Perché non hanno usato i mesi trascorsi dopo la prima ondata dell’epidemia per porsi in condizione di valorizzare davvero lo smart working, attivando l’accessibilità dei dati da remoto, predisponendo l’attrezzatura necessaria e responsabilizzando management e dipendenti su obiettivi precisi di produttività
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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi, pubblicata su Italia Oggi, 23 ottobre 2020 – Tutti gli interventi, interviste e documenti in tema di lavoro agile, pubblicati su questo sito, sono raccolti nel portale Lo smart working
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I servizi pubblici vivono in una sorta di semiletargo da oltre 6 mesi. Tra prima ondata e seconda dell’epidemia non si è fatto nulla per far funzionare davvero lo smart working. E i ritardi nel disbrigo delle pratiche non fanno che aumentare». Pietro Ichino, ordinario di diritto del lavoro dell’Università statale di Milano, considerato padre del Jobs act, ex parlamentare del Pd, commenta il nuovo decreto che impone nella pubblica amministrazione almeno un 50% di prestazioni da remoto per frenare gli spostamenti dei dipendenti e dunque la recrudescenza dell’epidemia. «Ad oggi il ministero non ha fatto una mappatura e una stima precisa delle funzioni che possono essere svolte da remoto, tenuto conto del livello dell’attrezzatura disponibile. In concreto sono ancora una frazione molto modesta». Una stima realistica di quanti dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici possa lavorare bene da remoto? «Non più del 10%». Dopo il Covid, dice Ichino, molto sarà cambiato nel mondo del lavoro, «si allargherà molto la “zona grigia” a cavallo tra l’area del lavoro subordinato e quella del lavoro autonomo. E sarà una sfida epocale per il diritto del lavoro, che dovrà essere in grado di produrre definizioni nuove e, soprattutto, nuove tecniche di protezione».
Professore ci risiamo, riesplode l’epidemia. E Il governo rinnova lo smart working: almeno il 50% nel pubblico. Che cosa è cambiato rispetto alla primavera scorsa?
R. Se devo essere sincero, per il settore pubblico non ho ben capito in che cosa consista la novità: esclusi i reparti che sono da sempre in prima linea, cioè sanità, scuola e pubblica sicurezza, dalla primavera scorsa la maggior parte delle amministrazioni è rimasta in una sorta di semi-letargo. Per gli utenti è sempre difficilissimo accedere agli uffici e l’accessibilità da remoto per gli stessi dipendenti pubblici è stata attivata ancora in troppo pochi casi. I ritardi nel disbrigo delle pratiche sono andati quasi dappertutto aumentando.
Sta dicendo che nei comportamenti del settore pubblico non c’è stata alcuna soluzione di continuità tra la prima ondata dell’epidemia e questa seconda?
R. Non arrivo a dire questo. Però non possiamo dimenticare che dopo il lockdown ha ripreso a funzionare a pieno ritmo solo il settore privato, a maggio. A metà giugno una riunione al ministero della Funzione Pubblica in cui si è incominciato a discutere della riapertura delle amministrazioni ha dato esito negativo. Poi c’è stata la pausa estiva, non seguita da un ritorno alla normalità.
Dunque, secondo lei questa disposizione del governo per cui metà delle funzioni “smartabili” vanno svolte in smart working che significato ha?
R. Vede, avrebbe un significato apprezzabile se il ministero della F.P. avesse utilizzato i mesi passati per fare una mappatura delle amministrazioni e oggi fosse in grado di dirci quante, quali e dove sono le funzioni suscettibili di essere svolte da remoto. Ma ancora oggi il ministero non è in grado di fornire questo dato con precisione. E l’impressione è che a Roma lo si sopravvaluti, confondendo le funzioni che potrebbero essere svolte da remoto in astratto, in condizioni ottimali, e quelle che possono esserlo in concreto, con il livello di attrezzatura di cui oggi dispone ciascuna amministrazione.
Secondo lei quante sono?
R. Secondo la stima ben argomentata di un esperto del settore, Luigi Oliveri, nel giugno scorso non più del 10 per cento dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici era in condizioni di svolgere seriamente da remoto le proprie mansioni. Non mi sembra che da allora gli ostacoli siano stati rimossi, e neppure che ci sia una seria volontà di rimuoverli.
A che cosa si riferisce, precisamente?
R. Un primo requisito elementare per lo sviluppo dello smart working è costituito dalla possibilità di entrare in contatto telefonico, o almeno per email, con la persona che svolge una funzione da remoto. Ma si è mai visto un impiegato della motorizzazione civile, di un ispettorato, di una sovrintendenza, per fare solo alcuni esempi, che sia raggiungibile dal cittadino qualsiasi sul cellulare, o anche solo sul suo indirizzo email? Siamo abituati a considerare quasi sempre impossibile raggiungere dall’esterno le amministrazioni anche utilizzando il telefono fisso dell’ufficio.
Però ci sono anche dipendenti pubblici in smart working che lamentano di lavorare di più che non in ufficio, senza diritto di disconnessione.
