.
La mia convinzione, non da oggi, è che, in questa profonda ridefinizione dei confini e dei contenuti del diritto del lavoro, alla nozione tradizionale di subordinazione debba affiancarsi quella di “dipendenza economica”, individuata dai tratti essenziali della monocommittenza, della durata nel tempo della collaborazione e dell’appartenenza a una fascia di professionalità e di reddito medio-bassa. Nozione, questa, che aveva assunto rilievo nel nostro ordinamento giuslavoristico per effetto della legge legge Fornero (n. 92 del 2012), per essere poi – forse troppo affrettatamente – accantonata tre anni dopo, con il decreto legislativo n. 81/2015. Una scelta, quest’ultima, che merita di essere approfonditamente riconsiderata.