La decisione del Governo di attivare il lavoro agile per il 75 per cento delle prestazioni astrattamente compatibili non tiene conto del gap che divide la compatibilità in astratto dalla possibilità in concreto
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Articolo di Giuliano Cazzola, pubblicato sul Quotidiano del Sud il 18 ottobre 2020 – Tutti gli altri articoli, interviste e documenti in tema di smart working pubblicati su questo sito sono facilmente reperibili attraverso il portale dedicato a questo argomento .
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Sabino Cassese è lapidario: «Chi dice che nulla è cambiato, che l’amministrazione ha continuato a funzionare è come se abitasse su Urano». L’ex giudice costituzionale, in una conversazione su Il Sole 24Ore, prende di mira la faciloneria con la quale il governo affronta l’introduzione dello smart working nella pubblica amministrazione. Chi scrive condivide le autorevoli opinioni di Cassese, tranne che in un punto: Urano non c’entra nulla. E soprattutto non ha bisogno di ospitare coloro che si avventurano in progetti di sviluppo del lavoro da remoto nella Pa, perché questi venditori di fumo stanno benissimo sulla terra, ma non rinunciano a mentire o a sognare (il che è più grave per un ministro) a occhi aperti.
Le critiche
Cassese dimostra con tanti esempi che alcune attività non possono essere compiute in regime di smart working e pertanto è inevitabile che, mancando la presenza, si chiuda il servizio. Nelle settimane scorse anche Pietro Ichino (in una intervista a La Repubblica, riportata sul suo sito) aveva messo in evidenza le differenze oggettive che esistono nel lavoro da remoto nei settori privati e in quello pubblico. «Nel settore privato ha costituito un’esperienza utilissima – commenta il giuslavorista – ha consentito di acquisire competenze tecnologiche nuove, ha allargato l’organizzazione flessibile del lavoro dischiudendo prospettive di miglioramento della conciliazione fra tempi di lavoro, tempi di cura domestica e tempi di ricreazione, di decongestionamento del traffico e dei mezzi pubblici nelle ore di punta. Nel settore pubblico le cose sono andate molto diversamente. Innanzitutto perché i gestionali e i data-set delle amministrazioni sono per lo più inaccessibili da remoto. Poi perché nel pubblico la responsabilizzazione del management per il raggiungimento di obiettivi misurabili ha scarsissimo corso e ancor meno ne ha la responsabilizzazione degli impiegati. Insomma, nella maggior parte dei casi lo smart working ha coperto situazioni di non lavoro».
Tanto che, in generale, Ichino ammette: «È sbagliato generalizzare. Ci sono molte situazioni nelle quali il lavoratore è stato sottoposto a uno stress superiore al normale, ma anche casi in cui non è andata così o è accaduto l’inverso: si è lavorato meno del solito, o non si è lavorato per nulla. Forse il tessuto produttivo non era preparato a questo shock».
Giustizia e Scuola
Sullo smart working nella Pa non risultano, o almeno non sono diffusi, studi che traccino un bilancio dell’esperienza. Ma vi sono settori delicatissimi per il corretto svolgimento del vivere civile che hanno chiuso i battenti durante il lockdown senza neppure cimentarsi in un sottoprodotto di smart working. È il caso dell’“8 settembre’’ della Giustizia. I cancellieri, costretti a stare a casa, non hanno le autorizzazioni per accedere ed operare sui registri del Pct, cioè del processo telematico. «Per questo – denunciano gli avvocati – gli atti, le istanze, tutto ciò che loro depositavano, non veniva lavorato e passato ai giudici». Ciò è accaduto da marzo e proseguito così fino a luglio. Per accedere ai tribunali, era necessario prendere appuntamento telefonico: peccato che però nessuno rispondesse, perché in servizio c’era una quota di personale che andava dal 20% al 30%.
Nel quotidiano economico in cui è ripresa l’intervista del professor Cassese è riportata una tabella riguardante gli effetti del Covid e del lockdown sui permessi edilizi, nelle principali città della Penisola, del Nord e del Sud. Il motivo prevalente di una diminuzione che arriva, in taluni casi, fino al 50% di quelli rilasciati lo scorso anno, è prodotto dalla impossibilità di accesso agli atti per mancanza di digitalizzazione. Nella scuola si annoverano esperienze di Dad a macchia di leopardo, affidate però alla buona volontà di qualche dirigente scolastico o di insegnanti scrupolosi. Nel settore c’è da riscontrare l’ostilità espressa dai sindacati nei confronti di queste attività, caratterizzate da un sostanziale ‘’fai da te’’.
L’indagine
Nel maggio scorso (in situazione di regime di lockdown inoltrato) la Fondazione Di Vittorio della Cgil ha pubblicato un’indagine sul campo (senza pretendere di attribuirle in valore scientifico) dalla quale risultava che prima dell’emergenza Covid, in Italia, lavoravano da remoto circa 500mila persone. Nelle settimane di lockdown si stimava che fossero più di 8 milioni. L’indagine si è svolta attraverso la distribuzione di un questionario, che è stato compilato da 6.170 persone, un universo davvero robusto che dimostra l’elevato interesse di lavoratrici e lavoratori a esprimersi su questo tema, e con una buona distribuzione per classi di età (considerando la popolazione in età lavorativa), per macroaree geografiche e anche rispetto al dove si vive, ossia i rispondenti si distribuiscono in modo uniforme tra città capoluogo di provincia, piccoli e medi centri di provincia, centro e periferia. I titoli di studio sono medio-elevati e questo dato è associato alle tipologie di lavoro che possono essere svolte da casa, in fase di lockdown. Nel 94% dei casi hanno risposto lavoratrici/lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, dei quali il 73% svolge un lavoro impiegatizio, 20% quadro o funzionario, 2% dirigente. Il 66% di chi ha partecipato lavorava nel settore privato, il 34% nel pubblico. L’indagine ha tratto anche delle conclusioni sintetiche sulla diffusione e le tipologie del lavoro da remoto (si veda il grafico a sinistra).
Il carro davanti ai buoi
Il governo, negli ultimi provvedimenti adottati per prevenire l’ampiezza della seconda ondata del contagio, ha indicato un potenziamento dello smart working in termini generali attraverso disposizioni che ne favoriscano l’utilizzo. Come datore di lavoro sembra orientato a rendere il più possibile normale il lavoro da remoto nella Pa. Non sarà come mettere il carro davanti ai buoi? In pratica, si ha l’impressione che lo scopo vero di questa misura sia rivolto a ridurre gli assembramenti e i contatti personali – e quindi la possibilità di contagi – piuttosto che avviare un nuovo modo di essere al servizio dei cittadini. Sarà curioso vedere come funzionerà la semplificazione amministrativa quando gli uffici continueranno a restare chiusi con il personale consegnato a domicilio.
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