IL LAVORO CHE CI SAREBBE ANCHE OGGI, E CHE SPRECHIAMO

Pur nella fase più acuta della crisi le aziende di diversi settori in rapida espansione non trovano il personale di cui avrebbero bisogno – Questo anno intero di blocco dei licenziamenti, che mette in freezer le eccedenze delle aziende in declino, è tutto tempo prezioso perduto per la ricollocazione di chi ne avrebbe bisogno

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Intervista a cura di Tobia De Stefano pubblicata su
Libero il 23 novembre 2020 – In argomento v. anche l’intervista uscita nello stesso giorno sul La Verità, Ancora su “i sommersi e i salvati”  
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«Sconcerta l’afasia del centro-sinistra e delle confederazioni sindacali sulla frattura sociale, determinata dalla pandemia, tra chi è privato del lavoro e del reddito e chi non perde un euro o addirittura ne trae beneficio». Ci voleva un tweet di Pietro Ichino, ex dirigente sindacale della Fiom-Cgil, ex parlamentare del Pd e tra i maggiori giuslavoristi del Paese per scuotere le coscienze di chi in Parlamento e fuori dalle Camere si dice solidale con i più deboli salvo poi non muovere un passo per attenuare gli effetti distorti del Covid. Per colmare le differenze di tra chi lavora a scartamento ridotto ma a salario pieno nel pubblico e chi si barcamena nel privato. Tra chi è garantito da un contratto a tempo indeterminato e chi ha una collaborazione. Tra chi ha avuto la fortuna di ricevere puntualmente la cassa integrazione e gli autonomi che aspettano da mesi le mance dei famosi ristori.

Il problema professore è che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
«È una questione di equità, di importanza cruciale per tenere unito il Paese. Il tessuto produttivo soffre per il letargo in cui sono precipitate quasi tutte le amministrazioni. La sinistra per prima dovrebbe attivarsi per un controllo rigoroso, puntuale, dell’efficienza ed efficacia dei servizi da esse erogati».

Come, in concreto?
«Battendosi per far maturare una capacità di distinguere, che invece manca del tutto. Distinguere tra i dipendenti che hanno continuato a lavorare anche più di prima, spesso in condizioni difficilissime, quelli che hanno rallentato molto, e quelli la cui prestazione è di fatto sospesa. Per lo più non per colpa loro».

Si riferisce a una parte dei dipendenti pubblici?
«La logica vorrebbe che il loro trattamento fosse lo stesso dei lavoratori privati collocati in Cassa integrazione. Con quello che si risparmierebbe si potrebbero premiare i medici, gli infermieri, le forze dell’ordine che restano coraggiosamente in prima linea, gli insegnanti che fanno davvero la didattica a distanza. Certo, occorrerebbe saperli distinguere da quelli che non la fanno, o la fanno per finta».

Ci sarebbe la manovra per mettere in pratica politiche di redistribuzione della ricchezza. Professore come giudica l’impostazione di questa legge di bilancio sul lavoro?
«Vedo una nota positiva nella decontribuzione per l’assunzione stabile di giovani sotto i 35 anni e di donne che hanno perso il posto per via della pandemia: tutto quanto riduce il costo del lavoro oggi è prezioso. Bene anche il prolungamento della possibilità di rinnovo dei contratti a termine senza bisogno della causale. Invece il prolungamento al 31 marzo del blocco dei licenziamenti è un errore grave».

Cosa succederà quando a marzo cadrà il divieto di licenziare?
«Formalmente, verrà formalizzata la cessazione di qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro. Ma nella sostanza non accadrà quasi nulla: quei posti già ora non esistono più. E le persone interessate continueranno a percepire lo stesso sostegno del reddito che stanno percependo ora, con la Cassa integrazione. Ma il guaio è che si saranno persi molti mesi preziosi, che avrebbero dovuto essere utilizzati per indirizzare le persone interessate verso la nuova occupazione. E tutti i dati disponibili dicono che ogni mese perso riduce l’occupabilità effettiva di una persona».

