Da organizzatore e difensore dell’operaio-massa, il sindacato deve trasformarsi nell’intelligenza collettiva che guida i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore sull’innovazione e su forme di retribuzione legate alla produttività; il che porta dritto dritto a un aumento del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa
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Articolo destinato a una raccolta di contributi sul ritorno alla crescita del sistema economico dopo la pandemia, promossa dalla Fondazione Zaninoni di Bergamo, e in corso di pubblicazione per l’ottobre 2020 – Gli altri articoli e interviste sullo stesso argomento pubblicati su questo sito sono raccolti nel portale dedicato allo smart working
Se alla fine il Covid-19 avrà avuto l’effetto di allargare la sperimentazione del lavoro agile, o smart work, e farne conoscere i possibili vantaggi, questo sarà un pur piccolo contrappeso positivo ai molti e gravissimi danni prodotti dall’epidemia. Alla vigilia della pandemia questa forma di organizzazione del lavoro dipendente era ancora molto meno diffusa di quel che avrebbe potuto essere, anche perché era conosciuta poco o in modo troppo impreciso: erano poco comprese le enormi sue potenzialità sul terreno del risparmio dei tempi di spostamento delle persone e dei costi logistici aziendali, ma anche sul terreno della riduzione del traffico urbano e dell’inquinamento. A sei mesi di distanza questo dato è mutato in maniera impressionante.
Che cosa si intende col termine “lavoro agile” e la sua differenza dal “tele-lavoro”
Lo smart work o lavoro agile, è la prestazione lavorativa che, pur svolta in regime di subordinazione, si caratterizza tuttavia per il fatto di essere svincolata per alcuni periodi della settimana, del mese o dell’anno dall’obbligo di svolgersi in un determinato luogo piuttosto che in un altro; e, nella versione più spinta, dall’obbligo di svolgersi secondo un determinato orario. Il coordinamento spazio-temporale, che caratterizza da sempre il lavoro subordinato tradizionale, è sostituito dal coordinamento informatico e telematico, il quale consente alla persona interessata di compiere il proprio lavoro mediante pc e Internet dal luogo liberamente scelto, purché sia possibile l’interconnessione stabile, o almeno la comunicazione e lo scambio di dati in tempo reale con l’azienda.
L’antecedente storico del lavoro agile è il tele-lavoro, che ha avuto qualche diffusione già negli anni ’80 ed è stato oggetto di accordi aziendali in alcune grandi imprese. Ma si tratta di una cosa molto diversa: il telelavoro era una forma di organizzazione tutt’altro che agile. Comportava infatti l’istallazione presso l’abitazione del lavoratore o in altro luogo concordato di una postazione attrezzata fissa assai ingombrante, con una consolle e un monitor, collegata con l’azienda via cavo o via radio, mediante la quale la persona interessata svolgeva a distanza, esattamente come la avrebbe svolta recandosi in azienda, un’attività di contenuto professionale per lo più modesto: mansioni di centralino, di call centre, e simili. Il tele-lavoro, dunque, non consentiva affatto la libera scelta e variabilità del luogo e del tempo di svolgimento dell’attività. Implicava un ingente investimento da parte dell’impresa ed era compatibile soltanto con un novero assai ristretto di mansioni.
Il lavoro agile, invece, non richiede un investimento rilevante, è praticabile in una gamma amplissima di mansioni, ed è particolarmente congeniale a quelle di contenuto professionale più elevato. Dalla metà degli anni ’90 accade sempre più diffusamente che un lavoratore dipendente, d’accordo con l’imprenditore, in determinati periodi nella giornata, nella settimana, nel mese o nell’anno, svolga la prestazione da un luogo qualsiasi, liberamente scelto di volta in volta, diverso dalla sua postazione situata nei locali dell’azienda. E in alcuni casi non sono dei singoli segmenti, ma è l’intera prestazione di lavoro a essere svolta secondo questa modalità: il lavoratore in azienda ci va solo ogni tanto, o in alcune occasioni particolari, ma per il resto del tempo è contattabile solo via telefono, email o altre forme di comunicazione telematica.
Il rischio della iper-giuridificazione
Oggi l’“agilità” dello smart work rischia di perdersi, almeno in parte, se essa viene facogitata dal business della burocrazia giuslavoristica, incominciando così a essere appesantita da regole, verbalizzazioni, scartoffie e ricorsi.
