LA PROGETTUALITÀ DEL LAVORO NELL’ERA DELLA TRASFORMAZIONE 5.0

Occorre spianare e dotare della segnaletica necessaria i percorsi che conducono ai moltissimi posti di lavoro qualificato e specializzato disponibili nel tessuto produttivo del Paese, ma che rimangono scoperti; agire secondo una logica “ambidestra”, puntando anche sulla capacità degli attori di capire il mercato del lavoro

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Recensione de  L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore, a cura di Raoul Nacamulli, professore di Organizzazione Aziendale nell’Università di Milano-Bicocca, in corso di pubblicazione sulla Harvard Business Review Italia – Le altre recensioni, interviste e lettere sul libro si trovano, in ordine cronologico, nel portale ad esso dedicato
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Il prof. Raoul Nacamulli

Per far sì che il mercato del lavoro del nostro Paese diventi un motore dello sviluppo del capitale umano non bastano gli interventi di sistema orientati alla flexsecurity, anche se sono indispensabili. In altre parole, la qualità dei servizi di accompagnamento e di formazione a supporto di un mercato del lavoro in continuo cambiamento costituisce solo una condizione necessaria ma non sufficiente. Nell’era della tecnologia 5.0 i contenuti professionali di molti ruoli cambiano, altri scompaiono ed altri ancora, che prima non esistevano, divengono fondamentali. Quindi, se si vuole che il mercato del lavoro funzioni davvero, ci vuole un vigoroso cambiamento di cultura: bisogna cioè che si sviluppi una cultura dell’intelligenza del lavoro fondata sulla progettualità degli attori. Gli attori intelligenti del mondo del lavoro devono essere, anzitutto, coloro che sono in prima linea: sono le  persone le dirette  interessate che debbono abbandonare il  tradizionale orientamento alla difesa del posto di lavoro esistente per orientarsi a sviluppare, in maniera dinamica, la propria  occupabilità. Anche i sindacati dovrebbero rinnovarsi culturalmente per arrivare ad assumere il ruolo d’intelligenza collettiva dei lavoratori. Ma andiamo con ordine! Anzitutto, secondo Pietro Ichino una vera protezione delle persone che lavorano dovrebbe essere di sistema. Bisognerebbe cioè «spianare e dotare della segnaletica necessaria i percorsi che conducono alle molte centinaia di migliaia di posti disponibili nel tessuto produttivo del Paese, ma che in genere rimangono scoperti».  A ben vedere, continua l’Autore, è proprio l’ampiezza dei  “giacimenti  occupazionali” inutilizzati dovuti alle difformità fra domanda ed offerta ciò che rappresenta la punta dell’iceberg dell’incapacità del nostro mercato del lavoro di funzionare in maniera adeguata:  infatti in Italia le opportunità di sbocco per certi ruoli professionali non mancano, ma risulta insufficiente il numero di  candidati in possesso di  competenze adeguate. L’effetto è la cosiddetta “trappola delle competenze”: questo implica che, a causa dell’inadeguatezza delle skill presenti sul mercato, opportunità apprezzabili di lavoro e di sviluppo di carriera finiscono disperse. A livello quantitativo i giacimenti occupazionali inutilizzati non sono poca cosa: prima della crisi innestata dalla pandemia in corso venivano censiti da Unioncamere e ANPAL circa 1,2 milioni di posti di lavoro, distribuiti in tutti i settori e livelli professionali, che restavano scoperti per insufficienza di persone idonee ad occuparli. Certo, il fenomeno del disallineamento fra domanda ed offerta di lavoro non è solo una caratteristica italiana, tuttavia l’Italia è fra i Paesi in cui le difficoltà d’incontro ed il divario fra competenze dei lavoratori e richieste delle imprese risultano strutturalmente più ampi.  Insomma, da noi accade più che altrove, che i  candidati siano troppo o troppo poco qualificati  rispetto a quanto richiesto dal contesto.  Pietro Ichino sottolinea che  «è scandaloso che in un Paese dove la disoccupazione giovanile è altissima ci siano imprenditori che cercano figure professionali che non trovano».  Lo scandalo diventa più grave quando si constata che dietro l’angolo si trova un potente moltiplicatore dell’intensità e del numero dei divari fra competenze offerte dai lavoratori e quelle richieste dal mercato.

Non è certo un segreto che la rivoluzione digitale finirà per travolgere molti dei vecchi mestieri che ancora esistono e farà emergere prepotente il bisogno di creare nuove professioni, ruoli e competenze. Insomma per rendere, da un lato, i giacimenti occupazionali una fonte di ricchezza concreta facendoli  emergere, e per fare fronte, dall’altro lato, alla sfida importante del riskilling collegata alla rivoluzione digitale in corso, risulta più che mai urgente costruire le condizioni per un revamping delle politiche attive del lavoro: servizi d’informazione, di formazione e assistenza mirata capaci di mettere in comunicazione domanda ed offerta di lavoro per generare ricchezza inclusione e benessere collettivo.

Tuttavia, come si è detto, la messa in campo di politiche attive del lavoro evolute orientate alla flexsecurity costituisce un fattore necessario ma non sufficiente per l’innovazione del mercato del lavoro italiano. In altri termini, le  politiche attive del lavoro sono solo un fattore abilitante il cambiamento.  Quello che serve per cambiare davvero le cose è che si faccia strada una mentalità nuova: una cultura pervasiva di progetto degli attori del mercato del lavoro. Dunque ciò che risulta essenziale per fare sì che le cose nel mercato del lavoro accadano è l’intelligenza del lavoro. In questa prospettiva gli attori del mercato del lavoro 5.0 debbono diventare sempre più capaci di cooperare per realizzare progetti, sviluppare nuove competenze e apprendere ad apprendere. È cioè indispensabile che le persone  superino la cultura dell’occupazione  propria del Novecento per abbracciare quella dell’occupabilità che risulta necessaria nell’era attuale. Per le organizzazioni sindacali 5.0 intelligenza del lavoro vuol dire anzitutto modelli di contrattazione aziendale e territoriale decentrata ed anche fornire un contributo per fare sì che il mercato del lavoro «non sia soltanto il luogo in cui gli imprenditori scelgono i lavoratori da assumere più adatti alle loro esigenze, ma pure quello  in cui sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore maggiormente in grado di valorizzarli». Insomma, per avere un mercato del lavoro veramente capace di sviluppare capitale umano nell’era della rivoluzione digitale bisogna che si agisca secondo una logica ambidestra: si deve, da un lato, puntare su un salto di qualità  nei sistemi di supporto alla mobilità del lavoro, e dall’altro, in maniera complementare, sullo sviluppo di  un’intelligenza degli attori del mercato del lavoro orientata alla progettualità.

 

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