R. Certo che ci sono. Il settore pubblico sopravvive – pur con difficoltà – proprio perché ci sono quelli che tirano la carretta lavorando anche per gli altri. Il guaio è che in questo settore vige l’egualitarismo più assoluto: nessuno distingue tra chi tira la carretta e chi si imbosca. E se anche ci fosse chi sa distinguere, sarebbe difficilissimo premiare chi tira la carretta.
Ci sono servizi e uffici per i quali il lavoro agile potrebbe essere concretamente un’opportunità di lavoro ben gestito e con una resa finale dignitosa?
Sì. Ma perché questo accadesse occorrerebbe innanzitutto che il sistema informatico dell’amministrazione e i suoi archivi fossero resi accessibili da remoto; poi occorrerebbe che l’amministrazione dotasse i dipendenti del pc e della connessione adatta; infine occorrerebbe che il management e i singoli dipendenti interessati venissero responsabilizzati in relazione a obiettivi da raggiungere precisi, misurabili, legati a scadenze precise: per esempio, obiettivi di riduzione dell’arretrato, di tempestività dell’evasione delle pratiche, di soddisfazione degli utenti.
La ministra ha annunciato la necessità che i lavoratori siano valutati anche dagli utenti: sarà uno dei punti del prossimo contratto; e che d’ora in poi lo smart working nella funzione pubblica sarà caratterizzato dalla responsabilizzazione dei lavoratori per il risultato.
R. Un buon proposito; auguro alla ministra di riuscirci. Potrebbe incominciare col premiare gli uffici il cui telefono fisso effettivamente risponde all’utente che chiama da fuori: sarebbe già un passo avanti. Osservo però che nei sei mesi passati il suo ministero non è stato in grado neppure di rilevare con precisione che cosa è accaduto, chi ha lavorato davvero e chi no, incontrando quali difficoltà e con quali risultati pratici. Non si parla nemmeno di attivare la sospensione con riduzione dello stipendio all’80 per cento per chi di fatto interrompe la prestazione per un periodo lungo.
E nel privato come sono andate le cose?
Ci sono imprese che hanno reagito positivamente al vincolo del lavoro da casa obbligato, attrezzandosi per rendere strutturale questa forma di organizzazione almeno per una parte dell’attività aziendale, e imprese che invece dopo il lockdown hanno cercato di riportare il più possibile i dipendenti in ufficio. In qualche misura queste due tendenze opposte dipendono comprensibilmente dalle caratteristiche dell’attività svolta.
Lei aveva sostenuto che il lavoro dopo il Covid cambierà, che il lavoro senza una sede fissa sarà molto più diffuso.
R. Non è difficile prevederlo: la pandemia ha costretto moltissime persone a familiarizzarsi con gli strumenti e le tecniche del lavoro da remoto, e ciò faciliterà la diffusione stabile di questo modo di lavorare. Si allargherà molto, così, la “zona grigia” a cavallo tra l’area del lavoro subordinato e quella del lavoro autonomo: una zona nella quale questa distinzione tradizionale già oggi sta perdendo significato. E sarà una sfida epocale per il diritto del lavoro, che dovrà essere in grado di produrre definizioni nuove e, soprattutto, nuove tecniche di protezione.
I sindacati hanno giudicato irricevibile il nuovo decreto. Sostengono che per l’attivazione dello smart working occorresse un contratto collettivo.
R. La disciplina del lavoro agile deve essere integrata con una norma più precisa di quella attuale sul diritto al riposo giornaliero, quindi alla disconnessione, e una sull’accollo all’impresa degli eventuali costi aggiuntivi gravanti su chi lavora da remoto, salva pattuizione contraria. Ma bisogna stare attenti a non mettere piombo nelle ali del lavoro agile, imponendo nuovi vincoli procedurali e conseguenti costi di transazione.
Che ruolo sta giocando e quale dovrebbe svolgere il sindacato in questa situazione?
R. Dovrebbe incominciare a occuparsi seriamente della protezione dei lavoratori nel mercato: la paralisi pressoché totale dell’ANPAL, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, da un anno e mezzo, a causa di un presidente che si occupa di tutt’altro, è una cosa scandalosa. C’è da risolvere, attivando i percorsi di formazione mirata, il paradosso della disoccupazione che aumenta mentre le imprese di molti settori cercano manodopera qualificata e specializzata senza trovarla.
Il governo ha prorogato il blocco dei licenziamenti. Basterà a frenare la emorragia del lavoro?
R. Congelare le eccedenze di forza-lavoro non è mai la scelta giusta. Anche perché l’occupabilità delle persone si riduce col passare del tempo.
Ma con un mercato del lavoro che non si sa quale sarà, chi perde un posto che aiuto può avere, a parte il sussidio?
R. Occorre rafforzare e allungare il trattamento di disoccupazione e incentivare chi lo percepisce a imboccare i percorsi di riqualificazione che conducono agli sbocchi occupazionali esistenti. Che ci sono, eccome, anche in questo momento di crisi nera; e ancor più ci saranno appena incominceremo a uscirne.
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