A ben vedere, questo processo è già cominciato con la legge n. 81 del 2017, che ha avuto, sì, il merito di riconoscere il diritto di cittadinanza del lavoro agile nell’ordinamento, ma ha avuto anche il demerito di introdurre qualche primo elemento di burocrazia che sarebbe stato meglio evitare.
Il rischio è che il processo di giuridificazione prosegua con il consolidarsi per legge di un “diritto al lavoro agile” che è già stato introdotto per decreto in riferimento all’emergenza sanitaria, sia per il settore pubblico sia per quello privato. Questa disposizione, se da emergenziale diventasse stabile, comporterebbe l’onere permanente per il management aziendale di verbalizzare i motivi del rifiuto opposto alla richiesta di qualsiasi dipendente di poter lavorare da casa. Anche chi svolge mansioni che non possono svolgersi in alcun modo “da remoto”, come quelle di un addetto alla reception, di un bidello, di un custode di museo, di un magazziniere, potrebbe rivendicare lo spostamento a mansioni compatibili. E i motivi dell’eventuale rifiuto diventerebbero a quel punto un possibile oggetto di impugnazione e quindi verifica in sede giudiziale, col risultato di sostituire il giudice del Lavoro all’imprenditore in questo aspetto della gestione aziendale.
Il contenzioso giudiziale ha già incominciato a fiorire sulla base dei decreti emergenziali, e già si hanno le prime sentenze che condannano aziende pubbliche e private a consentire il lavoro da casa su prescrizione del medico. Uno smart work promosso in questo modo non ha evidentemente più niente di smart: nasce con un imprinting contenzioso, quindi senza alcun rapporto di fiducia tra le parti, come una sorta di esonero parziale per persone che hanno dei problemi invece che come evoluzione organizzativa guidata dalle persone più motivate e professionalmente attrezzate.
Se lo vogliamo promuovere davvero, non dobbiamo puntare sulle carte bollate, ma sugli incentivi ai servizi necessari per la sua diffusione, tra i quali in primo luogo la proliferazione capillare di luoghi adatti al lavoro agile, a disposizione di tutti coloro – e sono la maggioranza – che non hanno nella propria abitazione un locale adatto per svolgervi la propria attività professionale, ma sarebbero fortemente interessati ad averne uno a disposizione nei pressi, il cui costo sia a carico dell’azienda.
Soprattutto, occorre promuovere un mutamento diffuso della cultura del lavoro, di cui per ora nel nostro Paese si osservano soltanto alcune prime manifestazioni.
Un mutamento profondo nella struttura del rapporto di lavoro e nel ruolo del sindacato
Il vero problema per la diffusione del lavoro agile sta nel fatto che esso comporta un mutamento profondo nella struttura del rapporto contrattuale. Viene meno, infatti, la possibilità di misurare la quantità del lavoro sulla base della sua estensione temporale: il creditore della prestazione può osservarne solo il risultato immediato, e di questo tenere responsabile il lavoratore. Donde una piccola rivoluzione nei sistemi di gestione del personale, per la quale molte imprese non sono preparate.
Quanto più la persona che lavora è responsabilizzata sul risultato, tanto più il rischio che il risultato non venga raggiunto, anche per cause esterne, ricade su di lei. Insomma, il lavoro dipendente finisce coll’assomigliare molto al lavoro autonomo. Non è un caso che il lavoro agile – quando veramente di questo si tratta e non di una sua caricatura, come sta accadendo in questo periodo di emergenza sanitaria nel settore pubblico – piaccia di più alla parte più motivata e più produttiva della forza-lavoro. Conseguentemente, allo stesso tempo si allentano i legami di solidarietà tra gli appartenenti a una stessa categoria professionale in seno all’azienda.
Il sindacato, se vuole stare al passo con questa trasformazione e non rimanerne escluso, deve cambiare pelle. Da organizzatore e difensore dell’operaio-massa deve diventare l’intelligenza collettiva che guida i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore sull’innovazione, quindi nella negoziazione di forme di retribuzione più legate all’aumento della produttività, se non addirittura della redditività dell’azienda. Il che porta dritto dritto a un aumento del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa. Del resto, nell’idea del lavoro agile c’è già, in embrione, l’idea della partecipazione del lavoratore alla gestione e al rischio dell’impresa.
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