“L’avversione per i borghesi e i ricchi, se si toglie lo scudo del cristianesimo, non porta dritto dritto all’odio di classe, all’estremismo, ed eventualmente alla violenza?”
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Lettera pervenuta il 19 luglio 2020 – In argomento v. anche la mia intervista del 26 giugno 2020, 57mo anniversario della morte di don Lorenzo Milani, In extremis omnia sunt communia – Tutte le altre lettere, recensioni e interviste relative al libro La casa nella pineta sono facilmente raggiungibili attraverso la pagina web dedicata al libro .
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Caro senatore Ichino (mi scusi per il “caro” e anche per il “senatore”, ma non ho trovato un modo diverso per indirizzarmi a Lei), ho appena letto il Suo libro La casa nella pineta, regalatomi da mia figlia Silvia. Silvia abita in piazza Wagner, così prossima a tutto quanto lei racconta di Milano, ma non avendo letto il testo non ne è consapevole.
Le scrivo perchè mi sono stupito per molte coincidenze (che si accompagnano a importanti divergenze), e per sottoporLe una questione. Ho 6 anni più di Lei, ed ho abitato a lungo nella stessa zona: prima in corso Magenta, poi in via Andrea Verga, prima di sposarmi nel 1970. Ho frequentato la Scuola Media Giulio Cesare (poi abolita) che era contigua al Liceo Manzoni in via Orazio; e più tardi ho conosciuto don Giovanni Barbareschi, quando il Raggio Manzoni ancora si teneva in piazza S.Ambrogio.
Ma soprattutto ho frequentato per un paio d’anni don Bernardino Mauri, quando (dopo molti anni in Azione Cattolica, in GS ed in FUCI) già mi avviavo a diventare un non credente, o meglio una sorta di panteista, lontano da tutte le religioni rivelate. Di don Bernardino ricordo la grandissima umanità e la profonda onestà intellettuale. Cercò di convincermi che non aveva senso mi sposassi in chiesa, viste le mie convinzioni; ma non ebbi il coraggio di dare ai miei una così cocente delusione, per cui (d’accordo con mia moglie, che era in una situazione analoga) si fece, altrove, un matrimonio religioso. Poi osservai talvolta, senza realmente partecipare, quelle “messe fuori dalla chiesa”, ma ormai ero lontano da ogni coinvolgimento ecclesiale.
Del suo libro, che ho apprezzato molto, mi hanno colpito la finezza, la ricchezza ma soprattutto la sincerità anche nei passaggi più difficili e più intimi, come la vita negli anni di piombo o gli ultimi rapporti con Suo padre.
Ma il problema che Le sottopongo riguarda don Milani. Anch’io lessi a suo tempo la Lettera a una professoressa (e forse anche L’obbedienza non è più una virtù), libro che certo contribuì, assieme a molte altre esperienze, al mio cambiamento di quegli anni. Ma rileggendo quanto Lei scrive, nonchè le lettere fotocopiate del 1959, ho percepito nella posizione di don Lorenzo un moralismo davvero intollerante ed estremo. Una “intolleranza di sinistra”più accentuata rispetto a tutti quegli altri che io chiamo (impropriamente) catto-comunisti, come don Mazzolari, Dom Franzoni, La Pira, don Mazzi dell’Isolotto o lo stesso Turoldo.
Questa avversione per i borghesi e i ricchi, se uno toglie lo scudo del cristianesimo (scudo che non può essere garantito per sempre, basta vedere il mio caso personale) mi pare porti dritto dritto all’estremismo, all’odio di classe ed eventualmente alla violenza (tenga conto che io ho fatto un po’ di anni come iscritto al PCI ed ora lo sono al PD). Questo emerge in fondo anche dalla carrellata storica che Lei fa, tra il 1968 e gli anni di piombo. Che ne pensa?
Molto cordialmente,
Gianfranco Pittini
P.S. Anni fa inviai anche a Lei (non ricordo a che titolo) una sorta di “proposta economica generale”, basata sull’ecologismo, la riqualificazione scolastica ed un miglioramento del turismo, dell’artigianato, ecc. Era sicuramente un po’ ingenua. Comunque, Lei fu l’unico a rispondermi!
Alla domanda di G.P. – che ringrazio per offrirci questa interessante occasione di chiarimento e dibattito – circa un possibile nesso oggettivo tra la predicazione di don Lorenzo Milani e il terrorismo di sinistra, che solo cinque anni dopo la sua morte incominciò a insanguinare l’Italia, mi sento di rispondere in senso nettamente negativo per tre motivi. Il primo è costituito dal rifiuto radicale della violenza, che intesse tutto il pensiero di don Lorenzo: lui prevedeva che la violenza rivoluzionaria potesse scatenarsi, ma aveva cura di avvertire sempre che quando ci fosse stato un fucile puntato lui si sarebbe trovato dalla parte di chi ce lo aveva puntato addosso, quali che fossero le sue eventuali responsabilità. Il secondo è la considerazione che – come ho avuto occasione di sottolineare anche recentemente – quello di don Lorenzo era un comunismo di natura etica e teologica molto più e molto prima che politica, con radici profondamente radicate nella tradizione evangelica, quindi in una ideologia intrinsecamente non violenta.
Vero è che nel corso del ’68, del ’69 e degli anni successivi mi è accaduto assai spesso di vedere il libretto di Lettera a una professoressa affiancato da qualche predicatore della violenza proletaria al libretto rosso di Mao. Ma in quegli anni, se è per questo, erano in molti anche quelli che pretendevano di giustificavare esplicitamente la violenza proletaria con il Vangelo. (p.i.)
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