Ma quale nuova occupazione? Siamo nella fase più acuta di una crisi economica gravissima.
«Vede, molti settori sono flagellati dallo tsunami della pandemia, ma altri non ne sono stati colpiti; e altri ancora, proprio a causa della pandemia, hanno registrato addirittura forti aumenti della domanda e stentano a trovare le persone di cui avrebbero bisogno. Il Bollettino Unioncamere-Anpal di ottobre 2020 ci informa puntualmente delle difficoltà di reperimento di personale specializzato, qualificato, e anche non qualificato. Nell’ultimo trimestre di quest’anno si prevedono 763.000 assunzioni, con difficoltà di reperimento nel 32,5 per cento dei casi.

Basterebbero per assorbire tutte le eccedenze di personale. Quali sono i settori in cui si incontrano le maggiori difficoltà di reperimento del personale?
«Soprattutto quelli dei servizi informatici, dei servizi medico-sanitari, di quelli alle famiglie e alle comunità locali, dei servizi logistici e delle consegne a domicilio, dei servizi di installazione e manutenzione, della certificazione e controllo di qualità, della sicurezza e della tutela ambientale».

Ma occorrerebbero le famose politiche attive del lavoro.
«Che invece latitano. Da due anni, ormai, l’Agenzia che dovrebbe promuoverle è paralizzata da un presidente poco competente, e per di più assenteista perché ha conservato il suo primo lavoro nel Mississippi. Spendiamo decine di miliardi per le politiche passive, cioè il sostegno del reddito di chi perde il lavoro, cosa doverosa; ma è possibile che nessuno si occupi delle politiche attive, di cui c’è assoluta urgenza?».

Siamo ancora in tempo per porre rimedio a una probabile ondata di licenziamenti?
«Temo che l’ondata sia inevitabile. Ma ogni settimana che passa la fa ingrossare. Per le aziende che prevedono di poter riassorbire le proprie eccedenze di personale il divieto di licenziare non serve: basta la Cassa integrazione. Ma dove i posti di lavoro non ci sono più, mettere le persone interessate in freezer non risolve il problema, anzi lo aggrava».

Per il Sud tornano le agevolazioni fiscali a pioggia. Sono lo strumento giusto?
«Per lo sviluppo del Mezzogiorno occorrerebbe una forte politica di attrazione di nuovi insediamenti produttivi, per la quale gli sconti fiscali possono anche essere utili, ma servirebbe soprattutto la disponibilità di Governo e sindacato a stipulare una scommessa comune con l’imprenditore che propone un nuovo piano industriale. Una scommessa in cui ciascuno mette qualche cosa di suo: il Governo può metterci l’impegno a realizzare le infrastrutture necessarie all’impresa, il sindacato può metterci la disponibilità a condizionare una parte della retribuzione al raggiungimento di obbiettivi di produttività e di redditività concordati».

Nel suo ultimo libro lei parla di “intelligenza del lavoro” e di lavoratori che si scelgono l’imprenditore. È una provocazione, un’utopia?
«No: è quello che già oggi accade alla metà professionalmente più forte della forza-lavoro, dove le persone hanno una possibilità effettiva di scelta dell’azienda più capace di valorizzare le loro capacità. L’articolo 4 della Costituzione imporrebbe che questa possibilità di scelta fosse data a tutti; invece a una buona metà delle persone questo è negato. E non tanto per difetto della domanda di lavoro, quanto per difetto dei servizi di informazione, formazione mirata e assistenza alla mobilità, indispensabili per poter “usare” il mercato del lavoro a proprio vantaggio».

Lei propone di usare i fondi europei per ampliare il sistema di servizi alle persone non autosufficienti: anziani, famiglie con bimbi ecc. Ci può illustrare meglio questa proposta?
«I Paesi scandinavi si sono dotati di un sistema capillare di servizi alle persone e alle famiglie, svolti da persone debitamente formate e retribuite, in forma domiciliare o presso appositi centri. In quei Paesi la disponibilità di questi servizi si combina con i tassi più alti del mondo di occupazione femminile e di condivisione tra i coniugi del lavoro domestico».

I Paesi scandinavi sono molto diversi dall’Italia.
«Oggi, con i fondi che l’UE ci mette a disposizione, all’Italia si offre la possibilità straordinaria di compiere un balzo avanti in questa direzione, creando abbondante domanda di lavoro qualificato per le nuove generazioni, e abbandonando il vecchio “equilibrio mediterraneo” che la ha caratterizzata fin qui: welfare fondato sulla famiglia, quindi sul lavoro casalingo di madri e nonne, e bassissimo tasso di occupazione femminile retribuita.»

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