Le nuove risorse messe a disposizione dalla UE dovrebbero consentire ai lavoratori di adattarsi ai cambiamenti del mondo del lavoro, ma la scadenza per l’inizio dei corsi, finanziati con 700 milioni, è a fine anno; e il percorso per attivarli è quanto mai tortuoso
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Articolo di Lucia Valente, professoressa di diritto del lavoro nell’Università La Sapienza di Roma, pubblicato su lavoce.info il 27 ottobre 2020 – In argomento v. anche Il peso dell’offerta di lavoro inadeguata sulla crescita in Italia
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Un Fondo per aumentare le competenze
Ideato a maggio, il “Fondo nuove competenze” è diventato finalmente operativo il 22 ottobre 2020. Il suo obiettivo è consentire ai lavoratori di adattare le loro competenze ai cambiamenti nella carriera professionale.
In gergo si chiama formazione continua; ma la novità è che la formazione è accompagnata da una riduzione dell’orario di lavoro (la norma parla di “rimodulazione”) a parità di retribuzione per tutti i lavoratori interessati allo sviluppo del proprio capitale umano. Grazie alla stretta collaborazione tra imprese e sindacati – che devono sottoscrivere uno specifico accordo – il Fondo finanzia una sorta di “reddito per il lavoratore in formazione” a carico del Fondo sociale europeo, attraverso il Piano operativo nazionale sistemi di politiche dell’occupazione (Pon-Spao), e delle regioni, attraverso i Piani operativi regionali (Por) e i fondi interprofessionali.
Il problema è che la norma istitutiva del Fondo (art. 88 del decreto legge 34, convertito in legge 128/2020 modificato dall’art. 4, del Dl n. 104, convertito in legge 226/2020) attribuisce un ruolo, nella sua governance, al ministero del Lavoro, all’Anpal, alle regioni, all’Inps, ai fondi paritetici interprofessionali e al Fondo per la formazione dei lavoratori somministrati. Il dialogo tra tutti questi soggetti deve svolgersi mediante intese, convenzioni, pareri, avvisi: sono attività burocratiche che devono concludersi entro il 31 dicembre 2020, data entro la quale, però, devono anche partire i corsi di formazione. Se ogni tassello non va al suo posto entro questa data – ormai molto vicina – il Fondo, che vale più di 700 milioni di euro, non è operativo.
Una corsa contro il tempo
Bisogna dunque correre. Ma il decreto attuativo, emanato con grande ritardo rispetto al decreto legge n. 34 che ha istituito il Fondo, non sembra favorire l’impegno delle risorse in tempi rapidi.
Il primo passo da compiere è un accordo sindacale aziendale o territoriale che deve individuare un progetto formativo per lo sviluppo di nuove o maggiori competenze da acquisire entro novanta giorni (centoventi se la formazione è impartita da un fondo interprofessionale), con una riduzione di orario per ciascun lavoratore di 250 ore al massimo.
Poi occorre presentare istanza di contributo all’Anpal; ma prima bisogna aspettare che l’Agenzia pubblichi sul sito istituzionale un avviso che stabilisca termini e modalità per la presentazione delle istanze datoriali e i requisiti per l’ammissione. Ciò dovrebbe avvenire entro 15 giorni dall’emanazione del decreto interministeriale, cioè entro l’8 novembre, ma l’Anpal è oggi paralizzata da una gravissima crisi interna. Comunque sia, ricevuta l’istanza, l’Anpal deve sentire la regione interessata, la quale si deve esprimere con un parere o, se abbiamo ben capito, anche con il silenzio-assenso (ma la norma nulla dice al riguardo). Poi, sempre l’Anpal valuta il progetto formativo sulla base dei requisiti indicati dal decreto, ma non è stabilito entro quanto tempo deve comunicare all’impresa se è approvato oppure no. Il tutto deve avvenire entro il 31 dicembre visto che il percorso di apprendimento deve iniziare entro questa data. Immaginiamo che le approvazioni seguano un criterio meramente cronologico fino a esaurimento delle risorse. Giunti a questo punto finalmente l’Anpal può deliberare l’erogazione del contributo al datore di lavoro, distinguendo il costo per oneri previdenziali e retributivi e il costo per le ore in formazione.
Il contributo però non è erogato dall’Anpal, presso la quale è istituito il fondo, ma dall’Inps, al quale l’Agenzia trasferisce, previa convenzione, una quota parte del fondo in rate trimestrali. All’Anpal resta il monitoraggio della spesa, i cui esiti devono essere resi noti con cadenza trimestrale.
Resta da chiedersi se la formazione finanziata dal Fondo sia funzionale alla acquisizione di nuove competenze oppure se sia un modo per dare agli adulti scarsamente qualificati una occasione di generica formazione o, peggio ancora, soltanto la via per spendere fondi che l’Italia da tempo ha a disposizione e che ora rischia di perdere a causa dei ritardi dovuti certo al lockdown, ma anche all’incapacità di programmare e realizzare attraverso attività formative a distanza le iniziative a cui sarebbero destinati.
Come si legge sul sito del ministero del Lavoro, il Fondo consente di “innalzare il livello del capitale umano nel mercato del lavoro”, offrendo ai lavoratori l’opportunità di acquisire nuove o maggiori competenze e di dotarsi degli strumenti utili per adattarsi alle nuove condizioni del mercato del lavoro, sostenendo le imprese nel processo di adeguamento ai nuovi modelli organizzativi e produttivi determinati dall’emergenza epidemiologica da Covid-19. C’è però un dettaglio non irrilevante: nessuno tra i soggetti chiamati dal decreto a erogare la formazione entro il 31 dicembre è pronto a offrire corsi che vadano al di là di quelli già disponibili “a catalogo”. Neppure le università, gli Its (istituti tecnici superiori) o gli enti di ricerca accreditati dal ministero dell’Istruzione, i quali non sono certo in grado di impartire ai lavoratori corsi on demand mirati a esigenze specifiche, in ciascuna situazione aziendale, entro il 31 dicembre 2020.
Che il Fondo non avesse grandi ambizioni e non fosse in grado di riformare dalle fondamenta il sistema della formazione professionale è testimoniato dal riferimento agli esiti previsti dalla norma: il conseguimento di una qualificazione di livello EQF 3 o EQF 4. Tradotto: il lavoratore acquisisce le competenze corrispondenti a un attestato di operatore professionale (EQF 3) o diploma professionale (EQF4). Nulla a che vedere con EQF 5, 6, 7, 8, che corrispondono alle qualificazioni possedute dopo aver frequentato un Its o un corso di laurea tra quelli più richiesti dalle imprese, che avrebbero potuto e dovuto costituire gli obiettivi prioritari, considerato il grave difetto di professionalità di questo livello che caratterizza il mercato del lavoro italiano.
C’è da prevedere che il contenuto dei nuovi corsi sarà costituito dalla formazione professionale per svolgere attività da remoto. Insomma, smart working per tutti.
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