Come la finzione del lavoro agile viene utilizzata per nascondere la sospensione del lavoro nel settore pubblico ed evitare il confronto fra trattamento dei dipendenti di questo settore rispetto a quello privato
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Intervista a cura di Laura Della Pasqua pubblicata sul quotidiano la Verità il 28 luglio 2020 – Tutti gli altri articoli , interviste e documenti sullo stesso argomento sono raccolti nel nuovo portale Lo Smart Working
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“Il 50% dei dipendenti pubblici in smart working? No, oggi non può funzionare”. Pietro Ichino, giuslavorista, accademico, un passato in politica, prima nel Pd poi in Scelta Civica con Monti e autore di numerosi libri (l’ultimo è L’intelligenza del lavoro, Rizzoli) ha scatenato un vespaio per alcune dichiarazioni critiche sugli effetti di quella che lui considera una finzione del lavoro “agile”.
Professor Ichino, nonostante la polemica sulla sua affermazione, secondo cui lo smart working per i dipendenti pubblici, nella maggior parte dei casi, è stata una lunga vacanza retribuita, il Governo ha disposto la stabilizzazione dello smart working nelle amministrazioni. Cosa ne pensa?
Ne penso male. Ma non perché io sia contrario allo smart working, al contrario! Il punto è che questa nuova forma di organizzazione del lavoro ha due presupposti imprescindibili, che per lo più nel settore pubblico fanno difetto.
Quali sono questi presupposti?
Il primo è un rapporto di lavoro strutturato sulla responsabilità per il raggiungimento di obiettivi precisi del dirigente, innanzitutto; e, a cascata, di ciascun dipendente. Nelle amministrazioni questa trasformazione è ancora lontanissima dall’essere compiuta in modo diffuso.
Mancano i controlli sulla produttività del lavoro a distanza?
Manca, prima ancora, la cultura della responsabilizzazione per i risultati. Certo che occorrono anche i controlli, ma quelli vengono dopo.
E il secondo presupposto?
È la strumentazione: occorre un sistema informatico dell’amministrazione strutturato per essere accessibile da remoto in condizioni di sicurezza, e una persona operante da remoto dotata del pc adatto e di una connessione che funziona bene. Prendiamo per esempio la Rete unica Giustizia: nella maggior parte dei casi i cancellieri lasciati a casa non hanno la possibilità di accedervi da remoto. Lo stesso discorso vale per i gestionali e i data-base della Motorizzazione civile, degli Ispettorati del lavoro, delle Sovrintendenze, del Catasto urbano e rurale, e così via. Se questa è la situazione, che senso ha stabilire per legge che metà degli addetti a queste amministrazioni ha diritto a lavorare in regime di smart working?
Dunque la norma che impone alle amministrazioni di marciare a pieno ritmo con metà soltanto dei dipendenti in ufficio e gli altri a lavorare a casa non può funzionare?
Qui c’è un punto che va chiarito. La norma dice che deve essere garantito, quest’anno, il 50 per cento di smart work riferito alle attività suscettibili di essere svolte in questo regime. Il veleno della questione sta in quest’ultimo concetto: se fosse pacifico che, in assenza dei due presupposti di cui abbiamo parlato prima, l’attività non può essere svolta da remoto, la norma oggi avrebbe un impatto pratico limitatissimo, quasi irrilevante.
Invece?
Il problema è che i sindacati già ora sostengono che la norma faccia riferimento non alla possibilità in concreto oggi, ma a una possibilità astratta che l’attività sia organizzata, in futuro, in modo da poter essere svolta da remoto. A quel punto la platea dei candidabili si allargherebbe molto, e il 50 per cento costituirebbe una quota assai rilevante dei dipendenti.
Ma quel 50 per cento verrebbe lasciato a casa a far poco o nulla. Come possono i sindacati spingersi a rivendicare questo?
Loro dicono: “La legge imporrebbe all’amministrazione di attrezzarsi per rendere possibile l’attività organizzata così. Se l’amministrazione non ne è capace, sono problemi suoi; intanto io ho diritto di stare a casa”. Salvo, poi, naturalmente, opporsi a che sia disponibile su Internet l’indirizzo e-mail e il numero di cellulare della persona che lavora da remoto, in nome della tutela della privacy.
A questo proposito, lei in una lettera aperta, pubblicata sul Corsera ha chiesto alla ministra Dadone quale è la percentuale di dipendenti pubblici la cui funzione si presta effettivamente ad essere svolta da remoto, e se ci sono state delle verifiche precise sulla produttività dei singoli impiegati che sono stati a casa da marzo a oggi. Ha avuto una risposta?
Non risponde su questo punto neppure alle interrogazioni parlamentari, si figuri se risponde a un privato cittadino.
“Diritto di stare a casa se sei in quel 50 per cento”: chi lo decide e secondo quali criteri?
Logica e buona gestione richiederebbero che anche nel settore pubblico, come in quello privato, lo smart working nascesse attraverso il diffondersi graduale nel vivo del tessuto produttivo delle attrezzature necessarie, il maturare delle esperienze, la progressiva trasformazione della cultura del lavoro, lo svilupparsi di quella responsabilizzazione per i risultati di cui parlavamo all’inizio. Se invece la promozione dello smart working avviene a colpi di quote imposte per legge, come previsto dalla nuova norma, la parola passerà alle graduatorie, ai certificati medici, alle carte bollate. E questa che potrebbe essere una novità importantissima, gestita da un management aggiornato e responsabilizzato, verrà svilita a un “diritto a starsene a casa” per una parte di dipendenti privilegiati, gestito da avvocati e sindacalisti.
Nella ripresa si sta creando una disparità di trattamento. Lei ha scritto che mentre i privati per sopravvivere si arrabattano per riaprire tra mille costi, troppi uffici pubblici non addetti ai servizi di prima linea restano chiusi. È logico che i lavoratori dei due comparti abbiano lo stesso trattamento salariale?
Ovviamente no. Logica vorrebbe che dove il lavoro deve restare sospeso per ragioni sanitarie, scatti il meccanismo dell’“ammortizzatore” nel settore pubblico come in quello privato: cioè una copertura assicurativa che garantisce tre quarti o quattro quinti del reddito. Nel settore pubblico, invece, nonostante che un meccanismo di questo genere sia previsto dall’articolo 33 del Testo Unico n. 165/2001, questo non accade. E la cosa inaccettabile è che per eludere la questione si usi proprio la finzione dello smart working: la finzione che in realtà nel settore pubblico il lavoro non sia mai stato sospeso.
Cosa accadrà nella pubblica amministrazione e nel rapporto con il cittadino se il lavoro da remoto continuerà ancora fino alla fine dell’anno?
Tutti i difetti, le lentezze e i ritardi delle amministrazioni, che tanto pesano sul sistema economico nazionale, si aggraveranno. Ma la ministra Dadone è serena, perché secondo lei la produttività delle amministrazioni, invece, è addirittura aumentata.
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